La freccia e il cerchio
anno 5, numero 5, 2014
pp. 13-16
1.
la conversazione / the conversation
Giuseppe Montesano, Matteo Palumbo
Assenze in voci
I. L’inferno bianco
PALUMBO
Credo che l’assenza, principalmente, sia legata ai luoghi. Penso all’immaginario dei poeti crepuscolari, per i quali nei cimiteri si celebrava l’essenza della vita proprio mettendone in scena l’assenza. O penso, per esempio, ai solai, serbatoio di reliquie dove finivano tutti gli oggetti che avevano perduto la loro funzionalità.
MONTESANO
Cimiteri e solai come luoghi dell’accumulo?
PALUMBO
Dell’accumulo di cose. Nel primo caso si tratta di corpi; nel secondo di oggetti desueti, per usare una formula di Francesco Orlando. In tutti e due i casi parliamo di presenze che hanno perduto la loro ragion d’essere.
MONTESANO
Io penso che i luoghi dell’assenza siano soprattutto interiori. Mentre parlavi riflettevo sul fatto che non riesco a visualizzare l’assenza come assenza nello spazio. Perché per me lo spazio è sempre pieno, presente: anche un deserto, un orizzonte, anche un vuoto fisico è pieno. Mentre invece i luoghi dell’assenza sono portato a figurarmeli nell’interiorità: i buchi, i vuoti, le assenze che si aprono nelle vite. Come se fosse una metafora che però opera realmente, che scava dentro la nostra coscienza.
PALUMBO
Ma anche i luoghi fisici posseggono una valenza simbolica. Se tu trasferisci dentro la coscienza i due luoghi che io indicavo, cimitero e solaio, questi spazi potrebbero essere delle metafore tutt’altro che irrilevanti per descrivere ciò che sta dentro di noi.
MONTESANO
Mi viene in mente Vladimir Holan, il poeta boemo, il cantore di Praga. Lui parla molto della morte e anche dei cimiteri usati come metafora; però quando vuole davvero riferirsi all’assenza usa delle astrazioni. Non ne parla come assenza fisica, ma piuttosto come di una cancellatura sopra un foglio scritto: questo chiama assenza. E così dal cimitero, che probabilmente è la metafora più forte, passa a queste metafore più interiorizzate: la pagina cancellata, il vuoto che si apre tra due momenti di un’esistenza, il vuoto come sparizione negativa del tempo; il vuoto della memoria, che è una assenza, una cancellatura. Sì, proprio come su di un manoscritto di cui non abbiamo più la traccia; quello per lui è il male. E allora penso anche a Manganelli, al suo inferno, alla tragedia come pagina bianca: che non è la pagina bianca su cui scrivere, è la pagina su cui non si può scrivere più niente perché l’inferno, sostanzialmente, è bianco, vuoto, assente.
PALUMBO
Credo che la correlazione che stabilisci sia più che legittima perché si tratta appunto di dare un contenuto interiore a quello che era un oggetto spaziale, situato nel qui e nell’ora. L’altra questione, quella della pagina bianca, esattamente come la intendevi, cioè come la pagina bianca che non è in correlazione con il rigo, dunque con il segno nero che la penna ha lasciato, è interessante perché, al contrario, la pagina bianca che contiene su di sé il rigo scritto è un elemento di tensione rispetto a quello che è detto. Dunque è parte integrante proprio di ciò che è detto.
MONTESANO
Penso a Mallarmè, ai suoi famosi spazi bianchi. Che certo rappresentano le pause, la musica, lo spazio che dà il respiro; ma io andrei oltre il dettato poetico e ci leggerei anche l’elemento disperazione. In questo senso la pagina bianca è da non scrivere, anzi è non scrivibile in nessun senso e forse nemmeno dicibile. La vedo così, non come il foglio da riempire, oppure come la pagina davvero bianca del taccuino, che è bella. È anche un po’ impaurente, ma è bella perché è un inizio, ci puoi fare un segno sopra continuando con la metafora. Io i vuoti attorno al poema di Mallarmè li vedo non riempibili. Quando lui dice: “l’ala che minaccia”, quella parola, minaccia, è tutt’attorno, è in questa assenza che tende ad ingoiarci.
PALUMBO
C’è un problema ulteriore, che forse è l’elemento più inquietante; perché se le cose restassero opposte, come dicevi tu, l’assenza è il bianco che, in qualche modo, non bisogna profanare. Se usciamo, viceversa, da questa prospettiva, che è una prospettiva di opposizione secca, allora l’invisibile tu non lo potrai mai rendere visibile, è vero: però, almeno, provi a dirlo.
MONTESANO
Guarda, la mia ragione ti da ragione, ma io non riesco a sentire così. Penso al bianco del Gordon Pym di Poe: è il terrore assoluto, non dicibile dallo scrittore ma non dicibile da altri; nessuno più tornerà da quel bianco. Penso al bianco di Moby Dick, che è un bianco su cui non si scrive, non è una tensione ma proprio un’assenza, è il limite.
PALUMBO
Il limite, d’accordo, l’elemento estremo: ma noi non abitiamo nel limite, il punto è questo.
MONTESANO
Tu lo vedi come una tensione, questo bianco, io lo vedo invece come qualcosa intorno a cui ruotano gli eventi ma non per questo gli attribuisco un corpo, una pienezza o una realtà…
PALUMBO
Quindi la balena mai è così minacciosa, mai sarebbe così presente come nei discorsi degli altri?
MONTESANO
La minaccia viene dal fantasma della balena; è il fantasma che spaventa. Prendiamo Beckett: Godot non è solo l’attesa, è anche un fantasma, una cosa tutto sommato minacciosa. Io lo leggerei così: Godot oggi non è più quello che deve venire a risolvere i problemi. Questa forse è una lettura di primo livello, ma ce ne potrebbe essere un’altra: Godot è anche una minaccia. Non voglio dire che sia solo una minaccia; ma l’attesa è relativa, lì. I personaggi sono sovrastati da qualcosa che incombe e nel caso di Beckett può darsi che questa minaccia spinga all’azione. È come se l’assenza fosse un risucchio, una cosa, un vuoto, un motore immobile che spinge prima all’azione poi alla non azione.
PALUMBO
Su questa strada le nostre ipotesi non sono opposte e, per capirci, scelgo un esempio letterario biblico, la differenza che c’è tra Mosè ed Aronne. Mosè afferma che di Dio non si può parlare; il linguaggio di Mosè è il silenzio. Aronne invece oppone: tu agli altri devi pur dire qualcosa; e così costruisce idoli. Qual è il punto? Chi ha ragione, chi ha torto? Hanno ragione e torto tutti e due. Perciò parlo di tensione. La soluzione è quella di parlare comunque, sapendo però che tu Dio non lo dici mai, non riesci mai a dirlo. Allora, se ragioniamo in questi termini, il discorso sul bianco si chiarisce: il bianco sta attorno a quello che noi siamo e a quello che noi possiamo dire. E il nostro tentativo consiste nel parlare attorno al bianco, dentro il bianco, perché nel momento in cui c’è il bianco poi c’è il silenzio. Il teatro di Beckett, come i suoi scritti, sono in qualche modo tentativi di parlare dentro il bianco. Il bianco arriva alla fine, cioè quando la tensione finisce, quando questa specie di tentativo all’infinito di dire l’indicibile si esaurisce, si ferma e allora tu alzi le mani e c’è solo la pagina bianca. In questo senso io parlavo di tensione. Come se tu dovessi provare a fare un viaggio sapendo che farai naufragio, e parti egualmente.
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