IL ROSSO E IL NERO
anno 2, numero 6, ottobre 1993
racconti brevi, pp. 15-22
Giulio Mozzi
Crisalidi
Basta dare un’occhiata a Vanessa per immaginarsi che sia pazza. Io la vedo tutti i giorni nell’ufficio postale dove vado a spedire i pacchi della libreria. Le impiegate si danno il turno agli sportelli (servizi a denaro, raccomandate, pacchi), e una volta ogni tre o quattro mesi allo sportello mi trovo davanti Vanessa per un mese intero. Un giorno, mentre aspettavo in coda, ho guardato la sua faccia e ho pensato: sembra una rana. Sembra grassa, ma è piuttosto gonfia: la sua carne non è né pesante né consistente come se una malattia penetrando dentro il corpo ne avesse aumentato innaturalmente il volume. Non si capisce bene dove guardi con gli occhi. Ha occhiali brutti con la montatura grossa. I capelli sono dei ricci castani sciatti che non sembrano mai veramente pettinati, anche se ogni tanto si mette in testa dei cerchietti per trattenerli. Porta sempre dei vestiti informi, o forse diventano informi addosso a lei. Un giorno le impiegate, a forza di mezze parole e di strizzarmi gli occhi, mi avevano fatto capire che avrei dovuto complimentarmi per il vestito nuovo. Era un vestito di cotone stampato rosso a fiorellini bianchi che sarebbe stato molto bene a una sedicenne snella e carina. Era così assurdo addosso a Vanessa che il complimento mi scappò fuori crudelmente come una battuta a doppio senso. Me ne vergogno così tanto che non me la ricordo nemmeno. Mi accorsi troppo tardi di aver sbagliato perché le impiegate un po’mi facevano gli occhiacci e un po’non sapevano fare a meno di ridere. Nessuno voleva fare del male a Vanessa. Vanessa non aveva capito il doppio senso, aveva preso solo il complimento, e mi fece uno dei suoi sorrisi ebeti, con la bocca mezza aperta. La cosa mi fece stare ancora più male perché mi resi conto che Vanessa è una di quelle persone che si possono deridere in pubblico senza che nemmeno se ne accorgano; anzi ringraziano, sorridono. Persone così sole che forse, accetterebbero anche le botte come una grazia.
Allo sportello dove sta di turno si fa sempre la coda perché Vanessa, per riuscire a fare le operazioni, deve farle lentamente e ricontrollarle tutte due o tre volte. La spedizione di un pacco in contrassegno è una procedura composta da un certo numero di operazioni molto semplici. Ogni pacco viaggia accompagnato da un modulo in quattro copie, quattro foglietti grandi come una cartolina. Nel modulo si scrivono il mittente, il destinatario, l’importo dell’assegno, le modalità di pagamento (noi ci facciamo versare i soldi sul nostro conto corrente postale). La prima copia, sul retro della quale si attaccano i francobolli, si chiama “bollettino di spedizione” e va messa, insieme con la seconda copia (“cedola riscontro”) e con il conto corrente intestato alla libreria, in una busta di plastica trasparente con un lato adesivo che si attacca al pacco. La terza copia, “atti d’ufficio”, resta presso l’ufficio postale. La quarta copia è la mia ricevuta. Ognuno dei quattro foglietti va timbrato nell’angolo inferiore destro, dove c’è un riquadro; il bollettino di spedizione va timbrato anche dietro, per annullare i francobolli. Nel riquadro in alto a destra del bollettino va attaccato il bollino con il numero progressivo del pacco (un bollino uguale, solo un po’ più grande, mi viene passato attraverso lo sportello e io lo attacco sul pacco, vicino al cartellino con l’indirizzo). Lo stesso numero va scritto a penna in un riquadretto; i moduli sono autocalcanti, e così il numero si legge anche sulla cedola riscontro, sugli atti d’ufficio e sulla ricevuta. Io arrivo sempre in posta con i moduli già compilati e affrancati basta timbrarli e numerarli. Di solito le impiegate controllano timbrano, numerano, dividono e imbustano un modulo in quaranta o cinquanta secondi: poi mi passano la ricevuta, che io metto da parte, e la busta adesiva da attaccare al pacco. Con Vanessa ci vogliono almeno due minuti per ogni pacco. Io calcolo questi tempi perché la posta è l’ultima cosa che faccio nella mattinata, a volte cerco di spedire quindici o venti pacchi, e naturalmente a volte devo non andare fuori orario. Quando Vanessa è di turno io devo partire prima, anche perché so che troverò la coda. Poi finisce che vado fuori orario un giorno sì e uno sì perché nella mattinata devo fare tante cose, e non ce la faccio a partire per la posta prima delle undici e cinquanta o mezzogiorno. La libreria chiude a mezzogiorno e mezzo, se non ha bisogno di andare in banca o da qualche altra parte il titolare resta dentro fino all’una a fare i conti o a spedire fax con gli ordini, ma può succedere che quando rientro abbia già chiuso. Se ad esempio ho lasciato in negozio il giaccone con le chiavi di casa in tasca, mi tocca stare in giro fino alle tre e mezza.
