IL ROSSO E IL NERO
anno 4, numero 9, aprile 1995
racconti brevi, pp. 6-16
Diego de Silva
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Mi ricordo esattamente la prima volta che ha chiamato. Ero ancora in ascensore, carica di spesa, quando ho sentito il telefono. Ho cominciato a uscire che la cabina non era ancora al piano. Faccio sempre così, quando il telefono suona. Ogni volta mi butto, penso che devo rispondere subito, se no chi mi ha cercato non chiamerà più.
Sono uscita facendo sbattere le buste da ogni parte. Non mi ricordo se ho chiuso gli scorrevoli o li ho lasciati aperti per ripicca. Mentre cercavo le chiavi di casa mi è caduta la bomboletta della lacca. Credevo che scoppiasse, tanto è stato il rumore.
Insomma entro, quasi butto la spesa per terra, corro nel soggiorno, alzo il telefono: pronto.
Silenzio.
Vaffanculo a me, ho pensato. E ho chiuso. Mi sono tolta le scarpe con le punte dei piedi e le ho lasciate li. Ho raccolto la spesa e l’ho sistemata lentamente. Un po’ in cucina, parecchia nello stanzino. È un servizio che mi rilassa, mi piace metterci del tempo. Mi sembra un modo di aver cura di me e della mia casa. Accosto i prodotti secondo le forme e i colori che hanno. E se un’etichetta mi piace, voglio che sia bene in vista.
Non è che sia fissata. Certo non vado a mettere il detersivo vicino ai barattoli di conserva perché le confezioni si somigliano. Ma perché dovrei vergognarmi di sistemare pelati e biscotti anche in funzione delle mie preferenze estetiche? Non mi piace ammucchiare. Ce li hanno i colori, 1e cose.
Finisco, vado in soggiorno e mi lascio cadere sulla poltrona. Mi prendo un piede fra le mani e comincio a massaggiarlo. Allora gli occhi mi vanno sul telefono, e penso: “Ma che crede di fare uno che ti chiama per restare in silenzio? Spia, va bene, si prende la tua voce per il momento in cui rispondi, e poi? Attaccasse subito, potrebbe ancora cavarsela. Ma se rimane ad ascoltare il tuo respiro e ne percepisce il disprezzo, non gli si increspa la faccia?”. E mi dimentico del piede.
Tutt’a un tratto mi alzo. Prendo il telefono scattando, manco lo sapessi. Lo porto all’orecchio. Era ancora lì.
Sì lo so, non è detto che fosse quello di prima. Poteva esserci stata un’interferenza, qualcuno che s’era intromesso sulla mia linea senza che il telefono squillasse, i cibisti, che ne so, una volta un amico mi ha detto che può capitare con quelli, gente incredibile capace di restare per ore a fare versi ad un microfono. Del resto non si sentiva niente, non è che dall’altra parte ci fosse un respiro o venisse qualche rumore di casa o di strada o di gente. Era silenzio, vuoto. Però lo sapevo che era lui. Mi sembrava di vederlo nella sua stanza, solo, in silenzio e senza faccia, con la porta e la finestra chiuse. Mi sono guardata intorno chiedendo aiuto ai mobili. Il telefono nella mano si era fatto grandissimo. C’è voluta anche l’altra per tenerlo. Ai piedi avevo le scarpe coi due buchi e i calzettoni bianchi col merletto sotto le ginocchia. Con la testa arrivavo appena al tavolino. E adesso che faccio, ho pensato il momento che mi è uscita la paura di bocca.
“Pronto, ma chi è?”, ho detto.
Allora la linea è caduta. Ma non c’è stata quella precipitazione, quell’inesattezza percettibile del gesto che interrompe la comunicazione. II segnale di occupato sembrava quello che viene dopo l’attesa di una linea difficile da prendere. Non un suono improvviso, o appena appena incerto, come quello procurato da una mano che accompagna il ricevitore, ma una sequenza infinita di note identiche che arriva già iniziata, ed ha la precisione, la freddezza meccanica del guasto.
Sono rimasta con il tu-tu-tu nell’orecchio che diventava sempre più veloce, poi ho attaccato e rialzato. La linea c’era, era libera. Tutto normale.
Un’interferenza. Chissà com’era successo. Un accavallamento. Capita. Poi ho la montagna, dietro. Figuriamoci se uno, per quanto si possa divertire a fare cose del genere, se ne sta ad aspettare tutto quel tempo. Per continuare a non parlare, tra l’altro.
