La freccia e il cerchio
anno 1, numero 1, 2010
pp. 130-133

David Punter
Morte, storie e salvaguardia dell’anima


I demoni possiedono le anime nel delicato periodo immediatamente successivo alla morte, ma le storie li tengono a distanza. Simili a scatole cinesi o ai labirinti dei parchi inglesi, le storie contengono fiabe nelle fiabe, per cui entrando nell’una ci s’imbatte nell’altra e si passa ad ogni svolta da una trama all’altra, per giungere infine al centro dello spazio narrativo, un centro che corrisponde al posto occupato dalla salma nel cortile interno della casa. A questo spazio i demoni non possono accedere perché non sanno svoltare: battono vanamente il capo contro il labirinto narrativo costruito dai lettori, e così la lettura innalza una sorta di fortificazione difensiva… creando un muro di parole che funziona come un’interferenza nelle trasmissioni radiofoniche. La lettura non diverte, non istruisce, non rende migliori, né aiuta a passare il tempo: grazie al fitto intrecciarsi della narrazione e alla cacofonia dei suoni, protegge le anime*
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   Per la prima volta mi sono imbattuto in questo brano in un curioso intreccio di contesti. È tratto da un capitolo dal titolo ‘I lettori rispondono a Rousseau’ del libro The Great Cat Massacre, 1985 (Il grande massacro dei gatti e altri episodi della storia francese) di Robert Darnton: fa riferimento ai riti funebri balinesi, alla lettura e all’anima. Ma per la prima volta l’ho letto come citazione dell’ultima Angela Carter in un articolo di The Independent del 1992, che a sua volta era la riproduzione dell’introduzione a un volume di critica della Carter in corso di pubblicazione, postumo, poiché la Carter era morta il mese precedente. Anche nel contesto originale, il commento di Darnton sullo scopo specifico della lettura è necessariamente un tipo di traduzione, come deve essere l’antropologia nel suo complesso: la traduzione da un insieme di pratiche a un discorso straniero. La traduzione stessa è affine al processo di trasfert psicologico poiché cerchiamo di ricollocare la nostra posizione di soggetti nel mezzo di un labirinto di differenti genitori, differenti culture, differenti versioni dell’io smembrato. In questo luogo tutto è segreto: possiamo trovare o cercare di costruire una versione del rito balinese, ma evidentemente possiamo farlo solo tentando di allinearla a presunti punti di riferimento, i quali, naturalmente, hanno anch’essi i loro segreti, a maggior ragione forse quando riguardano gli scenari della morte.
Voglio leggere il testo in dettaglio; voglio ‘prendermene cura’, ma nel farlo sono destinato a cadere nella trappola dell’interpretazione. Non è possibile, e non lo sarà mai, occuparsi di un testo in tutta la sua singolarità. Come lettori si è inevitabilmente in procinto di spiccare il volo, ci si allontana dall’oggetto mentre si cerca di avvicinarsi, ci si imbatte in cacofonie assordanti che interrompono il lento, paziente lavoro dell’orecchio interno. Mentre leggo, inevitabilmente taglio la maggior parte delle connessioni tra i fili sottili che tengono insieme il testo; infatti, quello che nessun commento, nessun rituale può fare è resuscitare i morti. La morte della Carter, per esempio, è per me curiosamente iscritta in questo testo: rimane un evento, per così dire, iscritto nel Reale, il che equivale a dire che è iscritto ai margini di questo testo (di chiunque sia ormai questo testo: di Darnton, della Carter, il mio, dei balinesi) come segno indelebile che anche un’opera d’arte nella epoca della riproducibilità tecnica non è ridotta a simulacro, ma incarna inevitabilmente, rende manifesto, qualcosa di più grande di se stessa.

   Di singolarità, protezione e della macchina

   Questa specifica ‘cosa più grande’ potrebbe essere collegata alle nozioni junghiane di sincronicità; non siamo in grado di decidere cosa farne di una citazione postuma che parla della forza insita nelle parole di proteggere le anime non solo dei morti, ma anche di coloro che sono morti di recente, coloro che sono nella fase più delicata della loro evoluzione, proprio com’era implicitamente la Carter, nel cortile interno di questa complessa casa della lingua. Una casa della lingua, naturalmente, anch’essa in continuo cambiamento nella forma e persino nei materiali di costruzione, tanto che proprio mentre scrivo ‘riproducibilità tecnica’ sono consapevole che è tutto cambiato dal tempo di Walter Benjamin, che la stessa nozione di ‘tecnica’ è contrapposta a termini del tutto diversi: ‘tecno-elettonico’, ‘elettronico’, automatico e così via. La nozione di ‘tecnica’ è completamente rovesciata: dall’associazione alle fantasie futuristiche degli italiani e dei russi nel periodo fra le guerre, viene relegata a un regime antiquato di pesante ingegneria, al ripetitivo lavoro manuale e a tutte le caratteristiche di vita sociale ed economica che attualmente sono considerate opposte alla ‘modernità liquida’ (inferiori e disprezzate).
   Anche la lingua, ovviamente, fa la sua parte in qualsiasi discorso osi adoperare la parola ‘anima’: è anche cambiato, fino a diventare quasi irriconoscibile, il mio modo di intenderla negli anni in cui ne ho scritto, cercando di serbarla a scopo critico, cercando di infondervi nuova vita per continuare così a far vivere l’antico fantasma. Adesso sembra collocarsi accanto ai discorsi di ‘singolarità’ e ‘natalità’, rinviando a un punto in cui si esauriscono le categorie, le storie e le interpretazioni, un punto in cui non parliamo più di ‘riproducibilità tecnica’ delle generazioni senza essere consapevoli dell’aggressività e delle inflessioni strumentali che sottendono ogni discorso che non tenti di riconoscere l’irriducibile singolare. Per lo più continuerò a riferirmi a questo irriducibile singolare come anima.
   È necessario però uno spazio in cui si possa dire di più sull’anima. Storicamente spesso se ne parla come qualcosa che ha a che fare con l’unio- ne di corpo e mente, reale o virtuale, alla pari o sbilanciata; ma è chiaro che ciò è fuori luogo nel contesto dei segreti di questo brano, nel percorso della loro lettura, poiché ci porta in presenza di quello che sopravvive alla mor- talità. Tuttavia, può darsi che si tratti solo di un ulteriore punto di vista della medesima cosa: forse siamo alla ricerca del fondamento dell’unione – e per- ciò implicitamente della separazione – tra psichico e materiale, tra l’imma- ginazione e il corpo. La scissione di quella intimità centrale (a volte conside- rata dagli psicoanalisti come la Madre di tutte le Separazioni), l’immagine di tutte le altre intimità reali e desiderate, sarebbe un evento non meno decisivo per l’anima e per la creazione del materiale dell’anima, degli even- ti che si verificano all’interno del territorio dell’unione. La vulnerabilità del- l’anima deriverebbe allora da una certa foschia intorno alla linea di confi- ne: ci sono forse segreti nascosti nella nebbia, oppure non vi è davvero nulla di più di assestamenti e cacofonia, ordine e rumore?
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