IL ROSSO E IL NERO
anno 4, numero 9, aprile 1995
poesia e critica, pp. 90-93
commento critico
Emanuele Trevi
La cenere dei morti e l’edificio della poesia
Studiando con passione l’opera di Dostoevskij, André Gide, all’inizio degli anni venti, giungeva a comprendere perfettamente un aspetto fondamentale della scrittura poetica nella modernità: le relazioni tra gli uomini giocano un ruolo del tutto secondario all’interno dell’economia dell’ispirazione, dove tutte le energie sono rivolte alle prospettive abissali, da carcere piranesiano, dell’interiorità. Anche la poesia di Maria Luisa Vezzali, nella scansione ferma dei suoi monologhi, non può sottrarsi alla regola della solitudine. Si direbbe anzi che il movimento stesso della scrittura riconosca la sua origine nel momento in cui la solitudine, da elemento puramente esteriore, di contenuto, si tramuta nel cuore segreto della lingua, è condizione della sua dolcezza e assieme del rigore della sua conoscenza. Sia ben chiaro: quando si parla di “interiorità” si vuole alludere a una condizione dello sguardo sempre capace di bruciare la memoria di una storia individuale, di un miserabile recinto psicologico. Lo spazio interiore disegnato dai versi della Vezzali funziona come il pentagono dei riti iniziatici, è solo il luogo simbolico nel quale scrutare la traccia del passaggio degli astri, della danza delle Forze. Per questa ragione una poesia così assertiva, così disposta alla cadenza oracolare, è anche sempre capace di umiltà: mentre le tavolette degli aruspici e le pergamene degli astrologi si riducono in cenere, Marte e Ariete, Saturno e lo Scorpione continuano rincorrersi, come se nulla fosse mai accaduto, tra le case del cielo.
Di sotto all’arco delle fondamenta è il titolo di una bellissima poesia recente di Maria Luisa Vezzali. Attraverso una breve catena di esempi, si vuole dar conto di un’ipotesi, la sostituzione della “cenere dei morti” ai fondamenti conosciuti e indubitabili della vita: il cemento delle città, la carta dei libri, il senso del tatto e quello del gusto, e infine il sentimento, cui si accennava, della dolcezza della solitudine. Tutta la poesia si impernia su questo sforzo apocalittico dell’immaginazione. La “materia incrollabile” dei morti, ciò che sembra giacere al di sotto della soglia di visibilità, potrebbe invece rivelarsi come l’autentica luce dei nostri giorni. Nessuno sa quando il muro delle apparenze si sia trasformato in questo immenso reliquiario, simile a quegli ipogei barocchi nei quali teschi, tibie e femori gremiscono, a scopi edificanti, tutto lo spazio disponibile. Come il giudizio Universale immaginato da Kafka, la mutazione può essersi prodotta in qualsiasi punto del tempo, senza essere stata percepita da nessuno. La poesia non può che metterci sull’avviso, indurci al dubbio. Se Cristo piange per il suo amico Lazzaro, prima di resuscitarlo, vuol dire che esiste una differenza tremenda tra i vivi e i morti, che sarebbe osceno dimenticare. Forse quelle lacrime ci insegnano anche del miracolo della resurrezione. Eppure, nello stesso tempo, noi vediamo quanto sia difficile individuare il luogo di confine sul quale questa differenza prende forma. Il cristianesimo della Vezzali riconosce i suoi diritti alla morte, ma non è più in grado di stabilire chi sia avvolto nel sudario, e chi invece si assuma il peso delle lacrime e i riti della pietà. Cristo e Lazzaro condividono lo spazio del verso, rimangono giustamente differenti, ma intrecciati, costretti a condividere la stessa parola, lo stesso tempo della pronuncia. E in questa costrizione, forse, risulta riconoscibile la venatura orfica che percorre il pensiero della Vezzali.