Mi sono messa le pantofole e ho ripreso la giornata da dove avevo lasciato. M’ero riproposta di non pensarci più. Del resto il tempo mi serviva, avevo una pila di bozze da correggere, e dovevo ancora cucinare. E così ho fatto.
La sera, verso le sette, il telefono ha suonato di nuovo. Ero in bagno. Ho guardato verso la porta. Dietro la porta c’era il corridoio, poi la cucina e poi il soggiorno e nel soggiorno il telefono. È stato come tornare di colpo alla mattina, quando sollevando il ricevitore me l’ero ritrovato in linea. Ho avuto come l’impressione che per tutta la giornata ci fosse stato qualcuno in casa.
Mentre andavo a rispondere mi sono accorta che mi tremavano le gambe. Attraversando il corridoio ho controllato se avevo chiuso bene la porta. Mi sono fermata davanti al telefono. Ogni colpo di squillo sembrava un respiro. Sono rimasta li, con le mani che mi andavano avanti e indietro, quando a un tratto mi sono detta: ma insomma, hai quasi trentadue anni, l’hai fatta tanto lunga che volevi andare a vivere da sola e non sei capace di una cosa così semplice?
Ho alzato. L’avevo deciso li per li il tono, quello di chi ha ben altro da fare e risponde per non sentire più lo squillo. Ero indecisa tra pronto e si, poi m’è uscito sì.
Lo stesso silenzio della prima volta. Era lui.
Sono stata zitta qualche secondo, poi l’ho aggredito. Non so come ho fatto. Ho parlato senza sapere quello che dicevo, come un atto riflesso, tipo la mano che si ritrae quando ti pungi. Ma le parole erano appropriate più che se le avessi scelte. Ho stretto forte il ricevitore e ho parlato con la voce quasi bassa, molto ferma.
“Senti, stronzo impotente, mi hai fatto alzare dal cesso per venire a rispondere. Ho ancora la carta igienica in mano. Non ti vergogni?”
Devo averlo colpito in pieno. Ha attaccato sbattendo, come se lo avessi chiamato per nome. L’avevo umiliato dicendogli solo una parte della verità, la meno importante. Mi sono sentita prendere da una sensazione di autorità che mi ha dato quasi alla testa quando il segnale di occupato s’è messo a impazzare nella cornetta.
L’avevo scacciato, l’avevo buttato fuori di casa. Avevo vinto.
Ho voltato la faccia alla bambina indifesa e sono tornata all’altezza della mia solitudine.
Sono rimasta a casa quella sera, lo sentivo che sarebbe andata così. Era uno di quei giorni in cui sai con certezza che nessuno ti chiamerà. Le tre, le quattro del pomeriggio e il telefono è come staccato. Poi le cinque, le sei, niente. Nessuno si accorge che ci sei anche tu.
Non ho mai creduto che sia una cosa che succede per caso. Penso invece che ci sono dei giorni in cui ti tocca, la solitudine. Ma non me ne faccio un problema.
E poi è stato meglio così, perché mi sono messa a lavorare di brutto e alle undici e mezza avevo finito. Quando ne ho voglia sono veloce, e se la giornata è quella buona, non mi scappa niente.
Ho mangiato qualcosa e sono andata a letto. Ho acceso il televisore e messo il volume al minimo. Mentre mi spogliavo ho visto il libro che mi guardava dal comodino. Non mi ricordavo neanche quand’era stata l’ultima volta che lo avevo aperto. Mi sono un po’ vergognata. L’ho preso. Avevo messo un segno, ma ormai non serviva, non mi ricordavo quasi niente. Poi avevo letto sì e no una quarantina di pagine. Mi sono sdraiata (mi ha fatto quasi male quando ho lasciato andare la schiena, come se mi avesse detto finalmente, ti sei decisa) e ho cominciato a leggere. Dopo una pagina o due, le cose che succedevano nel libro hanno cominciato a non tornarmi. Mi sono fermata e me lo sono posato addosso a faccia in giù, a ventaglio. Di solito in questi casi mi addormento. Invece mi è venuto in mente quello del telefono, e con lui è insediata una veglia intrusa. Quando l’avevo sopraffatto avevo sentito come un groppo, un piccolo dispiacere. Finito subito dietro la soddisfazione di essere stata più forte. Ma adesso che dal letto guardavo al giorno che si allontanava, tutte le cose successe prendevano posto nella mia stanza. Qualcuna sulla finestra, una o due sul comodino, questa qui addirittura sul letto. Se ero riuscita a ridurlo in quel modo mettendogli davanti l’immagine di me che mi liberavo da un bisogno facendola sembrare, con un minimo di volgarità, una cosa intima e sporca, voleva dire che doveva essere una persona educata. A modo suo, sensibile. Capace di vergognarsi.