Io non c’è l’ho con Vanessa e non mi dispiace anche se succedono questi piccoli incidenti. In ufficio postale la gente in coda al suo sportello di solito si arrabbia, sbuffa, fa commenti a voce alta su certa gente che dovrebbe essere mandata a fare i lavori che sa fare o che è pagata per niente. Io spero che Vanessa non li senta (ma credo che, semplicemente, non capisca) e dentro di me maledico le persone che si comportano in questo modo. Sono contento che le tasse che pago servano anche a dare un lavoro e uno stipendio a queste persone che in una azienda privata non avrebbero nessuna speranza. Io mi immagino Vanessa a casa sua, con le persiane mezze abbassate, seduta a un angolo del tavolo della cucina, con il televisore piccolo acceso nell’altro angolo; il televisore, nella mia immaginazione, trasmette brulichio grigio; Vanessa lo guarda affascinata, come un’indovina guarderebbe i fondi del caffè; probabilmente beve vino da supermercato, di quello dei bottiglioni da due litri. Non so se questa immaginazione è vera, anzi credo che Vanessa stia con dei familiari o forse addirittura è sposata. Io mi rendo conto che i servizi pubblici dovrebbero essere prima di tutto efficienti, e che se una persona è sofferente va curata e non spedita a lavorare in un ufficio postale. Ma Vanessa è una persona umana, e l’efficienza dei servizi pubblici no. E non so nemmeno chi e dove nell’Italia di oggi, potrebbe prendersi cura di Vanessa. Se poi gli utenti dei servizi pubblici sono persone così prive di pietà e stupide da non capire che così è giusto, io non so più che cosa pensare. Naturalmente non posso mettermi a discutere con le persone che imprecano, perché sarebbe peggio. Posso stare tranquillo nel mio posto in coda e cercare di comunicare agli altri questa stessa tranquillità, conversando un po’, sorridendo e scherzando. Non ho voglia sempre di scherzare ma mi sforzo. Vanessa il suo lavoro lo fa tutto e lo fa giusto, anche se ci mette un sacco di tempo. Non è che per causa sua ci tocchi spedire meno pacchi, o che i pacchi non arrivino. Nessuno si sogna di pagarmi quei dieci o venti minuti di fuori orario che mi capita di fare a causa sua, ma anche questo è un costo che mi sembra più che sopportabile.
Vanessa prende l’etichetta con il numero progressivo e l’attacca, poi scrive lo stesso numero a penna. Prende il timbro guller (quello circolare con la data), lo batte sul tampone, timbra il bollettino di spedizione, poi posa il guller sul tampone, gira il bollettino, prende il guller, lo batte sul tampone, annulla i francobolli, posa il guller, mette da parte il bollettino, prende il guller, lo batte sul tampone, timbra la cedola riscontro, posa il guller mette da parte la cedola riscontro, eccetera, mentre le altre impiegate fanno tutto di fila senza mai mollare il guller, bastando un’inchiostratura per fare tutti i timbri. Il più delle volte a Vanessa sembra che il numero scritto a penna non sia venuto ricalcato bene, e allora dopo aver timbrata ogni copia ripassa il numero con la penna. E difficile da spiegare a parole, ma si tratta di uno spettacolo impressionante. Io sto in attesa, cerco di non guardare.
