La freccia e il cerchio
anno 3, numero 3, 2012
pp. 13-16
1.
la conversazione / the conversation
Bianca Maria d’Ippolito, Marino Niola
Nel cerchio delle apparenze
I. I postumi del rito
NIOLA
Voglio iniziare questa conversazione con un punto di domanda. L’epoca postmoderna, la nostra epoca, si caratterizza come tempo dei riti infranti, dei cerimoniali vuoti o, piuttosto, non è il caso di ripensare la categoria? Io direi che è necessario revocare in questione la categoria del rito nella sua interezza, anche perché il rischio, se ci si limita a lamentarne il tramonto, è quello di cadere in una nostalgia equivoca e fine a sé stessa. Fra l’altro, l’antropologia questo ripensamento lo ha avviato da molto tempo, penso soprattutto alla scuola di antropologia sociale britannica che, per prima, ha sganciato il concetto dal campo del religioso e del sacro, puntando, viceversa, sul ruolo del rito come evidenziatore collettivo, come particolare principio d’ordine delle relazioni sociali. Principio d’ordine che può anche tradursi nel suo rovescio, rivelando la potenzialità distruttiva, la quota di disordine intrinseca, costitutiva di queste relazioni.
D’IPPOLITO
Io parto dalle origini. Il rito è collegato, almeno nella tradizione europea, ad uno dei più alti momenti dello sviluppo spirituale, e cioè alla tragedia. La tragedia greca si lega al rito in quanto nasce, come Aristotele ci ha narrato, dalle processioni antiche; man mano, poi, cresce la funzione del coro, in rappresentanza della polis, e si individua un protagonista, che dapprima non ha una funzione così netta, così precisa, ma la acquista nel momento in cui fa il suo ingresso in scena il deuteragonista ed ha inizio il confronto. Mario Untersteiner collega l’origine di questa contrapposizione alla doppia nascita della comunità greca: da una parte gli Elleni, che vengono dal nord, dall’altra le popolazioni mediterranee, che sono più legate al ritorno, alla terra, alla ciclicità. La tragedia è un rito, il rito principale.
NIOLA
D’accordo, possiamo anche ricondurre il nostro discorso alla tragedia. Ed allora mi chiedo, seguendo il filo del tuo discorso, se nel panorama occidentale, negli scenari urbani contemporanei, esistano avanzi di questo coro antico, se sia avvertibile una sorta di eco continuo, una colonna sonora volta a volta dolente o critica, uno sfondo che prescinde da noi, che ci ingloba e, consapevolmente o inconsapevolmente, ci trasforma. In effetti io credo che qualcosa del genere esista, riconducibile al coro tragico ma di segno opposto. Oggi la colonna sonora di una città – e non penso solo a quelle megalopoli che portano all’estremo la forma urbana – è un insieme caleidoscopico, magmatico, di suoni, rumori, voci entro cui è difficile riconoscere l’unità della polis, quella su cui si fonda la tragedia. In questo caso l’unità non esiste, perché la città è un luogo costitutivamente eteroclito, meticcio, in cui è difficile trovare un punto d’insieme, capace di comprendere le differenze; differenze che si esprimono, viceversa, proprio attraverso questo coro apparentemente confuso, che sovrappone e giustappone senza scegliere, e rappresenta al meglio l’anima della metropoli contemporanea.
D’IPPOLITO
Torno ancora alla tragedia; ed alla dialettica, che scaturisce proprio da lì. Perché è nella dialettica che la confusione, il meticciato di cui parli, può trovare un superamento in positivo. Sotto questo profilo la lettura che Nietzsche fa della tragedia è ancora valida: uno sviluppo reso possibile dai due elementi contrastanti, che rimane tale finché li mantiene. Come dicevo, in principio il coro ed il protagonista; quindi, quest’ultimo alle prese con un deuteragonista. Scatta qui la scintilla ulteriore, innescando un vero dialogo, un confronto aperto tra posizioni opposte, un’intrico di contrasti continui che non vengono risolti: è la nascita della dialettica.
NIOLA
Il teatro come rito, dunque, come parametro di idee e comportamenti, dentro e oltre il palcoscenico. In questo senso mi viene da pensare ad epoche in cui effettivamente è stato un linguaggio fondamentale, catalizzante. L’Inghilterra elisabettiana, ad esempio. È lì che si recita la grande scena della regalità ed anche quella, non meno solenne, del tramonto di un’epoca. Lear è proprio questo, è l’ordine medioevale che entra in crisi, l’ordine che è fondato sui gradi; ed il dramma del rapporto fra Lear e le figlie è che questi gradi in famiglia non tengono, si sgretolano, producono altre aspettative, assumono altre forme. Lear si comporta ancora alla maniera di un sovrano da saga, addirittura nella scena del castello di Flint vuole comandare agli elementi proprio come un vecchio re sacro, in un momento in cui invece siamo già alla “bancarotta della sovranità”, battuta che Shakespeare fa pronunciare invece ad un altro regnante, Riccardo II. Ed il teatro testimonia proprio questa grande, irreversibile crisi.
D’IPPOLITO
Dal teatro, non solo quello antico, ci giunge una lezione amara e vitale assieme: l’inevitabilità dell’agone, dello scontro, che di epoca in epoca muta pelle e natura, oggetto e interlocutori. In età moderna lo focalizzerei, più che tra il protagonista e i suoi avversari, tra il protagonista e se stesso: l’individuo interiorizza il contrasto, si piaga, si macera, la lotta diviene ancor più serrata; e segreta. la dialettica autentica, nella contemporaneità, è fra l’esterno e l’interno; dialettica estrema, ulcerante, che io credo si rifletta specularmente nella ritualità: il rito pubblico è divenuto in qualche misura un rito intimo.
NIOLA
Questo non lo so, è difficile trarre conclusioni univoche. Rifletto su un dato: l’antropologia contemporanea – quella che ha dominato negli ultimi venticinque anni dopo il tramonto dello strutturalismo, che era invece l’ultimo grande pensiero forte, l’ultima teoria generalizzante – è caratterizzata da un prevalere di correnti decostruttive. Io accosto spesso questa voga con quella del minimalismo in letteratura. Assistiamo ad una frammentazione dei grandi quadri sociali e delle grandi narrazioni, come diceva Lyotard; tutto si polverizza in una serie di microanalisi ombelicali, nel caso dell’antropologia, e di micronarrazioni, nel caso della letteratura.
D’IPPOLITO
È venuto meno il legame dell’individuo con la città, col sociale. C’è un frastagliamento diffuso, che è poi interiorizzato; e quindi non c’è più l’individuo nella sua sostanzialità, nella sua unità di concezione spirituale.
NIOLA
Esatto. È l’unità che va in pezzi, in tanti piccoli pezzi.
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