La freccia e il cerchio
anno 5, numero 5, 2014
pp. 141-143

4.
Laura Faranda
“Dipingi il suono”. La ninfa Eco, parabola di una voce

   Per ogni storia c’è un inizio, per ogni voce una presenza. Anche per Eco, la ninfa loquace del racconto di Ovidio, un tempo fu così. Parlava, parlava senza tregua per ore intere al cospetto di Hera, la sposa di Zeus: e i suoi lunghi sermones avevano lo scopo di distrarre la dea dalle fughe amorose del Signore dell’Olimpo, attratto e sedotto dalle sue compagne, le ninfe oreadi, abitatrici dei monti.
   Abile e dotata di eccellenti qualità retoriche, Eco aveva appreso probabilmente da Pan, suo amante e compagno montano, la potenza incantatoria di un suono. E con il dio Pan si narra che avesse generato due figlie, degne depositarie del sapere sensuale di una nynpha vocalis: Iynx, che insinuò in Zeus l’amore per la vergine Io; e Iambe, personificazione mitica della poesia giambica, che accolse Demetra errante e disperata per la perdita della figlia Persefone e «scherzando continuamente, indusse la dea veneranda a sorridere, a ridere e a rasserenare il suo cuore».
   Nella versione ovidiana del mito, la presenza della voce di Eco sembrerebbe quindi inscindibile dalla potenza di un corpo che al tempo stesso genera, narra e seduce. E se è vero che il mito “maschera” la storia, il nostro viaggio si annuncia denso di senso. Si tratterà infatti di percorrere retrospettivamente quegli spazi narrabili che fanno di Eco la personificazione di un’assenza; che fanno della sua voce il richiamo eco-lalico di un corpo che si estingue e si smaterializza, in sintonia con la progressiva decostruzione simbolica del corpo femminile.
   Partiamo dalla narrazione che sta all’origine della metamorfosi nella versione ovidiana: una sposa venerabile, una dea-madre assisa sul trono dell’Olimpo attende lo sposo assente; una ninfa loquace la distrae e la intrattiene, assecondando con ciò le fughe del dio-padre. Ma la dea scopre l’inganno e medita per lei la più efficace delle punizioni:

«Potrai servirti ben poco di questa lingua che si è presa gioco di me
ed emettere solo brevissimi suoni». La minaccia si realizzò.
Da allora Eco ripete soltanto la parte finale
di un discorso che ha ascoltato, riecheggiandone le parole.

   Dopo la vendetta di Hera, la voce di Eco rimane viva solo per rifrangere, come uno specchio acustico, le ultime parole di una frase raccolta tra le faglie montuose, oppure la coda di una parola urlata da un avventore. La sua voce coincide, in altri termini, con la mortificazione di un corpo condannato a una funzione responsiva, deprivato di ogni potenzialità comunicativa.
   Ed è a questo punto della fabula ovidiana che fa la sua comparsa Narciso. Quando Eco lo incontra nella solitudine montana è anzitutto il proprio corpo, ancora vivo e fremente, ad accendersi di desiderio: 

Quanto più gli si avvicinava, tanto più si infiammava,
proprio come lo zolfo vivo, spalmato sulla punta delle fiaccole,
si incendia rapidamente se gli si accosta il fuoco.
Quante volte avrebbe voluto abbordarlo con dolci parole
e rivolgergli suadenti preghiere. Ma la sua natura vi si opponeva
e non le consentiva di prendere l’iniziativa
Era però pronta a fare quello che le era consentito,
cioè ad aspettare di cogliere dei suoni sulla scorta dei quali rimandare le parole.

   Nell’adattarsi a una voce privata di autonomia, Eco è costretta a ripetere le ultime parole di Narciso, cercando di conferire senso a un dialogo impossibile.
Così, a Narciso che avvertendo la presenza di qualcuno grida

“Ebbene qualcuno c’è?”. “C’è!” rispose Eco.
Lui rimase stupito, scrutò da ogni parte
ed esclamò a gran voce: “Vieni!”. Ella gli rimandò l’invito.
[…] Insistette allora, tratto in inganno dalla voce che replicava
e propose “Qui uniamoci”. Non poteva esserci invito
a cui Eco avrebbe risposto con più gioia. “Uniamoci!”.
[…]