Una delle impiegate dell’ufficio, che si chiama Letizia, con la quale ho fatto un po’ amicizia perché prendiamo lo stesso autobus alla mattina, un giorno mi ha parlato un po’ di Vanessa mentre aspettavamo alla fermata. Mi ha detto che Vanessa, prima di ammalarsi, doveva essere una donna piena di vita. Aveva una voce molto bella e intonata e cantava in un coro. Adesso la voce di Vanessa è stridula e fa impressione perché, qualunque cosa dica, ha sempre lo stesso tono lamentoso. Era in una compagnia di teatro amatoriale, le piaceva andare in discoteca. Se riusciva a fare queste cose, doveva abitare felicemente nel suo corpo, che oggi sembra così privo di senso. Quando si muove nel metro quadrato del suo sportello (bancone di fronte, cassetti a sinistra, macchina affrancatrice a destra, cesto per le raccomandate sotto il banco e trai piedi, bilancia alle spalle) sembra un animale dello zoo costretto in uno spazio ostile e troppo piccolo: si prende dentro negli spigoli, apre un cassetto al posto di un altro, ha la sedia girevole sempre troppo vicina o troppo lontana dal bancone. Letizia mi ha detto che secondo lei non si può pensare che Vanessa menta o s’inventi quando racconta di avere avuto una vita precedente e diversa. Una volta aveva portato in ufficio una sua fotografia da ragazza, ed era veramente una ragazza molto bella. Irriconoscibile. Per ritrovare nella Vanessa di oggi le tracce della ragazza molto bella della fotografia, bisognava guardare quelle parti del viso che vengono meno deformate dall’espressione e dall’età: l’attaccatura dei capelli, l’arcata sopracciliare, il mento. La faccia intontita che ha Vanessa quasi tutti i giorni è il risultato tanto della malattia quanto della cura: tranquillanti, altre pastiglie, “prende un sacco di porcherie”, mi ha detto Letizia sull’autobus, “non si capisce nemmeno se gliele ordina qualche medico o se fa di testa sua”, ma il sospetto è che faccia collezione di prescrizioni di medici diversi, a ognuno dei quali magari ha raccontato diversamente la sua storia.
Una volta Vanessa ha raccontato che la sua malattia è cominciata quando un diavolo ha cominciato ad abitare dentro di lei. Io naturalmente non posso sapere se si tratti veramente di un diavolo, ma riesco a immaginarmi la sensazione di una presenza nemica dentro il proprio corpo, una seconda persona capace di esercitare il dominio sulla persona autentica. Ho sperimentato questa sensazione. Vanessa è convinta che il suo diavolo se ne andrà da lei in un determinato momento, Letizia mi ha detto che pare si tratti del suo quarantesimo compleanno; perché il diavolo se ne debba andare è un mistero che Vanessa non sembra interessata a sciogliere, comunque se ne andrà e la lascerà libera e felice, come era una volta. A me e a Letizia questa cosa è sembrata impossibile, che una malattia contenga in sé stessa il meccanismo della guarigione, e ci siamo chiesti: se nella data annunciata Vanessa cambierà all’improvviso, e diventerà quella che a noi sembrerà un’altra persona, libera e felice, capace di cantare e di ballare, noi dovremo considerare questo una guarigione o una forma più crudele della malattia?
Probabilmente è una domanda sciocca, però quel giorno e nei successivi giorni, fino ad oggi, io ho continuato a pensarci. Mi è venuto in mente quando, quattro anni fa, ho cominciato a lavorare in libreria. Erano sei mesi che non lavoravo. Avevo abbandonato all’improvviso un lavoro ben pagato, di quelli che normalmente si considerano belli e interessanti (ero nell’ufficio stampa di un’associazione di piccoli imprenditori), perché non ne potevo più di lavorare in quel posto e con quelle persone attorno, perché il mio corpo era diventato una cosa schifosa di quasi ottanta chili (oggi ne peso quindici di meno) incapace di muoversi senza sudare e affannarsi, perché cominciavo con la grappa ancora prima di uscire di casa al mattino, perché di tutti i soldi che prendevo (quasi il triplo di oggi) mi restava quasi niente in tasca e così via. Mi ricordo che, cominciando a lavorare in libreria, assunto come fattorino, il lavoro nuovo mi sembrava un’impresa impossibile. Per riuscire a farlo, e si trattava di un lavoro semplicissimo, di quelli che di solito i ragazzi che hanno fatto le professionali accettano di fare per un anno o due finché li chiamano per il militare, per riuscire a farlo dovevo perdere una quantità di tempo a organizzarmi, a scrivermi le liste di tutto quello che dovevo fare, e avevo continuamente paura di dimenticarmi o di avere sbagliato le operazioni più semplici. Mi succedeva di non dormire la notte perché mi venivano in mente e mi mettevano in