La freccia e il cerchio
anno 4, numero 4, 2013
pp. 275-276
10.
Fabio Pusterla
Specchiera, maschere, seminterrati
1.
No, la nostra non era certo una casa di lusso. Ma ricca di specchi, questo sì.
Mobili fatti per durare tutta la vita, acquistati tanti anni prima a Cantù, come si usava: una pétinoire nella camera da letto, e sull’altra parete un cassettone, entrambi sovrastati da specchiere, e lungo il muro, tra l’una e l’altro, l’ampio guardaroba a quattro ante, tutte fatte di specchi. Aprendo questa o quella, e posizionandola in un certo modo, ci si poteva dunque vedere anche da dietro, e non era sempre un bel vedere: come cascavano i pantaloni, per dire, l’effetto di una giacca, tutta la serie di verifiche inquiete che creavano soltanto insicurezza. Perché gli specchi interrogati rispondono senza pietà, e se la domanda è ansiosa rigettano indietro un’ansia più grande e più netta. E chi può guardare uno specchio senza ansietà, a quindici o sedici anni?
Ma il più importante di tutti, il più quotidiano di tutti bisogna pur dire, era lo specchio quasi rettangolare posato a spalliera sulla credenza del tinello: di fronte al tavolo dove si mangiava, ogni giorno e ogni sera, per anni, sopra gli sportelli per piatti e bicchieri decorati in legno, con uno scoiattolo e un gibbone da una parte, un’aquila e forse un cerbiatto dall’altra, appena sbalzati sulla verticale di ciliegio. Di fronte al tavolo, bisogna però aggiungere subito, per sbaglio o per forza: quel mobile e i suoi compagni avrebbero infatti avuto bisogno di più spaziosi locali, di ben altre distanze, per le quali erano stati progettati e venduti. Ma la vita era quella, i soldi pure, e lo spazio del tinello era il poco che era: un riquadro di muri che poteva contenere il tavolo, sempre più traballante con il passare degli anni ma ancora a suo modo maestoso, con il piano ricoperto di un cristallo verde, purtroppo incrinato per via di qualche antico incidente familiare (una brocca caduta? un pugno iroso? chissà), le sedie dall’alto schienale scricchioloso, la televisione sul suo mobile a rotelle, con il ripiano più basso per la vecchia radio a valvole di legno scuro e grosse manopole, in un involontario monumentino allo sviluppo tecnologico del dopoguerra, una piccola ottomana verdastra; e la credenza appunto, addossata al muro, sovrastata da quella vertigine di specchio, come una luce supplementare che forse apriva il nostro mondo, forse lo richiudeva su di sé, ancora più angusto e senza scampo come una fotocopia.
Dunque: ci si sedeva, davanti al piatto o alla merenda; e in un modo o nell’altro era lo specchio a impossessarsi della situazione. Qualcuno gli dava le spalle, certo; e allora gli altri, che invece erano di fronte all’immagine di sé, vedevano la nuca e le spalle del primo, che talvolta ostruivano l’immagine; e poteva capitare che i dialoghi, o meglio la direzione degli sguardi durante i dialoghi, fossero influenzati e complicati dallo specchio sullo sfondo. Parlare con qualcuno che ci guarda, e che dà la schiena allo specchio in cui noi ci vediamo: non è sempre facile. Guardiamo lui o lei, rispondiamo al suo sguardo; e nel contempo siamo distratti e richiamati dal nostro, e dalla nostra immagine, dalla nostra bocca che si muove mentre diciamo quella certa cosa rispondendo alla sua, ma già osservandoci rispondere e costringendoci costantemente a una sorta di verifica severa, cercando la posizione migliore, il sorriso più efficace, il gesto seducente; e allora il dialogo rischia di diventare una prova generale di qualcosa che non può mai avvenire, poiché lo specchio si impossessa di ogni manifestazione di noi, e ci trasforma all’istante in spettacolo e in pubblico: pubblico e spettacolo di noi che parliamo o restiamo in silenzio, simulazione costante, mascherina del vuoto.
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