IL ROSSO E IL NERO
anno 4, numero 9, aprile 1995
saggi: l’Idiozia, pp. 37-43

  Girolamo De Simone

Tra musica e follia: molte linee

   Mi sono imbattuto, quasi per caso, in una frase inedita di Giuseppe Chiari, animatore del mitico gruppo FLUXUS (Chiari fu a Wiesbaden, nel ’62, uno dei suoi fondatori): “Per molto tempo ho pensato che era in discussione la parola musica. / Mi sono sbagliato e ho perduto dal 1960 una lunga linea. / Non era la parola musica sul tavolo ma la parola musicista. / Avevano rubato la parola musicista e se la tenevano stretta. / E oggi 1990 – dobbiamo cercare di strapparla. Dobbiamo abituare la gente a chiamarci musicisti. / Passeremo per illusi, ma non importa. Ciò che importa è che dilaghi l’idea che i musicisti – oggi cosiddetti tali – sono dei folli”.
   Mi ha subito colpito un tracciato, che avevo ipotizzato tempo fa a proposito della chiusa del Doktor Faustus manniano (alla metà degli Ottanta era di moda permutare i romanzi di Mann): la follia di Leverkühn, le ali di Hetaera esmeralda, una malattia gravissima per lo spirito creativo, infine la morte, tale soltanto perché silenzio. Già allora si era offerto alla riflessione un tracciato ludico, vale a dire poco più che giocoso, tra arte come verità inaccessibile ma comunicabile e arte quale verità incomunicabile ma accessibile. Volevo immaginare un artista che è tale soltanto per un modo particolare di sentire, e non per quello che avrebbe potuto “produrre”. Oggi comincio a pensare, senza alcuna ipocrisia, che potrebbe esistere un artista ch’è tale per il suo modo di produrre (e di vendere) e non per quello che è in grado di sentire. Il paradosso, detto e contraddetto, non è qui soltanto linguistico, ma rappresenta una convinzione per la quale l’opera potrebbe apparire realmente svincolata dalla dualità tra valore d’uso e di scambio, mantenendo ambedue e consegnando una qualità o validità estetica a qualcosa che sia consapevole della accaduta vicenda postmoderna.
   Ma procediamo per gradi, perché il percorso potrebbe risultare più affascinante rinunciando ad affermazioni apodittiche. Il nesso musicista-follia passa per la consapevolezza di Chiari di aver “perduto una lunga linea”: s’era occupato di musica e non di musicisti. Aveva pensato al prodotto più che all’operaio. L’errore, suggerirà col suo stile unico, quasi cageano, era quello di non vedere che esistevano ‘anche’ musicisti che in realtà avevano riprodotto le ragioni di una scuola, di un repertorio già consolidato, di un sapere già attestato e consumato. Essi davvero “riproducevano”, perché il loro lavoro (l’unico che la gente riesce a considerare tale, perché le altre occupazioni sonore vengono semplicisticamente chiamate svaghi) era quello di ‘copiare’ e far nuovamente sentire brani di altri che assumessero forme simili e filologicamente coerenti con l’idea che in quel periodo si aveva di quel particolare compositore (già morto, già ‘radicato’, già assimilato e digerito dalla ‘elite’ dei frequentatori lirici). I ‘copisti’, alla lunga, furono considerati musicisti. Ed i musicisti veri fecero di tutto tranne che vivere di musica; ovverossia, vivere di musica composta oggi.
   Ma il discorso poteva essere portato oltre, o su un altro piano: la musica contemporanea, negli anni Settanta, era davvero ‘in linea’, ferocemente inchiavardata nelle asfittiche convinzioni adorniane, sulle prassi della Seconda Scuola di Vienna (ma soprattutto sulla rigidità del secondo Schoenberg) e sulle pratiche esecutive di Darmstadt. Ognuno pensava di dover fare di tutto per convincere il mondo della musica (classica) dell’esistenza di una naturalità conseguenziale tra il cromatismo mahleriano e lo sviluppo dodecafonico. Per questa ragione Schoenberg avrebbe volentieri strangolato Thomas Mann, non appena Alma Mahler gli ebbe spettegolato il contenuto del romanzo (da lui mai letto): ma come, faccio tanto (ponderosi volumi di armonia e relazioni funzionali…) per dimostrare la ‘naturalità’ della disciplina dodecafonica questo artista decadente, paramusicista (era allievo di Alban Berg), al quale Teodoro ha dato qualche consiglio, che mi combina? mi fa vendere l’anima, mi lascia inventare una nuova arte del comporre, e infine mi fa impazzire?
