La freccia e il cerchio
anno 7, numero 7, 2016
pp. 131-134

4.
Alessandro Saggioro
Il velo e la realtà.
L’ambigua pesantezza del vestire


Ciò che deve interessare lo studioso, storico o sociologo, non è il passaggio (illusorio) dalla protezione alla parure, ma la tendenza di qualsiasi «copertura» corporale a inserirsi in un sistema formale organizzato, normativo, consacrato dalla società (R. Barthes, Storia e sociologia del vestito, in Il senso della moda, p. 12).

La moda è l’erede profana della teologia della veste, la secolarizzazione mercantile della condizione edenica prelapsiaria (G. Agamben, Nudità, p. 114)

   1. Che la specie umana abbia cercato una soluzione pratica alle difficoltà e alle sgradevolezze dello stare nel mondo è cosa tanto ovvia quanto complessa e stratificata. L’elaborazione di una rete di strumentazioni culturali che comprendono alimentazione, abitazioni, vestiti è durata millenni e dura nel tempo. Strutturalmente, questi apparati si sono evoluti in modalità esistenziali impattanti in maniera continuativa e prolungata sulle condizioni di vita, fino a farne parte e a costituirne, per così dire, una integrazione ‘naturale’, che di norma definiamo ‘culturale’. Nell’età contemporanea tutto ha poi un risvolto economico tale da rendere veramente solido il legame, non più solo apparente, fra le nostre quotidianità e le soluzioni adottate dalla specie umana e rielaborate in maniera sempre più raffinata e sofisticata dalla moderna società dei consumi. L’homo technologicus non resiste alla tentazione di cercare nuove vie e nuovi marchingegni per migliorare, almeno apparentemente, le proprie condizioni di vita o le proprie condizioni economiche. In parte ciò può anche esser vero, ma il paradigma della trasformazione strutturale delle nostre esistenze determinato dall’avvento di una tecnologia e di un’industria sempre più invasive – ancorché sentite come gradevolmente risolutive – non è per ora analizzabile in tutta la sua ampiezza e portata.
   Oggi ci illudiamo, dunque, di avere alla portata di mano la soluzione per tutti i nostri problemi, ma l’inizio del processo che ha condotto a questa fase è tanto risalente da perdersi nella notte dei tempi. Una riflessione sul fatto che gli esseri umani si vestano e che lo facciano in maniera complicata non può non tenere conto di questo scenario generale. Oggi la tecnologia invade il sistema moda in maniera preponderante: la costruzione dell’abito passa attraverso la scannerizzazione del corpo, le misure vengono elaborate in maniera automatica, individuando i difetti che il metro del sarto doveva scoprire e riplasmare nell’abito con mano sapiente, le stampanti 3D sembrano sempre più uno strumento indispensabile a pensare in chiave innovativa e adeguata al passo dei tempi, materiali sempre più sofisticati promettono relax e comfort come non mai. Le nuove strumentazioni e modalità della comunicazione sublimano l’effimero tradizionalmente considerato quale sorta di disimpegno nei confronti del sistema moda, giudicato a torto afferente al superfluo e declassato a aspetto marginale del sistema culturale, sociale ed economico. Eppure i primi abiti tratti dalla natura non sembrano tanto lontani per funzione e per efficacia da ciò che indossiamo oggi. Non è forse la funzione primaria di qualsiasi abito quella di coprire e, a seconda dei casi, tenere caldo o tenere in fresco il corpo? L’efficacia e la gradevolezza tecnica dell’abito si struttura in maniera sempre più elaborata e può essere misurata, senza dubbio, per gradi, ma il paradigma iniziale – tenere in caldo, tenere in fresco – rimane sempre identico. Alla funzione essenziale si aggiunge una rete simbolica che da una parte rende decisamente più difficile il discorso, dall’altra può essere rappresentata come una scala di valori che ha un minimo comune denominatore. Una volta elaborato un abito con una sua funzione precipua, gli si attribuisce una valenza che va ben al di là di un significato materiale. Subentra, in questo modo, una percezione del vestito anche come oggetto carico di valore sociale e, precipuamente, simbolico.
   Così come ogni azione è banalmente tecnica ma può assumere significati innumerevoli, la semplicità ha un risvolto nella complessità. Una volta che si accetta che il vestire possa non avere solo una funzione materiale, ma anche una portata simbolica, la scala che va da zero a infinito non è più misurabile e scansionabile. Non è possibile dunque passare in rassegna le sterminate possibilità che la specie umana si è data per vestirsi. Il concetto stesso di ‘vestirsi’ è ampio, più ampio di quanto non sia ‘indossare un vestito’: l’essere umano si veste di cultura, fatta di atti, di scelte, di modalità comunicative verbali e non. Si veste poi di cultura in maniera molto differenziata per regioni, per tempi, per identità locali. L’habitus culturale vede commistioni, sovrapposizioni, differenziazioni, di nuovo, a livello spazio-temporale. In nessun luogo e in nessun tempo la costruzione culturale è ‘semplice’, puntuativamente identificabile in coordinate ben definite, riducibile a segni elementari.
   Se poi l’abito è strutturalmente un oggetto che copre in parte il corpo ma in parte lo lascia anche scoperto – gioco ambivalente fra presenza e assenza, fra dissimulazione e nudità – esso può anche assumere numerose modalità, che vanno dalla copertura tramite pitture e segni, alla scarificazione, alla trasformazione chimica e plastica, alla gestione del corpo vivo così come del corpo morto, del corpo già nato così come del corpo che ancora deve nascere. I segni sono tanto numerosi e tanto diversificati perché l’uomo si concede la ricchezza dell’opzione infinita: a livello individuale, così come per scelte sociali e per identificazioni più o meno trasversali e globali.
   Altrettanto complesse sono le possibilità di interpretazione e lettura, in cui scienze fisiche e sociali veramente dovrebbero interagire di più e in maniera sinceramente interdisciplinare. Le scienze dell’abito restano tuttavia diversificate e variegate, prone ad una mancata rubricazione ufficiale e dunque vittime di una marginalizzazione che non corrisponde alla rilevanza assoluta del loro oggetto.
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