La freccia e il cerchio
anno 1, numero 1, 2010
pp. 219-224

Eric S. Rabkin
La natura del personaggio:
la fantascienza parla dell’anima

Introduzione: macchine dell’amore

   Victor Frankenstein voleva essere Dio, o almeno assomigliare a Dio, rianimando (dal latino animus, che significa “anima” [OED]) parti del corpo umano per creare la vita. Il titolo stesso del romanzo di Mary Shelley, Frankenstein, or the Modern Prometheus, testimonia dell’hybris del suo eponimo. Shelley trae la sua epigrafe dal Paradise Lost, la grande epica che secondo le preghiere di John Milton avrebbe “… giustificato le vie del Signore agli occhi degli uomini”(1.26).

Ti ho forse chiesto, mio Creatore, di modellarmi
Come uomo dalla Creta? Ti ho forse sollecitato
A spingermi fuori dall’oscurità? – (X.743.5)

   Come Adamo, bramiamo una giustificazione che ci renda tollerabile un dio, o almeno il nostro comune destino di esseri umani, che ci ha dato forma dalla semplice materia senza il nostro consenso e ci ha messo in un mondo che nonostante le sue infinite potenziali delizie conduce a “morte sicura” (Genesi 2:17). Non ci identifichiamo con Dio nel Paradise Lost, o, credo, con Victor in Frankenstein. Ci identifichiamo – nel senso che lo trattiamo come tratteremmo noi stessi (dal Latino idem, “stesso”) con le creature create, con Adamo e il mostro, vale a dire che in un certo senso comprendiamo meglio noi stessi e il nostro destino vivendo nell’opera d’arte le vite di quei personaggi ribelli eppure sofferenti. Ma come fanno questi o altri personaggi a renderci più facile e più leggera la vita? Qual è la natura del personaggio? Questo saggio prova ad esplorare questa questione partendo da tre esempi tratti dalla fantascienza.
   Philip Dick inizia Do Androids Dream of Electric Sheep? (il romanzo da cui è stato tratto il film di Ridley Scott Blade Runner) così:

Un allegro, lieve segnale elettrico emesso dalla sveglia automatica dell’organo umorale accanto al letto svegliò Rick Dickard. Sorpreso – lo sorprendeva sempre svegliarsi di colpo – si tirò su dal letto, si alzò nel suo pigiama multicolore e si stiracchiò. In quel momento, nel suo letto, sua moglie Iran apriva gli occhi grigi e spenti, sbatteva le palpebre, emetteva un lamento e poi li richiudeva.
“Hai impostato il Penfield troppo basso,” le disse. “Ci penso io a reimpostarlo, così quando ti svegli –”
“Stai alla larga dalle mie impostazioni.” La sua voce tagliente aveva un tono amaro. “Non mi voglio svegliare.” (p. 9)
 

