La freccia e il cerchio
anno 2, numero 2, 2011
pp. 45-47

2.
Giuseppe Gembillo
Memoria come limite e come ambito

   Non ricordo. Frase terribile, sia quando pronunciata da un singolo, sia quando coinvolge il genere umano. Dimenticare, infatti, significa cancellare dall’esistenza; significa eliminare. Ciò che non viene ricordato da qualcuno, non c’è; è caduto nell’oblio, è coperto dalle tenebre. Per questa ragione, a tutti i livelli, la memoria rappresenta e richiama gli eventi nelle loro varie manifestazioni e nei diversi modi di sottrarli all’oblìo. Per questa ragione, col termine memoria si intende una molteplicità di cose non solo diverse, ma anche qualitativamente confliggenti. Memoria è il ricordo di emozioni intensamente vissute; memoria è la ricostruzione razionale degli eventi che riteniamo, selezionandoli consapevolmente, più importanti; memoria è l’hardware di un computer che raccoglie e conserva quanto accatastato e assem- blato da un programmatore che mette assieme nozioni e notizie varie a fini specifici. Dell’importanza di tutto ciò la nostra cultura ha avuto sempre pre- ciso sentore. Anzi, è stata proprio la consapevolezza dell’importanza della memorizzazione che ha portato la cultura occidentale a diventare leader indiscussa a livello mondiale, dalla nascita della cultura greca fino ai giorni nostri, e che ha prodotto una tradizione fondata sull’immagazzinamento di dati che hanno costituito la base per tutti i successivi sviluppi. In un certo senso, dunque, il culto generalizzato e critico della memoria ha costituito la linea di demarcazione tra le varie culture e tra ciò che ognuna di esse ha saputo costruire.
   Ma la linea di demarcazione è emersa anche all’interno di ogni singola cultura, della sua genesi e dei suoi sviluppi.
   A corroborazione di ciò, tra gli innumerevoli esempi possibili, mi sembra sufficiente richiamare alla memoria quanto espresso da Giambattista Vico, nella “dipintura” premessa alla Scienza Nuova per anticiparne, illustrarne e renderne più comprensibile il contenuto. In essa Vico ha collocato la statua di Omero in modo che appaia emergere da oscure e fitte tenebre, che rendono impenetrabile nello spazio e nel tempo tutto ciò che è accaduto prima di lui. Insomma, Omero, per Vico non solo primo poeta ma anche primo storico dell’Occidente, rappresenta il limite oltre il quale la nostra memoria diventa vuota, sprofondando e perdendosi, appunto, nel buio più assoluto. Il fondatore dello Storicismo ci ha reso consapevoli, in questo modo, del fatto che siamo ciò di cui abbiamo ricordo; ci ha detto che la nostra identità collettiva e individuale coincide con la consapevolezza che ne abbiamo.
   Questa considerazione si collega con il principio gnoseologico rivoluzionario da lui enunciato, secondo il quale si può conoscere solo ciò che si è capaci di fare. Il che, riferito all’uomo, indica che egli è in grado di comprendere veramente solo la propria storia, che ha fatto e che può ricostruire attraverso la memoria collettiva e individuale; o, meglio, attraverso le testimonianze e i ricordi che essa ha lasciato dietro di sé e che sono ancora in grado di comunicargli qualcosa. A questo proposito Benedetto Croce, prevenendo idealmente una possibile obiezione dello scetticismo storiografico, affermava all’eventuale domanda che un dubbioso potrebbe porre allo storico chiedendogli: come fai a essere sicuro che tutto ciò che racconti sia accaduto, il genere umano, e non soltanto il singolo storiografo, risponderebbe con orgoglio e con sicurezza: “io lo ricordo!
   Ma, andando oltre queste appassionate considerazioni, va sottolineato che Giambattista Vico, con le sue esortazioni a favore di una Scienza Nuova, ha impresso una svolta decisiva al modo di essere e di pensare dell’Occidente. Da allora l’uomo ha progressivamente acquisito, come notava Gadamer verso la fine del Novecento, una precisa “coscienza storica”; si è autorappresentato, sempre più lucidamente, come “essere storico” ed è andato con sistematica consapevolezza alla ricerca delle proprie memorie. Da allora, la ricostruzione del passato attraverso la memoria non è più, come pure è stato brillantemente detto, soltanto ricerca emotiva “del tempo perduto”, ma ripensamento profondamente e integralmente razionale di ciò che siamo stati e di ciò che, di conseguenza, adesso siamo. Infatti, alla indispensabile base emotiva, a partire dalla quale il ricordo emerge, abbiamo capito che dobbiamo far seguire la riflessione critica, capace di distinguere l’immaginato dal realmente vissuto.
   Questo risultato, però, è stato raggiunto dopo una lunga battaglia, per la verità ancora non del tutto vinta. La convinzione dominante, infatti, risente a tutt’oggi della forma mentis forgiata dalla scienza classica e dalla sua filosofia le quali, nonostante il fatto che si ispirassero entrambe al Platone teorico dell’anamnesi, invitavano a rinnegare il passato; letteralmente, a dimenticarlo. Lo faceva Galilei il quale, pur usando splendidamente la logica argomentativa aristotelica e pur fondando la propria concezione sul presupposto pitagorico-platonico secondo cui la struttura interna del mondo è matematica, tuttavia invitava espressamente a dimenticare tutta la filosofia precedente e a ricominciare daccapo, applicando il nuovo “metodo sperimentale”. Invitava, cioè a dimenticare tutti gli sforzi che il genere umano aveva fatto per cercare di dare un senso razionale al suo essere nel mondo.
   Esortava a confinare la memoria solo nell’ambito dell’emotivo e dell’irrazionale.
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