La freccia e il cerchio
anno 8, numero 8, 2021
pp. 349-351

8.
Massimo Bocchiola
Oh! padre, oh padre mio!…

 

da Strategia del ragno
di Bernardo Bertolucci
a colori, 1970

   Nel novembre dell’anno scorso è morto a Roma Bernardo Bertolucci. Strategia del ragno è stato il suo sesto film in ordine di uscita anche se lo aveva iniziato prima del quinto, Il conformista. È ambientato a Tara, un paese immaginario della Pianura Padana il cui nome ricorda Via col vento. Le scene sono state girate principalmente nelle province di Mantova e di Parma, a Sabbioneta e a Brescello.
   Un villaggio del West. La strada principale, che è quasi sempre l’unica. Gli edifici di legno potrebbero essere solo facciate e non c’è nessuno in giro, qualche cespuglio rotolante, un po’ di sabbia alzata dal vento in una stagione qualsiasi. C’è una stazione dove fermano pochissimi treni. Arriva un uomo a cavallo, lo vediamo di spalle, porta un cappello da pistolero e probabilmente è vestito di scuro o con un poncho. Non ha nome e nessuno nel villaggio lo riconoscerà, almeno non subito, ma era già stato qui e ritorna in cerca di una verità o di una vendetta. È possibile che conosca già la verità e cerchi solo vendetta; ma stiamo sicuri che, se è la verità che sta cercando, scoprirla lo condurrà alla vendetta.
   Nel West non c’è un altro sistema. E altrove?
   Un paese della Bassa. Poche vie secondarie si diramano da quella centrale, aperta sulla piazza e su slarghi con palazzi rinascimentali in semiabbandono, fiancheggiata da botteghe e da una pensioncina. C’è una stazione dove passano pochissimi treni, ma questa volta uno si ferma e scende un uomo con una valigia. Lo vediamo di fronte, ha la giacca aperta su una camicia sbottonata come usava nella Bassa in estate alla fine degli anni Sessanta, inizio dei Settanta. È giovane, anzi è un giovanotto, parola che oggi somiglia a pistolero nel senso che non si usa quasi più, quindi indica un uomo giovane di alcuni decenni fa, come pistolero indica un uomo provetto con la pistola di alcuni decenni fa.
   Il giovanotto, che si chiama Athos Magnani e torna in un paese che dovrebbe essere il suo, ma di cui non conserva più neanche il ricordo, cerca la verità. È convinto di cercare solo quella, alla vendetta non pensa nemmeno; ma anche se non riconosce luoghi e persone, tutti riconoscono lui perché è identico a suo padre, è il suo ritratto e ne ripete il nome.
   Suo padre è stato un eroe. Il paese lo celebra con un busto in piazza e gli ha intitolato di tutto. È un martire antifascista, un cospiratore che nel 1936 (l’anno della conquista dell’impero, prima della morte in carcere di Gramsci e dell’assassinio dei fratelli Rosselli) preparava un attentato contro il duce, ma è stato ucciso lui, da agenti del regime rimasti ignoti.
   Il giovanotto, che si chiama Athos Magnani e torna in un paese che dovrebbe essere il suo, ma di cui non conserva più neanche il ricordo, cerca la verità. È convinto di cercare solo quella, alla vendetta non pensa nemmeno; ma anche se non riconosce luoghi e persone, tutti riconoscono lui perché è identico a suo padre, è il suo ritratto e ne ripete il nome.
   Il motivo per cui Athos il giovane non mira alla vendetta si vede subito: la verità non gli interessa tanto per punire i colpevoli quanto per fare luce sull’ombra paterna che lo sovrasta, e possibilmente liberarsene. Bene, ma non sarebbe una vendetta anche questa? E non starebbe a un giovanotto del 1970 come la sparatoria sta a un pistolero di cent’anni prima?
  Prevedibilmente, nessuno intorno a lui vuole una verità diversa. Non i compagni di lotta dell’altro Athos, che, è palese, nascondono un segreto; non l’amante ancora bella dell’altro Athos, che nel figlio ritrova il padre senza nemmeno troppi sottintesi. E non la vogliono gli abitanti del paese, le comparse ostili a ogni rischio di scalfire la leggenda. Nella Bassa come ovunque (anche nel West) quando la verità si scontra con la leggenda vince la leggenda, anche se è ignobile: e non è questo il caso. Questa è una bella leggenda, orgoglio della comunità.
  Peccato per quelli a cui la leggenda fa torto, ma dietro il torto non c’è solo la vittoria, o la rivalsa, degli altri: c’è che la verità non si definisce facilmente, e quando non è un dato matematico è troppo spesso articolo di fede, o legata a una fede. Altrimenti è una costruzione narrativa, una finzione. In questo caso, dunque, Athos pretende di essere qui solo per stabilire cosa è successo quella sera. Ma la risposta, anche se coincidesse con la versione pubblica, saprebbe comunque fittizia, raccontata, perché Athos è stato assassinato (dai fascisti o da altri) nel palchetto di un teatro durante uno spettacolo, come in un racconto di Borges il cui personaggio non ha nome né patria né partito, o ne ha tanti, e a sua volta è messo lì a replicare la fine del presidente Lincoln.
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