Ma, anche su questo aspetto capitale dell’orfismo, bisognerà tentare di impiegare le parole del commento al massimo della loro potenza di significazione, e non dei conati definitori che impastoiano il discorso della critica a dare alla poesia nulla in cambio del suo dono di bellezza. Uno degli uomini del nostro tempo che ha scavato più in profondo nelle implicazioni dell’esperienza orfica, Giorgio Colli, ha parlato di una “realtà abissale” che le figure della poesia indicano e insieme dissimulano nelle pieghe del loro splendore. Questa realtà, sembra di capire al lettore di testi orfici, non ha né suono né peso, né materia né colore. Quando appare alla superficie dell’esperienza, anche il vaso della bellezza può traboccare e infrangersi. Ora, la poesia di Maria Luisa Vezzali declina questi motivi orfici in un senso che, ancora una volta, non saprei definire che con l’aggettivo “cristiano”. Perché, se sarà la bellezza a salvare il mondo, come crede il principe Myskin nell’Idiota di Dostoevskij, allora la bellezza non è più solo lo strumento necessario a un passaggio all’origine, al compiersi della conoscenza, ma la sostanza stessa della Verità, l’annuncio squillante della fine del tempo dell’attesa. Rileggiamo i versi della poesia intitolata Vasi di splendore per capire meglio questa teologia poetica della bellezza. Vediamo prender forma un Cosmo dominato dalla potenza dello sguardo, che fa proprie le apparenze, trasformandole nel gesto di assorbirle. Ogni cosa del mondo (“ogni scheggia di terra nello spazio”, dice la poetessa) si offre all’universale giustizia della visione nel momento in cui raggiunge lo splendore necessario al sacrificio di sé. La perfezione, per la Vezzali, è il corpo di Ifigenia: carne regale sottomessa al coltello del sacerdote affinché si plachi la furia degli elementi, e giunga sulla terra la pace che scaturisce dalla crudeltà dei sacrifici. Come esiste una catena alimentare, che fece sembrare a Melville, in un malinconico passo di Moby Dick, avvoltoi tutte le creature, così su un piano cosmico si realizza la circolazione sacrificale della bellezza, temporaneamente compiuta nel sonno di Crono sazio dei suoi figli. È notevole come nella Vezzali il tema della bellezza e quello del sonno tocchino entrambi accordati alla nota del sacrificio. “Colando il mio sangue vi ha dato / un poco di colore sulle guance”, dice in Peso d’amore l’angelo sul quale tutti gli errori degli uomini sono già “imputati e sciolti”, colui che veglia l’avvento istantaneo della bellezza mentre noi dormiamo, mentre tutto brucia attorno a noi.
Se c’è per noi un’immortalità, c’è sempre anche un angelo capace di perdere le strade dei cieli, capace di ferirsi le mani sulle spine del tempo. La poesia della Vezzali, mentre registra questa verità con attenzione, e quasi con affanno, si trasforma in ringraziamento. I suoi versi, probabilmente, vogliono seguire l’angelo di cui parlano sulla via dell’oblio di sé, e in questo desiderio di permanere sulla linea del fuoco siamo costretti a riconoscere anche i motivi segreti di uno stile. Qui il silenzio non è possibilità astratta, un manierismo mallarmeano, ma la conseguenza naturale di una disposizione innata al rischio. Penso al silenzio di Rebora, allo strazio di Gadda che non riesce a chiudere il suo grande romanzo, a tappare la falla della cognizione. Sull’ossatura così fragile della lingua, possono pesare propositi immani, sconsiderati. Tra questi, nulla è più devastante di una meditazione frontale, senza infingimenti, sulla bellezza. Eppure, preferirei vedere la lingua di Maria Luisa Vezzali fulminata e balbettante, che ripiegata in una tranquilla amministrazione dei suoi doni. Se è possibile ritrovare un reale sentimento di fraternità tra chi scrive un verso e chi lo legge, bisognerà muoversi sul terreno del rischio e del dispendio, delle ambizioni supreme e della dimenticanza. È qui che ho incontrato l’ispirazione di Maria Vezzali, sui suoi “altopiani invisibili” sognati “sotto il ghiaccio dei laghi”.