La freccia e il cerchio
anno 6, numero 6, 2015
pp. 115-117

5.
Paolo Scarpi
La perfezione del 4, io e la luna.
Il segreto del mondo


   La carne è un limite, il corpo è un carcere, entro il quale sta imprigionata l’essenza dell’uomo. È un tema ricorrente, Leitmotiv costante di buona parte del pensiero occidentale; non saprei dire se anche di quello che per gli occidentali è l’Oriente. Senza il corpo potrei volare, andare oltre i limiti del mondo. All’inizio degli anni ’90, una ex anoressica scriveva: «Ma non devo mangiare. Devo riuscire a stare in questa santità, in questa mandorla di luce che mi racchiude e diffonde tepore … Forse riesco a volare. Se salgo sulla finestra e mi slancio verso l’alto, sono sicura di riuscire, spunteranno ali bianche, mi librerò lassù, più in alto, ancora più in alto» (Anna M. Dadomo, Regressione).
   A loro volta i seguaci di un movimento salutista, il Natural Hygiene movement, oggi diffuso con numerose succursali nel mondo e identificabile con l’American Natural Hygiene Society inc., praticano un digiuno purificatore preliminare, più o meno lungo, per poi avviarsi a una dieta rigorosamente vegetariana, perché «il digiuno svilisce la carne ed eleva lo spirito». Pare che questo movimento sia nato negli Stati Uniti attorno al 1830, per opera di Sylvester Graham, riformatore del regime dietetico americano e successivamente sia stato fatto rinascere da Herbert M. Shelton attorno agli anni ’50 – ’60 del secolo scorso, che gli diede un impulso decisamente imprenditoriale. Non molto lontane da queste sono le posizioni dei sostenitori della macrobiotica, i quali traducono nelle scelte e nel consumo alimentare il loro rifiuto di una certa modernità insieme all’aspirazione a una purezza che passa attraverso il corpo. In ultima analisi, il fine dei seguaci della macrobiotica come dell’Igiene Naturale, ma anche del più generico vegetarianismo nelle sue diverse forme contemporanee, consiste nel recupero di un rapporto diretto con la natura per ricondurre l’uomo entro i confini del flusso naturale, in una simpatia universale, per non dire in una coniunctio con l’«alterità» se non con il divino.
   Tutto questo mi ricorda le sante medievali, una santa Caterina da Siena come egualmente una beata Angela da Foligno. Questo mi fa anche pensare agli antichi seguaci di Orfeo, che praticavano il vegetarianismo, regime alimentare rimproverato da Teseo al figlio Ippolito, perché si cibava di alimenti senz’anima. Il corpo era per questi la tomba dell’anima, quasi ch’essa nella realtà del presente vi fosse sepolta per espiare le sue colpe. E quel corpo, involucro e prigione, diventava anche lo strumento per salvarsi, finché l’anima appunto non avesse pagato il suo debito, reincarnandosi progressivamente secondo il dettato della legge di Adrastea. Era dunque un corpo non proprio colpevole. La colpa era dell’anima, che avrebbe perso le sue ali e sarebbe precipitata sulla terra, se non fosse riuscita a tenere il passo del dio al cui seguito era stata assegnata. Le ali sarebbero, di certo, rispuntate una volta espiata la pena. Dike, la Giustizia, l’avrebbe allora portata, così purificata, a trascorrere una seconda vita in un non meglio definito luogo del cielo.
   Pure i pitagorici pare che di questo fossero persuasi. Secondo un antico biografo era stato il sapiente di Samo a sostenere che l’anima è immortale e che essa, dopo aver percorso il ciclo della necessità, entra in seguito in altri esseri viventi. Forse il primo non fu proprio Pitagora a formulare questa dottrina, che per Erodoto apparteneva invece agli Egiziani. Nondimeno per i seguaci del pitagorismo questo ciclo, questa reincarnazione, aveva lo scopo di dare avvio a una progressiva purificazione che conducesse l’anima alla perfezione. Filolao, all’incirca nella prima metà del IV secolo a.C., proprio quel pitagorico che aveva posto la terra con il sole in rotazione nel cosmo attorno a un imprecisato fuoco, ricordava come gli antichi teologi sostenessero che l’anima fosse unita al corpo per espiare una qualche colpa e che in esso fosse sepolta come in una tomba. Era una convinzione questa fatta propria anche da un altro pitagorico, Eussiteo, per il quale le anime di tutti gli uomini erano legate al corpo e alla vita per espiare qualcosa. Il Carmen aureum, che forse lo stoico Crisippo e il platonico Plutarco avevano conosciuto non si sa in quale forma, invitava da parte sua ad astenersi dai cibi, abbandonare il corpo, per poi librarsi nell’etere ed essere un dio immortale e non più mortale. Per raggiungere questo scopo, per diventare divini e giusti, i pitagorici seguivano principi etici e dietetici, che già le madri insegnavano ai figli, educandoli alla misura e alla moderazione, senza preoccuparsi del loro piacere. Abbigliamento e cibo non potevano che essere espressione di questa scelta di vita, di uno stile che Platone conosceva come pitagorico. Mangiare e bere dovevano seguire la natura, secondo quanto necessario, perché poche e semplici cose bastano per soddisfare la fame e la sete e di poco c’è bisogno per ripararsi dal freddo. Al contrario ricerca e desiderio di cibi esotici sono un vizio non piccolo. 
Èlite di intellettuali lontana dai meccanismi simbolici delle città antiche, i pitagorici avevano trovato nella dieta vegetariana, nel super-alimento che permetteva di mangiare come gli dèi, non solo uno strumento per distinguersi dagli altri Greci, ma anche il cibo che avvicinava agli dèi, che evitava all’uomo il pericolo di cadere nel ciclo delle rinascite e che favoriva «la sanità del corpo e l’acutezza dell’anima». In questo modo l’uomo pitagorico si sottraeva alla tirannia del corpo e si avviava verso il mondo divino. Proprio dal corpo Pitagora era uscito e aveva udito armonie perfette, come racconta un commentatore di Omero, armonie che è facile immaginare essere state quelle delle sfere celesti. Egli percepiva l’armonia dell’universo e, dunque, l’armonia universale delle sfere celesti e degli astri che insieme a quelle si muovono, ma che noi non siamo in grado di udire per i limiti della nostra natura.
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