   Tutti gli sforzi di Schoenberg per restare ‘in linea’, eccoli miseramente scivolare sulla lucidità ed immaginazione dello scrittore. Ma in realtà Thomas Mann gli aveva fatto un favore, portando alle estreme conseguenze quello che Adorno aveva scritto nella Filosofia della Nuova Musica: che Stravinskij fosse da condannare perché ‘non consequenziale’ (sic, con la q.) e Schoenberg da acclamare perché rigorosamente tutto d’un pezzo. Stravinskij era ‘fuori linea’, Schoenberg restava ‘in linea’. E tutta l’avanguardia successiva, con poche eccezioni è rimasta darmstadtiana, adorniana, assolutamente lineare e razionale. Qualcuno è riuscito ad essere sferico: e mi riferisco all’opera di Giacinto Scelsi, in parte a Ligeti, ma non a Cage (una cosa è l’aleatorietà, altra la casualità, come suggeriva già Franco Evangelisti). Eppure, la musica contemporanea che sta rinascendo (cioè sta ‘vendendo’ con successo migliaia di compact), è quella infralineare, sublineare, sopralineare. Quella che attua, insomma, i mille piani di Deleuze e Guattari.
   Il curioso è che, incrociando tutti i sentieri, si vedrà che quest’idea di ‘linea’ e di ‘fuori-linea’ veniva già esposta in molti luoghi da Henri Michaux. Pensando alle sue spoliazioni, un giorno immaginai questa stringa: “Stille infinite / sime. Si è / Frammentati / per estremi / estesi”.
   Linee vanno oltre di sé e suggeriscono già quale potrebbe essere la meta finale di una analisi estetica davvero contemporanea: una qualità infine ricercata nell’eteroiferimento, nell’uscita dal sistema chiuso dell’opera, nel rinvio ad altro. Il luogo mirabile di queste ‘esposizioni’ è il Miserabile Miracolo pubblicato nel ’56. Similitudini con i Mille piani di Deleuze-Guattari, già citati prima: “Rieccolo come prima con piani (infiniti ma non vertiginosi. Per questo sarebbe necessario un senso delle distanze e della profondità che non possiedo e di cui, in questo, sono del tutto sprovvisto) da non poterli contare, con mille strati di mattoni spasmodici, tremante e oscillante rovina, balbettante, Borobudur”. Altre assonanze vengono rivelate dallo stesso Deleuze, quando nella mirabolante monografia dedicata a Michel Foucault dichiara il suo debito verso Michaux. Esistono singolarità selvagge, “non ancora legate, anch’esse sulla linea del fuori e che ribollono proprio al di sotto dell’incrinatura”; si tratta della linea di Melville o di quella di Michaux. E se andiamo alle fonti, ecco l’originale, intrecciato al suo doppio: “Linee, sempre di più, linee di cui non so se sul serio io le veda”; “Là, dove non c’è più nient’altro che il proprio essere, là, era. Là, a una velocità delirante, centinaia di linee di forza strigliavano il mio essere”; “L’orrore consisteva soprattutto in questo che ero soltanto una linea. Nella vita normale si è sfera, una sfera che scopre panorami”; “Essere diventato linea era catastrofico, ma ancora di più, se possibile, era inatteso, prodigioso’.
   Mille sfumature restringono o allargano il campo, nella visione mescalinica di questo autore. Ma è sorprendente che il passo successivo, l’assoluta conseguenza dell’essere una linea, sia collegato direttamente alla follia: “La lampada accanto allo specchio mi mostrò una testa che non avevo mai visto, la testa di un pazzo furioso (…) Ormai deve essere questione di minuti. Perciò mi era venuta quella calma, la calma grave di chi è responsabile di un pazzo pericoloso, questo infatti mutava la mia situazione. Nell’atrocità potevo venire gravemente colpito anche in modo diverso. È vasto, un uomo”.
   Il pensiero lineare risulta di per sé consegnato al baratro. E non meraviglia la fine del compositore immaginario Leverkun, né la presenza di zone di silenzio (prima aforistiche) sempre più ampie in Webern, dal momento che l’estensione della logica occidentale genera nella musica il crepaccio della ricerca dell’inutile novità, della sperimentazione per la sperimentazione, della morte dell’arte e per l’arte.
