IL ROSSO E IL NERO
anno 4, numero 9, aprile 1995
poesia e critica, pp. 62-65

commento critico

Mario Santagostini

I segni ostinati

   1. Nuova silloge di Giovanna Sicari, e possibilità di cogliere aspetti inediti. Non capita con tutti i poeti. Osserviamo. Cominciamo col rilevare alcuni di quelli che Weinrich chiamerebbe i “segni ostinati” disseminati in un testo letterario. Alludiamo alle occorrenze di punti esclamativi ed interrogativi. La loro frequenza è alta rispetto al numero complessivo dei versi per rappresentare un evento isolato o casuale: si tratta invece di spie ridondanti d’una scelta stilistica ben definita. Scelta volta a drammatizzare quel verso che nelle poesie di Giovanna Sicari diventa raccolta dopo raccolta – sempre meno frammentario e sempre più consistente.

   2. Un’altra spia di questa opzione stilistica: la scansione ritmica dichiaratamente accentuativa. Tra i tanti, citiamo un solo segnale assolutamente inequivocabile: la frequenza ridondante del decasillabo.
   Arriviamo così alla prima impressione di superficie, impressione sonora: in questa silloge è cresciuta la durezza della scansione. L’osservazione da stilistica diventa ora tematica: è terminata per Giovanna Sicari la stagione degli accenni, della parola sospesa, dell’allusione.
   Ora il verso è chiuso, duro.
   Ambisce a farsi sentenza, discorso secco e indubitabile. Irreplicabile. Molto più che una traccia verbale evanescente.
   (Sentenziare contro versificare, discorso VS verso, compattezza VS trascolororare, solidità VS evanescenza pesante Vs leggero. Infine: alto contro basso. E se fosse questa la matrice per una tipologia dei poeti? Di più: se questa fosse una matrice ben più attendibile di altre per classificare le tonalità affettive, le sensazioni?
   Possibile fenomenologia della vita e dei tipi umani, ancora da costruire. Indagare perché queste vengono in mente leggendo le poesie della Sicari…)

   3. Dunque, discorso duro, pesante. Senso compatto invece che disseminazione. Nuova stazione del viaggio poetico di Giovanna Sicari. Durezza e pesantezza che si impongono.
   Perché la vita è pesante.
   Eppure, verbalizzare vuol dire, sempre e comunque, controllare il vissuto. Ridurlo. Gestirlo a parole. C’è stata una generazione intera di poeti (o due, tre generazioni?) che ha proceduto per tagli, per eliminazioni nell’illusione di trovare l’essenza verbale del vivere. Quasi che la poesia fosse la ricerca d’una formula irripetibile.
   D’altra parte: la poesia di Giovanna Sicari è radicata (ben più che nel novecentismo tardo-ermetico di tanti suoi coetanei) nella tradizione melodrammatica, e rinvia a una passionalità anticulturale, viscerale. La stessa, forse, che ha per modello i lamenti ottusi disperati e impotenti d’una Gaspara Stampa o ancora di più una Veronica Franco. Poesia che procede per accumulazioni, non certo per riduzioni.
   Come allora conciliare vocazione melodrammatica e gestione verbale dell’esperienza? Sensualità invadente e lucidità?
   L’unica carta possibile è quella ironica: implica un distacco. E paradossale: l’ironia comporta una uscita dall’io. C’è del misticismo trasversale, in questa operazione. Più alto e pesante il vissuto, più forte il distacco, più consistente la quota di misticismo involontario che si riversa nel testo.
   Culmine: la riduzione dell’io personale a maschera, personaggio, commediante. Soltanto a questo punto diventa possibile raccontarsi, mettersi sulla scena. Parlare di sé attraverso altri. Trucchi stilistici: l’uso della terza persona, l’uso dei verbi impersonali, l’invenzione di un personaggio-vicario. Forse dopo la poesia c’è la scena teatrale. Sembrano altri, siamo noi stessi.

   4. L’ironia è dunque solo una variante dell’ascesi, se condotta onestamente. Che porta l’io personale lontano da sé. Non si sa e non importa se più in alto o in basso.
   Eppure, in questa silloge di Giovanna Sicari il percorso ironico è, se possibile, incompleto. Ironia dimezzata.
   L’io non è andato molto lontano. Non ha trovato un sostituto. Non si è trasformato in maschera. La visceralità melodrammatica agisce sempre.
   C’è una sorta di richiamo terreno (ancestrale componente mediterranea, femminilità irriducibile? Mi sembrano categorie etnonologiche, non poetiche) che impedisce fughe in avanti. E i sentimenti, ripetiamolo, rimangono forti, fisici al limite dell’irrevocabile. Continuano a far male. Impediscono catarsi liberatorie. Impediscono di volare in regni asettici, neutralizzati.
   Non riesco a non ripensare, leggendo Giovanna Sicari, ad autrici quali Gaspara Stampa o Veronica Franco. Disperate, lamentose. Stupendamente vive ed eccentriche, a loro modo.

   5. Dunque, un io che fallisce nell’ironia. Non è capace di innalzarsi. Non sa liberarsi. Vorrebbe e non può. Resta patetico. Ma vorrebbe.
   Consegue: amarezza. Consegue ancora: risentimento. Questa silloge antologizza un io risentito, incattivito, compatto. Non abbastanza lucido per essere quello del moralista ironico, incapace di mascherarsi. Troppo ingenuo o terricolo. In ogni caso: non si è innalzato. Ossia: Giovanna Sicari non è capace di rappresentarsi.
   Ma è rimasto il desiderio alla gestione ironica: questo il dramma tra spinte opposte che fanno dell’identità personale una corda di violino tesa e precaria. Forze divergenti nella stessa identità. Rischio di rottura. Squilibrio permanente.

   6. Giovanna Sicari non raggiunge l’Olimpo dell’ironia. Forse perché quell’Olimpo è il regno della finzione estetica, unicamente. Resta il risentimento. Che diventa un ghigno beffardo, amaro, rivolto contro chi sta in alto (o crede di starci, il più delle volte). L’io non riesce a farsi maschera di sé e allora incarognisce.
   Comizi d’amore e d’odio urlati, non sussurrati.
   Verbalizzato il risentimento.
   L’anima brutta vince contro quella bella perché le impedisce di trasfigurarsi in immagini angelicate, eteree, perché resiste contro ogni tentazione paradisiaca.
   Nonostante il tentativo di tanti autori di normalizzare tutto, di compiere eutanasie linguistiche sui (propri e altrui) sensi, qualche autore rimane sé stesso con pervicace cattiveria.