IL ROSSO E IL NERO
anno 4, numero 9, aprile 1995
poesia e critica, pp. 54-59
Giovanna Sicari
“In un’alba minima di lotta”
Oceano di luce
I.
Al limite del cielo mi colloco
e le lacrime hanno colori così delicati
per chi sono quelle bianchezze estreme
lo vedi che i pioppi non s’intonano
alle labbra cadenti
per chi sono le radure e i rami tagliati
dalle cassette in fila
e nella siepe un viso si riflette e scioglie e morde
tempo – paglia, botola di fieno
e tu dici e ricordi un’anziana signora
– chi avrebbe scommesso su di me? –
II.
Dov’eri rametto verde della mia inconcludenza?
E tu fanciulla di trenta vecchi anni
tu non t’intrattenevi
perché io non incantavo
e contavo gli occhi, il loro stridere selvaggio
che forse farà la mia fortuna
tra il pane losco degli altri,
tra gli anni puntati e le armi frenetiche.
Lydia
Poi quelle facce della periferia andando
mimando i piccoli fiori smorti delle aiuole
ancora un nome scritto dietro il recinto
errato: una donna gaia madre straniera
con la vitalità del lutto eterno. Hai chiesto pace
abbiamo pianto, ricordato in tre, tre donne
un giorno nell’aula di una cella.
Un riso amaro isterico felice quando dentro
e bagnato il lago c’è un palazzo aperto solo alle lacrime –
Casal de Pazzi, Roma, ancora Tiburtina
fumi, vetro degli occhi, fango senza foglie.
Questo ricorderemo della nostra vita: bontà
solida bontà e poi ancora il busto altero
di Lydia. Tutto comincia sempre per caso
i numi avversi, l’avventura di una Roma sparita
raccontata minuziosamente sul quaderno di scuola:
anno 1994, necessità, respiro, ora nient’altro.
Nozze per il cielo
Non ha più vent’anni il cielo di metà aprile
che purifica nel vento fresco di una casa chiusa
– bordello – argomento noto per misurare la gioventù.
Chi di noi avrà pazienza per raccontare
saremo come loro, non abbiamo fatto la guerra ma questi nostri sono
i cieli neri della calunnia e poi la cellula che esaltava
la magia e la sacca della distanza, finestra con gli occhi
nel letto, ricordi? diremo – eravamo sempre stanchi ammalati
racchiusi ardenti in una bolla
e così passavano gli anni accusandoci amandoci.
Conservo ora un messaggio per il giardino e per la notte
– anime disegnano gli uccelli e volano, guarda se volano! –
Non ho parole forbite per discutere del bene del male. Saremo così
silenziosi, fuggiremo e le cose non ci vedranno
oh caro odore dei fiori cari bacetti del mattino.
*
Un film in bianco e nero raggiunge
il punto dell’orologio ad acqua
in un bel pozzo che andava con le ruote
del fiato dei presenti! No, non vogliate
adescarmi, qui la mente fa un giro apocalittico!
Smalti ai piedini, manine d’argento, lettere?
Cosa cercava l’eremita? Un castello per il fabbisogno!
ma io non servo a voi, io vado verso l’infarto,
non ho voglie, non un solo desiderio realizzabile,
solo la rissa di parole che nella macchia
cercano il cielo!
*
In un’alba minima di lotta,
venne l’euforia delle madri, tu la dipingesti
sul volto diviso di una donna: due colori attraversati
da una vita di pennellate celesti!
Volevi accedere all’unica nobiltà possibile
quella della capanna dei roghi, iperbole di gnomi
che rischiano di ritardare l’inferno!
Sfocata luce del petto, il ventre ornato
è fragile per partorire quell’era spirituale senza ironia.
Tu lo sapevi che io conservavo tutti, tutti i biglietti
per quell’atto fiero: foto, ammende, croci, bicchieri
depositati nella nicchia, nell’antro più profondo.
*
La riconosci, appare più lucente della confidenza
e l’interna forza che arde; arde come l’incenso
la parte del vizio che batte, l’aria lucida
che apre la riva. È il momento arcano
di un tempo di calce vitrea: il fetore
delle case dei potenti! Il ragazzo – direi –
è sgomento, non ha farmaci speciali
è quello dei mandorli, delle biciclette,
uscirà, stasera semplicemente non scriverà lettere
perché tutto umilmente ama e grida.
– Uscirà fuori dalla sera di Pasqua che s’incunea
fuori dall’invidia liberata.
Continuamente nostro non sarà solo
suo destino.
*
Fu per lui e per mia madre la visione della ferrovia
nel primo caldo di giugno, sedevano accanto
pigiando forte il naso. – Che dorma, che veda zolle nella terra –
Accanto, non soltanto richiami prossimi a giochi e fiere.
Sa di voi la bocca premuta
l’aria che respiravamo dalla nave
recitava preghiera per rimuovere
dal di fuori il gelo, giorno e notte la benda
giorno e notte ogni momento l’odore d’erba del bambino.
Era il tempo dipinto dall’asso di coppe, un veliero
filava dritto in poppa e io mettevo labbra sui fiocchi.
Mio fante mio tepore mio vagabondaggio
non immaginavo tale nottata di sesso inquieto
e ora attendo la nave o attendo il sole e prego
per la tua testa, per i miei nervi,
per una poesia di cui nessuno parla, arriverà nella casa
tranquilla, sul sofà dei giochi, per una imitazione del crimine
affinché non si compia sarò libertina e colpevole,
sarò prossima a te nel far parte di questa stessa specie umana,
nascerà la provvidenza occulta alla faccia del killer
che ci vuole morti o divisi – nulla sarà per me
solo per l’antro della tua bontà non verranno
i nani inquisitori, indispensabile
il nostro soffrire divinatorio.
L’ultima chance
Ora il fratello Alioscia dice – non vi pentite
mai del bene che fate – allora il clacson
ricordava l’ignara corriera della litoranea ionica
e i nomi erano rivolti ad ogni donna, ad ogni
principessa ispiratrice, ed era prolungamento
il capo segnato, uscita allo scoperto la strada
dei buoni e dei cattivi. All’inizio furono
soldi in prestito consegnati a un padre ferito
e anche la minaccia premeva come un coltello a serramanico
Babbo! Babbo! È per te la ribellione
nessuna religione di bambola, nessuna pratica di Dio
lavorava in silenzio pagando debiti e ammende.
Babbo prodigo e avaro che aveva quelle ore infantili
che disperatamente perseguivo
quella nota tenera della gentilezza
quella sabbia dove tutto è pericolo.
Mio babbo è per te questo taccuino!
Fratello Alioscia è per te l’ultima chance
buonasorte da non mancare.
Di lutto indescrivibile amore
È senza il tempo di una storia
ogni giorno una prostituta mi guarda
ha come me una fascetta sul braccio
anch’io della sua razza randagia irosa in cammino
mi mescolo al suo sonno alle sue albe
di cagna che vede giorno dopo giorno l’aprile nel petto
e solchi di strappi, pressioni, e tutto
il nuovo muta e si è miti per forza, come lei,
bella bella di giorno mentre il suo lutto preme in un gorgo
e quando piove, il corpo sbatte alla porta
del tempo mostra quella fascetta sul polso infermo –
lei non lo sa da dove viene il pianto
dalla profondità di miserie e rancori
dalla classifica dell’odio, da un pomeriggio infame di nebbia.