La freccia e il cerchio
anno 2, numero 2, 2011
pp. 65-67

3.
Rocco Ronchi
Io non mi ricordo. Filosofia e oblio

   L’enunciato “non mi ricordo” da sempre costituisce per il filosofo un enigma degno del massimo interesse. Esso infatti sanziona un limite strutturale ed un’attiva relazione. Da un lato segna la mia esclusione dal vero perché chi “non si ricorda” non sa, dall’altro manifesta il mio rapporto obliquo con la verità assente, perché chi non si ricorda, alla prima persona dell’indicativo presente, è comunque sulle tracce della verità che attualmente non possiede. Chi non ricorda sta infatti attualmente cercando di ricordare. Oblio e sforzo di rimemorazione sono parti inscindibili dello stesso fenomeno. Non c’è oblio senza ricerca di quanto è andato perduto, come una ferita è già, fin dal suo primo insorgere, un processo di cicatrizzazione in corso. “Non mi ricordo” comporta sempre un cercare perfino nella resa, quando si prende atto dell’impossibilità attuale di ricordare. In tal caso l’ignoto è lasciato essere come ignoto, nella sua virtualità, vissuta comunque come una “fame” di determinazione alla quale ci si rende però conto, con tristezza, di non poter dare sollievo.
   Filosofia significa ricerca, tensione verso la verità. Perché la filosofia sia possibile bisogna, insomma, che da un lato la verità si manifesti, che essa si dia a vedere “in qualche modo”, e che, dall’altro, la distanza dalla verità, nella quale siamo situati, non sia segno di esclusione, ma di partecipazione indiretta ad essa. L’oblio alla prima persona denota esattamente questa situazione di distanza-relazione. Ne è, si potrebbe dire, la cifra esistenziale. Solo un essere capace di questo genere di oblio può infatti “sapere di non sapere” e, dunque, aspirare al vero sapere. La struttura dell’oblio manifesta infatti la possibilità di un rapporto con l’assente in quanto assente, proprio come la consapevolezza di ignorare non si risolve nel semplice fatto dell’ignoranza, ma nella tensione verso il sapere assente. Come nel caso dell’oblio, anche nel caso del “sapere di non sapere” a chi sa di non sapere deve essere “in qualche modo” dato quel medesimo che non sa e che, appunto, non sapendolo, cerca.
   L’oblio è intenzionale, è oblio di qualcosa. È una coscienza di oblio. Questo è il suo tratto specifico e paradossale, dal momento che la coscienza è intenzionalmente volta verso qualcosa che non è attualmente dato e che, dunque, se essere significa essere presente, non è. Da un punto di vista rigorosamente logico questo oblio è semplicemente un assurdo giacché costringe a percorrere la “via” barrata del non essere. Come si può infatti avere di mira qualcosa che non è? Sulla punta della lingua, nell’amnesia momentanea del nome proprio, niente ci è “dato”! Se volessi dire ciò che vedo quando non ricordo non saprei proprio cosa dire, avrei anzi la sensazione nettissima dell’inadeguatezza di ogni parola e della trascendenza insuperabile della “cosa” vista. O forse potrei dire che è una specie di fantasma della cosa, una larva, che chiede sangue e carne per potersi materializzare. Ma queste immagini spettrali che si riveleranno gravide di insospettati significati, sono affatto estranee a spiriti logici. Che cosa ho allora sulla punta della lingua? Che cosa funge da motore immobile della mia ricerca? Quando “io non mi ricordo di X” infatti non solo “intenziono” assurdamente qualcosa che non è (X) ma lo assumo anche come stella polare nella ricerca di ciò che questo qualcosa è. All’assurdo sembra qui aggiungersi anche il ridicolo: qualcosa che non è si fa guida nella ricerca circa l’essere di questo qualcosa. Che cosa è X, mi chiedo, infatti, nel vuoto dell’oblio? È forse B, C, D? No, essi gli somigliano, hanno solo qualcosa a che fare con lui, ma non sono lui; X è invece A. Ora, il giudizio, X è A, appare solo al termine della ricerca. Segna lo sbocciare del ricordo e l’alba del sapere. Solo allora si dà in evidenza intuitiva quella medesima cosa che nell’oblio devo supporre che mi sia data, assurdamente, in assenza.
   “Io non mi ricordo” significa aver di mira un’assenza specifica, un eidos X (un X che sarà A e non B, C, D), come accade, molto prosaicamente, quando il nome proprio dimenticato se ne sta lì sconosciuto e tuttavia fremente “sulla punta della lingua”. L’assenza intenzionata non è un generico niente, è un’assenza determinata. Il nome proprio ricercato non c’è e tuttavia quel vuoto esercita un’indiscutibile forza selettiva. È un criterio negativo che mi permette di escludere con sicurezza i “pretendenti” che si affacciano alla coscienza ed è anche, al tempo stesso, la ragione (la causa) a me attualmente ignota che spiega perché siano proprio certe immagini e non altre ad emergere. Tali immagini arrivano come in sogno, sono dei visitatori perturbanti, ma hanno una causa. Agostino e Freud hanno ben illustrato questa situazione paradossale e unhemliche proprio prendendo spunto dall’amnesia momentanea dei nomi propri.
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