   La storia dell’avanguardia è quella del fallimento di alcuni dettami imposti proprio dallo snobismo francofortese, che fortemente come musicisti ricusiamo, criticando il crisma evangelico della ‘novità’. Per anni s’è gareggiato cercando di percuotere il pianoforte o il contrabasso in un modo nuovo, cercando tecniche e suoni mai utilizzati, e costruendoci sopra pezzi incredibilmente prolissi e noiosi (le stesse acquisizioni, utilizzate con maggior naturalezza e con qualche sforbiciata, avrebbero potuto generare capolavori). Il problema del compositore, all’atto di prendere carta e matita, è stato innanzitutto quello di produrre opere inaudite. S’è evitata come il demonio la scrittura già sentita, orecchiata e ‘riferibile’ ad altro, temendo la compromissione, la confusione, la contaminazione. Conosco artisti del paradosso che senza averne consapevolezza (del paradosso, intendo) propongono candidamente di tornare all’Allegro di Sonata: beata incapacità di visione, inettitudine alla pre-visione.
   Altri, soprattutto americani di scuola europea, sono attenti a costituire un ‘repertorio’, scrivono il numero d’opus dopo aver indicato diligentemente la forma, come se fossero ancora li a portare fogli sgualciti al maestrucolo di conservatorio. Non è questo il cross-over: novità e repertorio andranno presto a farsi benedire altrove, non troveranno posto in un sistema che usa Intenet per veicolare suoni, immagini, notizie, contaminandole ad ogni passaggio. Il prodotto di molti CD-Rom è multimediale, ma è anche a struttura aperta, perché consente di entrare e uscire dal sistema a piacimento. E alla fine anche la nozione di ‘autore’ perderà peso, verrà sostituita con quella di ideamakers, lanciatori di semi, ideatori di standards, unità particellari su un piano multistratico, dove sarà inessenziale pretesto, perché conterà l’ipertesto.
   Si sta parlando di villaggio globale, alludendo soltanto ad alcune possibilità, e rimandando invece ad un visionario libretto di Elemire Zolla, i tre Discorsi metafisici, per fantasticare sul futuro più lontano (davvero virtuale?) che ci attende. Un nuovo mondo con strutture al silicio, come suggeriva sempre Deleuze, lontano dalle piramidi e dalle gerarchie del carbonio.
   Resettare questi insiemi di quantità, allargare i confini, al di là della seduzione ludica e fantasiosa del folle (quest’immagine è presente anche in Goethe, nella celebre immagine dell’uomo che raccoglie fiori del Werther), e al di là dell’eteroreferenzialità necessariamente intrinseca alla stessa nozione di pazzia (nonsense, limerick), allargarli cioè già dal luogo della consapevolezza, significa gettare uno sguardo nuovo sull’arte.
   Questa consapevolezza non resta confinata nell’ambito della filosofia o della teoria: qui si tratta di mercato, vendibilità del prodotto / merce, rappresentabilità di opere nei teatri e nelle piazze. Non c’entra nulla, però, il liberismo: la tecnologia mediatica sta già azzerando le idealità contrapposte (sostituendovi gruppi di potere antagonisti, e davvero la nozione è foucaltiana), e l’home computer tradurrà l’attuale rappresentatività parlamentare in efficacia d’intervento e voto diretto per ciascuno. Chi non ha compreso il ruolo dell’immagine, e del tecnologico, nell’avvento della società ‘civilizzata’ (la quale assolutamente non rema contro quella acculturata, come scrive Adorno), affonda inesorabilmente nella sconfitta ad ogni tornata elettorale. Molti farebbero bene rileggere quanto profetizzato da Abruzzese, oppure a sottolineare in rossoblu La scena immateriale (per Costa&Nolan).
   Una gran quantità di fuori-linea, fuori-margine, glosse, seppellirà la nozione tradizionale di opera lineare, senza abdicare alla nozione di qualità, ma semplicemente spostando la ricerca di quest’ultima dal luogo della enumerazione lineare al metaluogo della (impossibile) ricostruzione frattale. Insiemi saranno ‘coestensivi’, consistenti in molteplici piani, con più linee incrociate, confuse, vicendevolmente contaminate. Fino al punto da creare figure geometriche assurde, contraddittorie, ma incredibilmente ancora belle, sempre capaci di alludere ad un senso (un ‘senso’: una direzione, un movimento verso qualcosa d’altro). Queste sono le ragioni del cross-over, dei ‘plurali’, delle contaminazioni auspicate dalla nuova estetica. Essa non manca di prendere le distanze dalle interpretazioni deboli che sono germogliate dai seguaci di alcuni autori anche qui menzionati, i quali in misura diversa hanno operato correttivi su visioni invece parziali, così come doveva essere per saperi che si volevano prospettici. Ciò implicherà un notevole sforzo di preveggenza, e un po’ di follia, per gli operatori culturali ad ogni livello di produzione e distribuzione: parecchio già si sta muovendo, è inevitabile che ci coinvolga tutti.
   Michaux: “Segni non per ritornare indietro / ma per meglio oltrepassare la linea in ogni istante”