La freccia e il cerchio
anno 1, numero 1, 2010
pp. 157-159
6.
Bruna Mancini
Metropolis: l’Automa e la Vergine
Dei e spettri di Metropolis
Ecco che il fragore del grande organo crescendo fino a rimbombare si levò come un gigante, appoggiandosi contro l’alta volta della sala per mandarla in frantumi. Freder piegò il capo all’indietro; gli occhi ardenti, spalancati, erano fissi in alto senza sguardo. Con le mani forgiava la musica dal caos delle note, lottando con le vibrazioni del suono e rimanendone scosso nel più profondo dell’animo. Era vicinissimo al pianto come mai in vita sua, e in uno smarrimento felice si abbandonò alle lacrime roventi che lo accecavano. Sopra di lui la volta celeste di lapislazzuli, dove pendevano le dodici figure in oro del mistero zodiacale. Più in alto i sette incoronati: i pianeti. E ancora più in alto, migliaia di stelle d’argento: l’universo. (p. 5).
È con un’esaltazione di suoni, rumori, colori, movimenti e spazi, fantasmatici ed infiniti, che si apre Metropolis (1926) di Thea von Harbou, un romanzo scritto – non a caso – di ritorno da un viaggio a New York, mentre l’autrice era impegnata a redigere la sceneggiatura di un film dallo stesso titolo che, con la direzione di suo marito, il regista Fritz Lang, sarebbe diventato uno dei capolavori indiscussi dell’espressionismo tedesco. Nato come per gemmazione fantastica, il romanzo mi sembra, dunque, completare un progetto complesso e grandioso che, evidentemente, il cinema (muto e in bianco e nero) di quegli anni non poteva realizzare appieno. Senza contare che, come sottolinea anche Giorgio De Vincenti nella Prefazione alla traduzione italiana di Riccarda Novello, se la versione cinematografica è inequivocabilmente di Lang, il romanzo è un prodotto di Thea dall’inizio alla fine. Come si saprà, al centro della vicenda – quella narrata dal romanzo, ma anche nel film – compare una ‘metropoli’ del futuro dominata dal dittatore-imprenditore-capitalista Joh Fredersen: un tessuto urbano perturbante, scintillante e mostruoso, nel quale ogni divisione di classe viene portata alle estreme conseguenze; così, negli sfavillanti grattacieli della città, che si eleva verso l’alto come una novella Torre di Babele, vivono i ricchi industriali e i potenti manager, mentre nel sottosuolo infernale sopravvivono gli operai che, col silente lavoro delle loro braccia, permettono a quel paradiso luminoso ed indifferente di sopravvivere, dimenticandosi quasi totalmente del meccanismo umano che gli fornisce la vita. Ma nelle viscere purulente della metropoli, com’è giusto che sia, già cova il germe della rivolta.
L’apertura avviene nella Cappella delle Stelle, dove Freder – il figlio di Joh/Jhwh/Jahweh Fredersen, il “grande padre” di Metropolis – suona l’organo, creando un oceano incandescente di immagini e sensazioni che l’avvolgono, insieme al lettore. Catturato in questo vortice di mirabolanti visioni, il giovane è spossato, avvinto, e in un’atmosfera surreale, dietro le palpebre socchiuse, gli appare un volto di donna avvolto nella fiammeggiante danza delle stelle. La prima volta ch’egli aveva avuto modo di vedere quell’incarnato diafano e verginale era stato poco tempo addietro nei “Giardini Eterni”, dove i figli dei ‘potenti’ di Metropolis trascorrono la propria esistenza, trastullandosi nell’ozio. All’improvviso, la gigantesca porta si era spalancata e una fila di bambini nudi ed emaciati, con facce grigie e vecchissime come gnomi, “piccoli scheletri spettrali che pendevano in cenci e camici sbiancati”, aveva fatto irruzione in quel giardino delle delizie, guidati da una fanciulla:
Il volto acerbo della Vergine. Il dolce volto della Madre. In ciascuna mano teneva la mano scarna di un bambino. Ora se ne stava in silenzio e guardava uno dopo l’altro i giovani, uomini e donne, con la mortale severità della purezza. Era vergine e signora; inviolabilità e anche assoluta dolcezza: la bella fronte nel diadema della bontà; la voce tutta compassione; ogni parola un canto.
Lasciò andare i bambini, tese la mano e disse loro, indicando gli amici: “Guardate, questi sono i vostri fratelli!” (pp. 10-11).
Questa Vergine e Madre che riempie la mente, gli occhi e il cuore di Freder altri non è che Maria: la ‘madre di Dio’, ci verrebbe da aggiungere, dopo averne letto la descrizione; ed infatti il romanzo, come anche la versione cinematografica, dialoga incessantemente con la tradizione biblica ed ebraica, in particolare con l’immagine della Madonna e della Santissima Trinità: Joh Fredersen è il “padre onnipotente”, Padrone e Cervello (Dio/Creatore) di Metropolis, mentre Freder, il suo “unico figlio”, incarna la figura dell’Eroe, il Messia, il “cuore” che può (e deve) mediare tra la mente che crea e le mani che costruiscono, al fine di salvare e redimere la città e i suoi abitanti dall’abisso. Nel film di Lang questo coraggioso e ipersensibile ‘salvatore’ è interpretato da Gustav Fröhlich, mentre la fanciulla pura, severa e compassionevole, che entra nel Giardino delle delizie con le braccia allargate ed una schiera di bambini che le cingono la vita, ha il volto e le fattezze di Brigitte Helm. Vestita in maniera semplice, come una fata che viene dal nulla, col volto estatico e lo sguardo rivolto verso la macchina da presa, ad interpellare e sedurre direttamente lo spettatore (e Freder), Maria rappresenta però anche una novella Eva che fa irruzione nel Paradiso Terrestre e porge a Freder la mela della conoscenza, mostrandogli ciò che Joh/Jahweh non avrebbe mai voluto ch’egli sapesse, ovvero che la sua esistenza e quella degli altri ‘Figli’ di Metropolis, fatta di giochi e piaceri senza fine, è possibile solo grazie allo sfruttamento incondizionato di individui del tutto simili a loro.
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