   Qualsiasi lettore di fantascienza bene informato, all’epoca in cui il romanzo fu pubblicato, nel 1968, avrebbe capito che la parola “Penfield” si riferiva a Wilder Penfield, il pionieristico neurochirurgo canadese nato in America, le cui ricerche elettriche dei cervelli degli epilettici sottoposti a chirurgia avevano rivelato che parti specifiche del cervello potevano essere attendibilmente stimolate per richiamare i ricordi – persino quelli non più reperibili dalla memoria cosciente – e per indurre particolari stati d’animo. In altre parole, Penfield suggeriva che, persino nei reconditi meandri privati dei nostri teschi, noi siamo delle macchine. Dick – un nome che di per sé, purtroppo, viene usato per definire volgarmente una parte del corpo oggettivata (OED) – si concentra qui sulle molteplici possibilità dell’uomo, come una macchina che si può montare e smontare. Un giovane in salute che si sveglia da una lunga notte di sonno non penserebbe esattamente a qualcosa come un dispositivo elettrico come referente per “organo umorale”; immaginerebbe, piuttosto, un’erezione spontanea che nello slang odierno viene a volte chiamata “verga del mattino” (“morning wood”, Wikipedia). Legno. Non carne. Il fatto è che sia che veniamo stimolati da un dispositivo come il fantascientifico Penfield che teniamo sotto controllo, o dalla pressione di una vescica che si è riempita durante la notte, i nostri corpi rispondono come macchine. E mentre alcuni di noi, come Deckard, anche se sorpresi, ne vedrebbero il lato positivo, altri, come Iran, ne soffrirebbero. Se una moglie che dorme in un letto separato dovesse iniziare la mattinata aggredendo il marito mentre si alza e si stiracchia con una frase come “Stai alla larga dalle mie ”, cosa mettereste voi al posto dei puntini? Non “impostazioni”, ne sono sicuro. Ma il caffè mattutino, che alcuni dichiarano indispensabile per diventare una compagnia tollerabile, non fa che fornire ai suoi adepti delle impostazioni chimiche.
   All’inizio del romanzo, per non si sa quale ragione, Deckard risponde positivamente all’“allegro, lieve segnale elettrico”, mentre Iran, vedendolo, ha “gli occhi spenti”. Il pigiama di lui è multicolore ma gli occhi di lei sono grigi. Lui si sorprende di essere sveglio ma cerca subito di mettersi in moto; lei non ne vuole sapere. Non sorprende che dormano in letti separati. Non c’è bisogno di riconoscere l’esistenza di un organo umorale Penfield per identificarsi con almeno uno dei personaggi in questa situazione. Inoltre, credo che entrambi meritino un po’ di comprensione. Persino quelli che deciderebbero di essere infelici, suggerisce Dick, cercano di dare la colpa della loro condizione a qualcun altro. Noi siamo quello che siamo, mera materia corruttibile, una realtà che a molti, come Amleto, fa desiderare di dormire (III.1.60).
   John Varley ambienta Millennium sia nel presente sia in un futuro talmente inquinato che la maggioranza degli esseri umani è stata di fatto sterilizzata. Senza averne colpa, Louise Baltimore, la nostra protagonista, sa che morirà prima di compiere i trent’anni e che nel frattempo perderà parti del corpo come per un’accelerata biblica lebbra, sebbene sia più in salute della maggior parte dei suoi futuri contemporanei; è per questo che le è stato assegnato l’ambìto lavoro di ladra di corpi. Grazie ai progressi della fisica e ad una grande maestria nel pilotare, i tecnici del futuro aprono delle porte nel passato, attraverso cui i ladri di corpi passano per andare a rubare persone appartenenti al nostro presente con l’intento di usarne il germoplasma sano per salvare l’umanità nel loro tempo. Per non causare paradossi temporali, essi aprono porte solamente in situazioni in cui non ci sono sopravvissuti, come incidenti aerei fatali, e le persone rapite vengono rimpiazzate prima del disastro con cadaveri provenienti dal futuro, in modo che il furto non causi alcun cambiamento nel nostro tempo. Le porte rimangono aperte solo per un periodo di tempo limitato, ammoniscono i fisici, e devono essere mantenute in perfetto allineamento con, ad esempio, il bagno di un aereo condannato che vola a 500 miglia all’ora. I ladri, nei panni di assistenti di volo, tranquillizzano rapidamente i passeggeri e l’equipaggio ed effettuano lo scambio. Louise, che ogni anno diventa sempre più cyborg, durante queste frenetiche operazioni ama