da Ri(e)mozioni novecentesche
Dieci saggi narrativi su dieci idee

Roma, Studium Edizioni, 2019


INDICE

Parte prima – IL TEMPO, IL SACRO

I. Gli evasi dal Tempo
II. Cercasi Sacro disperatamente

Parte seconda – LA MENZOGNA, L’IDIOZIA

III. Testimoni della Menzogna: l’orco e il fachiro
IV. Il soffio lungo dell’Idiozia

Parte terza – IL VIAGGIO, LA PAURA

V. Futuro interiore, l’ultimo Viaggio
VI. Dove si è nascosta la Paura?

Parte quarta – L’OMBRA, LO SGUARDO

VII. Confini dell’Ombra, tra arte e pipistrelli
VIII. Lo Sguardo in ritardo

Parte quinta – IL SOGNO, LA CITTÀ

IX. Il Sogno, una storia imperfetta
X. La Città-immagine

Note

I. Gli evasi dal Tempo

Peter è molto vecchio, ma in realtà ha sempre la stessa età e quindi l’età non ha la minima importanza per lui. Ha solo una settimana e benché sia nato tanto tempo fa, non ha mai avuto un compleanno e non c’è la minima possibilità che ne abbia uno.

Più veloce di una pallottola!
Più potente di una locomotiva!
Capace di scavalcare i grattacieli con un solo balzo!
Guarda! Su nel cielo!
È un uccello!
È un aereo!
È SUPERMAN!

***

   Ogni epoca pretende i suoi miti, ogni mito modella la propria epoca. I due miti più presenti nel nostro tempo – fondati, peraltro, proprio sulla negazione del tempo – bisogna pescarli nei generi cosiddetti ‘minori’: nella letteratura per l’infanzia e nel fumetto. Sono Peter Pan, il bambino che non voleva crescere, e Superman, l’uomo d’acciaio. Sono due facce della stessa medaglia.
   Il Novecento, in Occidente, malgrado o forse proprio a causa delle due guerre mondiali, è un secolo che ha rifiutato la tragedia. La dimensione tragica postula l’impossibilità della vittoria sul male, l’inconciliabilità degli estremi, la bellezza e l’inutilità della catarsi; dipinge un mondo dove la conflittualità è permanente e le soluzioni, anche quelle efficaci, del tutto transitorie. In questo scenario l’uomo del Novecento non vuole, non può riconoscersi. Il suo ottimismo (maniacale) di fondo lo spinge verso l’idillio su vasta scala, in un territorio mentale e geografico avulso dalla realtà, privo di sedimentazioni, un universo senza problemi che non siano quelli dettati dalla contingenza. Un universo, in definitiva, senza storia.

   Questo mondo altro all’inizio del secolo esisteva già. Creando nel 1902 la figura di Peter Pan, lo scrittore scozzese James M. Barrie si premurò anche di fornirgli un regno. Dapprima pensò ad un parco cittadino, luogo di idillio silenzioso ed agreste nel cuore di una Londra caotica, industriale, ovvero i giardini di Kensington, territorio circoscritto e tuttavia impossibile da percorrere completamente: “Nessun bambino ha mai visto i Giardini per intero perché presto è tempo di tornare indietro. E l’ora di tornare indietro viene presto perché se siete piccoli come David dovete dormire dalle dodici all’una. Se vostra mamma non fosse così decisa a farvi dormire dalle dodici all’una, è probabile che potreste vederli tutti”. Poi, anche per tirarsi fuori da queste inique costrizioni orarie, nacque, come pura creazione letteraria, come perfetta sintesi dell’immaginario avventuroso infantile, l’Isolachenoncè, nostalgicamente rievocata dall’autore a nome di tutti gli adulti: “Anche noi siamo stati là, forse potremmo ancora udire il suono della risacca, anche se mai più vi approderemo”. L’isola, pur nei periodi di massima frenesia, coi feroci pirati alla caccia dei bimbi smarriti e sulle orme dei pirati “i pellerosse, con gli occhi senza ciglia” e dietro di loro le fiere, gli animali feroci, ultimo un gigantesco coccodrillo, è comunque il luogo di un tempo ripetitivo, senza divenire, infatti “Tutti andavano torno torno per l’isola ma nessuno s’incontrava, perché ciascuno camminava nello stesso senso”. Quanto ai ragazzi che la popolano, sono serenamente condannati alla fanciullezza: “Quando poi sembrava che qualcuno crescesse, ciò che era assolutamente contrario alla regola, Peter mandava via quelli troppo grandi”.
   La Metropolis tentacolare e avveniristica che fa da sfondo alle gesta di Superman obbedisce agli stessi criteri psicotemporali. I cittadini alacri come formiche che la percorrono incessantemente non rappresentano un vero e proprio movimento, non sono protesi verso una meta, verso un futuro: essi stessi sono il futuro. I loro guai, anche i più grandiosi, costituiscono gli incidenti inevitabili di un percorso già tracciato. E per Superman, che viene da un altro mondo, la terrestre Metropolis cos’è mai se non un’isola di sogno, un luogo di rocambolesche, esaltanti avventure?
[…]

