La freccia e il cerchio
anno 8, numero 8, 2021
pp. 205-208

5.
Rosanna Cioffi
Materia e forma nel linguaggio della scultura.
Alcune riflessioni e qualche emblematico esempio

 

   Da tempo ho fatto della scultura europea di età moderna un campo privilegiato di ricerca. Osservandone le forme, ne interpreto il significato alla luce di rapporti e confronti con molteplici elementi: altre opere d’arte e contesti fisici in cui statue, gruppi e decorazioni plastiche si trovarono e si trovano di volta in volta ad essere collocati; relazioni tra artisti e committenti; posizioni della storia della critica; fortuna o sfortuna di pubblico a seconda dei periodi storici in cui le opere prese in esame furono condizionate dal gusto, dalla moda, dall’immaginario collettivo del loro tempo. Tenendo ben presente che le sculture occupano innanzitutto uno spazio all’interno di un contesto fisico e coinvolgono non solo il senso della vista ma anche quello tattile, le considero innanzitutto nel loro aspetto fenomenico. Partendo dai materiali, dalle tecniche e dagli strumenti con cui si manifestano metaforici alfabeti, dittonghi, parole e frasi di un linguaggio non verbale volto a veicolare significati e simboli spesso assai complessi e sofisticati, miro a comprendere i metodi di lavoro degli artisti: considerando tale aspetto un punto di partenza indispensabile per comprendere le idee e le convinzioni degli artefici che scelsero tali tecniche per le loro creazioni.
   Ho accettato dunque quasi come una sfida l’invito a scrivere per una rivista di filosofia, letteratura e linguaggi, intorno a una diade non esplicitamente riferibile ai mezzi e ai modi espressivi dell’arte figurativa. Ma forte o almeno appassionata dei miei studi di scultura, mi sono chiesta come avrei potuto rispondere al tema scelto per quest’ultima tappa di un ambizioso progetto a termine, incentrato su di «una complementarietà dei saperi che rifiuta steccati e gerarchie». Un taglio interculturale e interlinguistico certo per me accattivante e in sintonia con il mio approccio pluridisciplinare al mondo della storia dell’arte. Sarebbe però banale partire dal semplice presupposto che qualsiasi scultura sia il frutto di una scelta da parte del suo autore rispetto ai molteplici materiali e procedimenti che egli potrebbe seguire per dare forma alla sua ispirazione. Si tratta piuttosto di individuare quale potrebbe essere l’altro elemento della diade in questione: la mia proposta sarà quella di risalire ai “corpi inerti” – iniziali “nemici” dello scultore ovviamente di tradizione classica – dai quali deve faticosamente partire il suo percorso artistico. Partendo da Rudolf Wittkower – autore di saggi fondamentali per gli sviluppi, nella seconda metà del Novecento, della storia dell’arte europea e della sua letteratura artistica con brillanti e ancor validi risultati riferiti soprattutto all’architettura e alla scultura – tratterò “la coppia” di questo numero monografico attraverso le scelte che emblematici artisti del passato – sia pure di fama e di levatura molto diverse – fecero rispetto all’eterno conflitto tra materia e forma insito per eccellenza nel linguaggio della scultura. Individuando nella bruta materia – sia essa costituita dall’aspro e duro marmo o dalla duttile e sfuggente terracotta – il potenziale nemico nei confronti del quale l’artista deve scegliere quale cammino, fattuale e mentale al tempo stesso, dovrà intraprendere per raggiungere l’obiettivo finale della sua creazione. Come sappiamo da molte fonti letterarie che raccontando di alcuni artisti ne descrissero le difficoltà, in certi casi anche fisiche, incontrate nel realizzare le loro opere, partirò proprio da queste iniziali ostilità che la “bruta e nemica” materia – sia essa pietra, legno, metallo o piuttosto cera, argilla e stucco: usati questi ultimi principalmente per realizzare le prime “idee” del processo creativo – presenta allo scultore, il quale deve scegliere quali strumenti e quali tecniche utilizzare per trasformarla, rigenerarla e renderla rispondente alla propria poetica. Percorsi duri, irti e a volte immodificabili, che spesso non concedono pentimenti soprattutto per quanto riguarda il marmo o, viceversa, concedono troppi e insidiosi ripensamenti, pensando alle materie cosiddette plastiche.
   «Non ha l’ottimo artista alcun concetto, / Ch’un marmo solo in sé non circoscriva / Col suo soverchio, e solo a quello arriva / La man, che ubbidisce all’intelletto». Con questi versi, Michelangelo comincia un notissimo sonetto in cui espone la sua teoria sulla scultura. Ispirato stilisticamente alle rime petrose di Dante e dedicato a Vittoria Colonna, esso racchiude un tema cardine della tormentata esistenza michelangiolesca, vissuta nel perenne contrasto tra amore e morte, peccato e salvezza. Come ha scritto Eugenio Garin l’artista – influenzato da Pico della Mirandola e Marsilio Ficino – cominciò a considerare il corpo un carcere terreno, intravide l’idea celata nella materia, avvertì la tensione tra vita attiva e contemplativa, comprese il senso della forma che emerge dall’informe. Michelangelo, in questo sonetto, si appella a una metafora legata alla sua tecnica scultorea che risente del neoplatonismo della cerchia medicea, secondo il quale occorreva staccarsi dalla materia, quale realtà fittizia, ed elevarsi ad uno stato superiore spirituale. Come esprime nei suoi versi, a differenza di sé stesso che sbozza, scalpella e incide il marmo, eliminando via via il superfluo alla ricerca di quella forma già insita nella materia e che raggiunge seguendo l’idea che egli stesso ha nell’intelletto, non altrettanto gli accade nel raggiungimento della corrispondenza amorosa con la nobile amica, la cui durezza e alterità non vengono neanche lontanamente scalfite dal suo platonico sentimento. Michelangelo è convinto che, così come inizialmente la pietra pur presentandosi grezza e scabra, già contiene in sé la forma dell’idea dell’artista, altrettanto nel mondo e in particolare nell’animo umano – ambivalente e inadeguato a raggiungere il bene assoluto – coesistono il bene e il male. A tal proposito ci soccorrono le parole di un pionieristico studio di Erwin Panofsky:

Mentre la credenza neoplatonica nella “presenza dello spirituale nel materiale” offriva uno sfondo filosofico al suo entusiasmo estetico ed amoroso per la bellezza, l’opposto aspetto del neoplatonismo, l’interpretazione della vita umana come forma irreale, deviata e tormentosa di esistenza, paragonabile alla vita nell’Ade, era in armonia con l’incommensurabile scontento di se stesso e dell’universo, nel quale consiste la firma stessa del genio di Michelangelo. […] La tenace preferenza per la faticosissima “scoltura per forza di levare”, e la sua preoccupazione per la forma del blocco, conferisce un significato psicologico – nello stesso tempo in cui lo riceve – alle poesie in cui egli riafferma l’interpretazione allegorica di Plotino circa il processo mediante il quale la forma di una statua viene districata dalla pietra recalcitrante.

   Questo conflitto, per dirla ancora con Panofsky, diventa «essenza stessa della sua personalità», forma precipua di tutta la sua vita che, sin dagli inizi, sembra scolpire i soggetti stessi delle sue opere. «Le sue figure simbolizzano la battaglia ingaggiata dall’anima per sfuggire al carcere della materia. Ma il loro isolamento plastico denota l’impenetrabilità di quel carcere».
[…]