poter respirare l’ossigeno denso, fumare una manciata di sigarette tutte insieme e immergersi nella bellezza di centinaia di persone dalla pelle praticamente perfetta, con le teste coperte di capelli e un vigore intatto. Nel rapimento chiave di questo romanzo, Louise si commuove alla vista di un bambino, un bambino che ruberà ma che non potrebbe mai dare alla luce. Di ritorno nel futuro, cade in depressione. Il suo compagno, il suo amante, il tenero Sherman “mi ha portato a letto ed è rimasto ad accarezzarmi per un po’, poi se ne è andato.” Louise è amareggiata dalla sua sterilità ma grata a Sherman per le sue attenzioni. “Quella fottuta macchina è il migliore amico che ho mai avuto” (53). Improvvisamente ci rendiamo conto, condividendo l’amara ironia di Louise, del doppio significato di quell’espressione volgare. Quanto complesso, quanto automatizzato deve diventare un pene artificiale prima che lo chiamiamo uomo invece di macchina? Su quante protesi – occhiali, arti artificiali, caffè mattutini – deve contare un uomo prima che lo si chiami macchina? Quale parte di noi è veramente noi? Cosa intendiamo per “parte”?
   Jean-Claude Forest disegnava fumetti umoristici su una bomba erotica spaziale di nome Barbarella. In uno di questi fumetti si vede persino quello che è un evidente momento post-coito, in un ambiente vagamente abbozzato, forse una navicella di salvataggio fluttuante nello spazio. Sul pavimento artificiale giace Barbarella, con il lenzuolo tra le gambe aperte che le arriva ai fianchi, le mani che nascondono appena i capezzoli del suo impossibile seno da Playmate, la chioma che le forma un alone attorno alla testa, gli occhi dalle lunghe sopracciglia chiusi per la soddisfazione e le labbra prominenti semiaperte. Seduto accanto a lei, con le ginocchia rannicchiate contro il petto e lo stesso lenzuolo che lo copre appena fino alla vita, si trova un robot dalla faccia triste. “Diktor”, esulta Barbarella, “hai veramente stile!” “Oh! Madame è troppo gentile…” risponde lui. “Conosco i miei limiti… C’è qualcosa di un po’ troppo meccanico nei miei movimenti!” Credo che qui ci identifichiamo non con la felice Barbarella ma con lo sconfortato Diktor. Ha persino un nome ironico. “Diktatur” in tedesco vuol dire “dittatore”, colui che governa, e “diktieren” significa “dettare”, come farebbe un capo con la sua segretaria (Betteridge). Diktor non è né un Diktatur né un dettante, somiglia più ad un maggiordomo, con Barbarella come capo, una “madame” non nel senso che fornisce prostitute agli uomini ma nel senso che prende ciò che vuole. E quale adolescente, fantasticando sull’opportunità di accoppiarsi con un oggetto sessuale come Barbarella, non si sarebbe reso conto, onestamente, che prima di tutto ha terminato la lezione e che anche se lei dicesse che è bravo, non sarebbe abbastanza? Lui non era un amante, tanto meno un amore, ma solo qualcuno – qualcosa – con stile. Anche avendo il vigore di una macchina e i programmi di tutti gli esperti di sesso dell’universo, per una donna vorace e voluttuosa avrebbe al massimo compiuto tutti i movimenti possibili ma senza mai ottenere il riconoscimento del proprio essere, continuando ad esistere semplicemente come oggetto. Che tristezza. E non solo, naturalmente, per Diktor, il robot dei fumetti, il pene sempre eretto, ma per qualsiasi ragazzo che avesse fantasie da stallone (stud, che in inglese antico aveva il significato di “sostegno, supporto”, nel senso di “palo” [OED]).
   Dal mostro di Frankenstein in poi, la fantascienza ci offre personaggi che bramano amore. Che peccato che Iran non sia così. Che cosa terribile per Louise Baltimore che il suo migliore amico sia “solo” una macchina. Oppure lo stesso vale per tutti noi? Siamo forse tutti macchine predisposte per svendere l’illusoria sensazione di un’anima, per quanto cara essa possa essere, se solo scopriamo qual è il numero giusto da digitare sul nostro Penfield? In un senso più profondo, cosa significa darsi per amore? Dare il proprio essere per amore? Non si sentirebbe meglio Diktor, e non sarebbero confortate le nostre fantasie, se potessimo semplicemente accettare le nostre nature meccaniche? Nell’ambito della fantascienza più che in ogni altro, ci troviamo di fronte e abbiamo la possibilità di mettere alla prova noi stessi come macchine dell’amore.
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