IV. Il soffio lungo dell’Idiozia

   Vola la piuma sui titoli di testa, vola sulla città, cala lentamente tra alberi e palazzi, tra guglie e grattacieli, poi ancora più giù nel cielo senza nubi, mentre una musica fiabesca e un po’ esitante, incisiva eppure discreta, la accompagna, e ancora torna giù la foglia, sempre più giù, lambisce tetti e cornicioni, si posa sulla spalla d’un passante che sta per attraversare la strada, poi sfiora il cofano di un’auto, quindi con svagata sicurezza si dirige verso la panchina e termina il suo viaggio atterrando sulla scarpa da ginnastica dell’uomo seduto, che la raccoglie con delicatezza e la osserva bene prima di aprire una valigetta stipata di oggetti – eppure ordinata – e di riporla tra le pagine d’un libro: e su quel libro è dipinto il cielo di una città. Poi, quando una matura signora di colore prende posto accanto a lui sulla panchina, l’uomo si presenta: “Giorno. Mi chiamo Gump. Forrest Gump”.

   La saga dell’idiota parte così, leggera leggera, come una bottiglia di spumante aperta senza clamori, il tappo che non rimbalza sui muri, niente applausi né auguri. Con l’automatismo lineare che lo caratterizza, Forrest si racconta, benché nessuno gli chieda di narrare, e parte naturalmente dal principio, dalla sua nascita, anzi dal suo nome, preso in prestito da un generale della guerra civile, poi fondatore del Ku-Klux Clan: ed è questo il primo dei richiami storici, dei lasciti di una società che da un lato sembra ignorarlo o disprezzarlo, dall’altro tenta di condizionarlo, di piegarlo alle proprie esigenze, ma senza riuscirvi.
   Perché Forrest è incorrotto; anzi, è innocente. La sua idiozia lo protegge, come un’invisibile placenta. Il suo quoziente intellettivo – 75, su un minimo richiesto di 80 per poter frequentare la scuola pubblica – gli consente un’esistenza laterale, un approccio alla vita scevro di calcoli e dubbi. Non è il paradiso: Forrest è consapevole della sua inferiorità; ma è il limbo: un limbo americano.

   E adesso facciamo un salto, dall’uno al molteplice, dal film al libro. Dall’idiozia ingenua ed autosufficiente di Forrest Gump, pellicola del 1994 diretta da Robert Zemeckis e interpretata da Tom Hanks, ai protagonisti rabbiosi, desolati o astuti che popolano le Vite brevi di idioti di Ermanno Cavazzoni, volume apparso nello stesso anno.
   Cambia, anzitutto, lo sfondo: Forrest è sempre solo, anche in mezzo agli altri, una solitudine raccolta, operosa, fattiva, e gli altri sono egualmente soli, con i loro traguardi e le loro nevrosi che messe assieme formano il tessuto connettivo, il sistema centrale nervoso della società. Gli idioti di Cavazzoni, invece, sono specchio e bersaglio di una curiosità intrigante, morbosa, che aumenta di pari passo con la loro stranezza: tanto più divaganti ed eccentriche le loro idee, le loro azioni, tanto più invadente, oppressivo, l’interesse che suscitano. Sono i protagonisti del quadro ma non lo riempiono perché gli spettatori occupano uno spazio pari al loro; la società è sempre presente, anche tra le quattro mura di una squallida stanza.
[…]