ansia dimenticanze od errori, in buona parte di nessun conto o immaginari. Di tutto questo sono rimaste le tracce anche oggi: l’efficienza che mi fa apprezzare dal titolare è il risultato di un senso del dovere che non posso rifiutarmi di giudicare ossessivo. Non saprei dire se è del tutto sano il piacere che provo nel venire a capo di un qualsiasi lavoro nel modo migliore e nel tempo più breve. Non passa settimana senza che qualcuno mi faccia notare, tra i parenti o tra gli amici, che se con tutte le mie qualità e la mia istruzione io sto, a trentatré anni, a fare il fattorino in un negozio, vuol dire che c’è qualcosa che non torna. È stato strano quando, qualche mese fa, ho pubblicato il mio libretto di racconti. Io ero molto contento e pensavo che finalmente avevo fatta una cosa della quale potevo andare fiero. Il piccolo successo che il libretto ha avuto mi ha confortato molto. Persone sconosciute mi hanno scritto per dirmi: mi sono commosso, ho trovati i miei sentimenti nelle storie che tu racconti. Però ogni tanto penso, ed è un pensiero che mi fa paura, che le mie storie sono storie inventate, o che raccontano la realtà diversamente da come è stata, trasfigurandola: non so se accettano la realtà, le mie povere storie, o la respingono. Allora mi chiedo se questo che a tutti sembra indubbiamente un bel successo sia veramente un inizio (parziale, provvisorio ecc.) della mia guarigione, o non sia invece una forma più elegante, crudele e radicale della malattia che da sempre sembra impedirmi di vivere semplicemente. Una volta pensavo che se fossi riuscito a raccontare le mie storie (quelle accadute e quelle immaginate), avrei potuto considerarmi guarito. Poi, mentre si preparava il libro, pensavo che avrei potuto considerarmi guarito solo quando le mie storie si fossero disperse nel mondo, abbandonandomi, e solo se i lettori avessero reagito nel modo che volevo: riconoscendosi, condividendo. Oggi credo che potrò considerarmi guarito solo quando riuscirò a raccontare soltanto storie vere, senza più nessuna invenzione protettiva. Mi sembra, insomma, che la data fissata per l’allontanamento del mio diavolo sia continuamente rimandata, e che ogni scadenza faccia intravedere una scadenza successiva e più difficile. Come se ogni volta io scacciassi un diavolo grosso e rozzo, e mi rimanesse in corpo un diavolo più sottile ed astuto, che mi tenga in suo potere più con la seduzione che con il dominio.
La cosa che io desidero di più, oggi, è trovare una donna con la quale costruire un amore che sia bello e duraturo. Io sono pronto a darmi completamente a questa donna, o almeno è questo che credo di desiderare: una dedizione completa. Mi sembra che, se riuscissi a realizzare questo, potrei finalmente considerarmi una persona umana e non più, come ora, una persona parziale o una specie di bambino gigante. Credo che, finché il mio desiderio avrà questa forma, non riuscirà mai a realizzarsi. Sono molto innamorato di una persona che, in una maniera che a volte mi sembra incomprensibile, mi cerca e mi respinge insieme. Credo che, semplicemente, questa persona si rifiuti di accettare una dedizione cosi completa come quella che io offro, e che naturalmente silenziosamente chiedo in cambio. Io non sono in grado di rendermene conto, ma credo che, grazie all’abilità del mio diavolo, la mia dedizione sia capace di trasformarsi nell’annullamento della libertà dell’altra persona: che io cercherei semplicemente di inglobare, come un’ameba per nutrirsi ingloba altri microorganismi, frammenti organici, residui di molecole. Io non voglio questo, e non so come impedirlo. Se oggi mi allontanassi a questa persona, provocherei dolore per lei e per me. Stupidamente una sera ho detto al telefono: o mi prendi cosi, o niente; ho provocato una notte di pianto. Se invece cerco di avvicinarmi ancora di più, vengo respinto come si respinge un invasore.
Vengo respinto per causa mia, ma il mio cervello fa fatica ad ammetterlo. È come se non potessimo stare separati e non potessimo nemmeno essere uniti. Il fatto è che l’immagine di unione che io ho nella testa assomiglia troppo a un inglobamento perché l’altra persona la possa accettare. Di questo errore sono responsabile e credo di non poter nemmeno chiedere perdono, perché ho il sospetto che di me non si possa dire: non sapeva quello che faceva. Se voglio non essere più solo, devo imparare ad amare l’altra persona per la sua diversità e non per la sua somiglianza, perché mi è estranea e non perché sono capace di inglobarla. Voglio imparare questo e riparare l’errore. Questa persona è buona e merita un amore giusto, come tutti lo meritano.