La freccia e il cerchio
anno 4, numero 4, 2013
pp. 139-141

5.
Giorgio Amitrano
Guardando lo specchio attraverso la maschera.
Visioni giapponesi

   Seguendo il richiamo imperioso di un’immagine che continuava ad affacciarsi alla mia memoria, ho cercato a lungo un film che avevo visto da bambino e di cui non conoscevo il titolo né il regista. L’unica cosa che sapevo con certezza era che si trattava di un film giapponese. A ricondurmi in modo ossessivo a quell’immagine era la paura che essa custodiva, e che si rinnovava a ogni ricordo, fonte inesauribile di fascino e sgomento: una donna non riusciva a staccarsi la maschera di demonio che le si era incollata sul volto. Quando infine la maschera si rompeva, il viso fino a quel momento nascosto, appariva devastato e ricoperto di sangue.
   Nei nostri anni digitali, la ricerca sarebbe stata più rapida. Oggi sarebbe bastato inserire nel motore di ricerca parole come “maschera”, “film”, “Giappone”, “demone”, e dopo qualche tentativo avrei scoperto cos’era. Ma erano tempi analogici, così riuscii a individuare il film solo qualche anno più tardi, riconoscendo una foto in un libro sul cinema giapponese. Seppi così che il titolo era Onibaba e il regista Shindo¯ Kaneto. Poi sono anche riuscito a rivederlo, e attorno a quel nucleo originario di orrore ho riattaccato tutti gli altri elementi che la memoria non aveva conservato. La storia si svolgeva nel XIV secolo, in un’epoca di guerre civili, e raccontava un’umanità che fame e sofferenze avevano precipitato in una condizione di abbrutimento. Shindo¯ era stato per anni allievo e assistente di Mizoguchi, ma nel film si allontana dalle descrizioni eleganti del maestro per mostrare un mondo dominato da una violenza primitiva.
   Due donne, suocera e nuora, vivono uccidendo e depredando i samurai di passaggio. Un giorno, un uomo scampato alla guerra le informa che il figlio della donna anziana, marito della giovane, è morto. Quando l’uomo si stabilisce nelle loro vicinanze, il piccolo mondo delle due donne entra in crisi. L’uomo e la giovane donna diventano amanti e la più vecchia è sconvolta dalla gelosia, ma anche dalla paura di perdere il sostegno della nuora e ritrovarsi sola nella lotta per la sopravvivenza. Per punirla, la suocera indossa una maschera strappata a un samurai da lei ucciso, e con essa le tende agguati, terrorizzandola. Ma la maschera si attacca al volto della donna che, non riuscendo in nessun modo a liberarsene, confessa l’inganno alla nuora e implora il suo aiuto. La giovane, non riuscendo a staccare la maschera usando solo le mani, prende un martello e la colpisce con violenza. Ecco l’immagine che si era fissata indelebile nella mia memoria: la maschera si spacca in due e il volto che affiora è devastato dalla lebbra e sanguinante, una maschera ancora più terrificante di quella che lo ricopriva.
   Sebbene l’intera sequenza sia altamente drammatica e spaventosa (nei repertori di cinema Onibaba è spesso citato come “horror movie”), il momento di massima angoscia è quello in cui la maschera, rompendosi, rivela l’esistenza di un’«altra maschera». È qui che si produce una vertigine inattesa, un’improvvisa perdita del senso di realtà che aggiunge alla paura uno smarrimento ancora più inquietante. Se una maschera ne nasconde un’altra, da quella frattura potrebbe aprirsi una catena infinita di immagini uguali, come riflessi tra specchi paralleli: un vortice nel quale la vera identità della persona sarebbe risucchiata e perduta per sempre.
   Se la presenza dello specchio accompagna la letteratura giapponese sin dai suoi albori, gli specchi prospettici sono il segno di una inquietudine tipicamente moderna. Nakajima Atsushi, nel racconto La mummia, usa questa immagine con effetti simili a quelli che ho trovato in Onibaba. Il protagonista, un ufficiale persiano, durante l’invasione dell’Egitto da parte di Cambise, crede di riconoscere in una mummia egizia il suo corpo in una vita anteriore. La sensazione di déjà vu è seguita da una visione di se stesso in una vita passata mentre, fermo davanti alla mummia, cerca di ricordare le sue precedenti reincarnazioni. Qui la visione si sdoppia in un’altra, e in breve il soldato si trova a contemplare un abisso vertiginoso dove ogni immagine si apre mostrando quella sottostante.

Quell’angosciosa ripetizione di ricordi che si moltiplicavano all’infinito, come due specchi posti l’uno di fronte all’altro, avrebbe continuato a riprodursi così, in un vortice senza fine?

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