IX. Il Sogno, una storia imperfetta

    Proviamo a rovesciare i termini della questione: noi, i sognatori, i produttori di fantasmi, gli impenitenti colonizzatori del sonno, gli orgogliosi forzati dell’oblio, diveniamo oggetto di studio, tipici/atipici modelli di altre creature che proprio attraverso i loro sogni riproducono i nostri corpi e la nostra mentalità partorendo con un minimo grado di approssimazione nuovi esseri umani.
   Un’ipotesi assurda? Eppure nel 1950 è stata formulata dallo scrittore americano Theodore Sturgeon. Tutto accade nel romanzo Cristalli sognanti: in un’assopita provincia, dove le emozioni sembrano filtrate attraverso una sabbiosa clessidra, un bambino fugge da casa dopo una lite coi genitori adottivi finendo in un circo popolato di eccentriche mostruosità e gestito da un impresario che passa il tempo a condurre strani esperimenti. L’avventura picaresca del bimbo incrocia l’avventura faustiana del direttore-impresario, alla disperata ricerca di un contatto, un qualsiasi contatto, con un universo che vive di vita propria – e sogna – occultato nel nostro mondo: l’universo dei cristalli.

   “Chiunque abbia vissuto vicino agli animali, con un cane o con un gatto, sa che essi sognano”. È perentorio George Steiner. Lo studioso apre così il suo scritto La storicità dei sogni, compreso nel volume Nessuna passione spenta, una raccolta di saggi che va dal 1978 al ’96. E prosegue: “Correnti di agitazione o di piacere, vivaci, spesso visibilmente tempestose, suscitano in loro movimenti inconfondibili. Infatti questo fenomeno banale è la prova comportamentale più diretta (la sola prova diretta?) che abbiamo della frequenza e del vigore dei sogni. Tutti i resoconti umani di sogni ci giungono schermati dal linguaggio”.
   È questa la domanda chiave del suo saggio: gli strumenti linguistici che usiamo per ricordare e raccontarci i sogni, sono davvero neutri rispetto alla sostanza del sogno stesso, o non finiscono inevitabilmente per adulterarne l’impalpabilità, abbellendo, truccando, falsando? Gli stessi sogni degli animali, che noi percepiamo nella loro visibile corporeità e che sono anteriori al linguaggio, per essere in qualche modo compresi e accettati devono passare – proprio come i nostri sogni – attraverso l’inevitabile verbalizzazione. Si possono fare solo ipotesi: supporre, ad esempio, che gli archetipi recepiti collettivamente siano antichissime cristallizzazioni di sogni prelinguistici e che un tempo i nostri più lontani antenati, ancora legati alle loro animalesche radici, abbiano sognato zoo-logicamente.
   Ma, per l’appunto, si tratta solo di ipotesi che tentano di superare la rigida schermatura verbale attraverso il plurimo, ingenuo, istintuale approccio mitologico; alla fine, comunque, “L’uomo può quasi essere definito come la specie che dispone dell’accesso più limitato e deformante all’universo del silenzio (perché di questo si tratta)”.
[…] 

Paola Villani
“Il Mattino”, 10 marzo 2019

  Si abbattono gli ormai consunti confini tra cultura alta e cultura popolare, tra la “letteratura e basta” e la paraletteratura. E molto di più, si rovesciano anche gli steccati tra le diverse arti, tra scrittura, iconografia, cinematografia, filosofia. E così in questo viaggio tra le narrazioni contemporanee incontriamo, come seduti nello stesso vagone, uno accanto all’altro, artisti e personaggi: Batman e Kandinsky, Peter Pan e Francis Bacon, Superman e Manganelli, Forrest Gump e George Steiner. Operazione coraggiosa, ardita quanto ordita nei minimi dettagli, programmata con la consueta razionalità geometrica che ha sempre distinto il Sant’Elia studioso e saggista.

Francesco Filia
“Poetarum silva”, 23 maggio 2019

  Uno sguardo, al tempo stesso, sereno, ironico e distaccato, che dalla giusta distanza, una distanza di impronta apollinea, riesce a mettere a fuoco alcune questioni che hanno attraversato il secolo scorso e che ancora ci interpellano. Potremmo dire che la cifra che caratterizza l’intero libro è l’ironia, nel senso etimologico di dissimulazione finalizzata ad una precisa strategia comunicativa. Lo sguardo di sant’Elia sui temi, sulle idee oggetto della sua riflessione, è uno sguardo netto ma laterale, eccentrico; coglie il centro della questione da un punto di vista, apparentemente, marginale facendo interagire tra loro, quasi come se fossero elementi di una reazione chimica, idee, autori, narrazioni, forme espressive, per dar vita a un composto del tutto nuovo e inaspettato.

Davide Rondoni
“clanDestino”, 23 luglio 2019

  La possibilità, dicevamo, è la cifra, la preda, del pensiero mobile, ironico e radicale di Sant’Elia, che non a caso unisce nel titolo altri due termini opposti, quelle rimozioni che hanno segnato una parte importante della cultura europea, e quelle emozioni che infatti ne sono uscite indebolite e intristite. L’assenza di una possibilità, ovvero la riduzione ad una sola dimensione della vita, alla “storia”, ha appiattito le emozioni, le ha disinfiammate, le ha intorpidite, private di leggerezza autentica per sostituirla con la futilità dell’intellettualismo e con la arguzia del cinismo. Il libretto di Sant’Elia, edito giustamente dall’austera Studium in un catalogo di saggi e nomi di prim’ordine nell’affrontare vicende complesse, offre, come sanno fare i poeti, uno sguardo spiazzante. E salutare.

Daniele Ventre
“Nazione indiana”, 12 settembre 2019

  Punto d’approdo del descensus averni, che come sempre è terapeutico ed iniziatico, è il duplice scenario del sogno e della città. In Il sogno, una storia imperfetta, il sistema improprio dei dieci saggi di Sant’Elia celebra l’apice del suo metodo non lineare e volutamente desultorio, in una carambola di rimandi che dalle immaginazioni di Sturgeon e da “La storicità dei sogni” di Georg Steiner si squaderna per aperture di finestre ipertestuali, toccando a volo d’uccello il sogno dell’Agamennone omerico nell’Iliade, il sogno di Cartesio narrato da Baillet e il sogno di Tatiana nell’Onegin di Puskin. Corrispettivo esteriore del sogno è La Città-immagine, definita fra la Disneyland non-luogo esaminata dall’approccio socio-antropologico di Marc Augé, e i non-luoghi, utopie rivisitate, della fantascienza popolare alla Star Trek. Così il libro chiude la sua parabola investigativa sull’immaginario ipermoderno opponendo al non-tempo (o evasione dal tempo) del principio, il tema delle città irreali e iper-reali, non-luoghi, della fine.

Antonio Saccone
“Oblio”, dicembre 2019

  Un libro inconsueto, questo di Edoardo Sant’Elia, sin dalle soglie paratestuali. Il titolo, Ri(e)mozioni novecentesche, esprime l’intento dell’autore di portare in scena temi e forme che hanno configurato in termini cruciali la fisionomia del Novecento. Riportarli al centro del discorso non significa solo sottrarli alla rimozione ma anche consegnarli ad un’inedita vitalità critica. Il sottotitolo, Dieci saggi narrativi su dieci idee, indica le modalità di allestimento di quell’intento efficacemente attuato. Le dieci questioni analizzate nel volume sono declinate in coppie, sulla prospettiva di una solida narrazione esegetica che, attraversando con competenza e sveltezza argomentativa plurimi territori disciplinari (letteratura, teatro, cinema, fumetto, arti figurative) tira in ballo esponenti della cultura internazionale tra i più insigni, capaci di cogliere le trasformazioni novecentesche della percezione del mondo e delle sue rappresentazioni.