Allora ho avuto un moto di compassione, e mi sono sentita la solita inetta che ho sempre pensato di essere. Proprio quando lo ridimensionavo, quando riuscivo a farlo diventare, dalla paura che era stato all’inizio, una persona qualsiasi con una faccia qualsiasi, soggetta alla mia stessa morale, mi sono sentita in colpa per averlo trattato in quel modo.
Comunque non è che sia durata molto. Ho preso sonno secondo i soliti tempi, e mi sono svegliata che la signora di fronte aveva già cominciato a sbattere il tappeto. Verso le dieci ho chiamato l’editore. C’è rimasto quando gli ho detto che le bozze erano pronte e potevo consegnarle in mattinata. Non ha fatto in tempo a separare le informazioni (la prima, prematura com’era per lui, aveva bisogno della seconda per sembrargli vera), che gli ho praticamente ordinato di farsi trovare, che volevo essere pagata subito. Dopo quello che avevo passato l’ultima volta (due settimane di questua per mezzo milione, e avevo fatto una montagna di carte), non volevo altre fregature.
Quello è ammutolito come per vedere se gli avevo lasciato il segno, poi con la voce estorta mi ha risposto che andava bene, che mi aspettava in ufficio per la mezza.
E venti, ho detto io, che poi mi chiude il supermercato.
Buongiorno.
Mi rendevo conto di dovere quella determinazione, assolutamente nuova per me, alla sfuriata del giorno prima. M’era rimasta della sicurezza, e non volevo sprecarla. Non è che fossi cambiata, che avessi capito come si fa. Approfittavo dei resti di quella fiducia passeggera, di quella condizione irreale in cui mi sentivo capace di far succedere le cose, come il giocatore che insiste quando si convince che la fortuna si è voltata dalla sua parte.
L’editore mi ha guardato con gli occhi pieni di una nuova, compiaciuta considerazione quando gli ho messo sulla scrivania la busta delle bozze. Ho avuto il mio assegno e sono tornata a casa come fossi scesa a prendere il sale.
Anche più tardi, fra i panni da lavare e le pentole sul fuoco, continuavo a sentirmi quell’ospite dentro. Tutto mi veniva facile. I miei movimenti erano così ben coordinati tra loro che mi avanzava sempre del tempo per fare altro. Coi pensieri andavo e venivo dalla scenata al telefono alla faccia dell’editore. Due volte avevo combattuto, e vinto. Ne ero soddisfatta quasi fino alla volgarità. Al punto di pensare alla mia vita come a qualcosa che avevo sempre sopravvalutato. E che avrei dovuto imparare a trattare con sufficienza.
No, non facevo sul serio. Non avrei mai ceduto ad un sospetto così mediocre. Però ne accettavo la corte.
In bagno ho lo specchio grande. Ci sono andata fingendo di passare da quelle parti. La faccia aveva preso una leggera tracotanza che non mi stava affatto male. La pelle era distesa, gli occhi attenti, la bocca piena di espressione. Non avevo più difetti. Quei pochi che mi pareva di vedere, era perché 1i indovinavo. Avrei voluto approfittare di quell’occasione di bellezza. Uscire di casa e incontrare qualcuno a cui ho sempre desiderato piacere. Un uomo, una donna, non sapevo esattamente chi. Volevo vendicarmi del mio corpo, conservare quella bellezza negli occhi di un altro. Ma non avevo dove andare. Uscire per strada, cercare tra gli estranei, sarebbe stata disperazione.
Avevo ancora i pensieri sulla punta delle labbra, quando mi sono accorta che mi stavo togliendo la camicia. Chissà in che punto della mente l’ho voluto. Da un momento all’altro mi sono vista mezza nuda nello specchio. L’odore della pelle si sentiva forte. Le mani sono andate a consolare i gomiti. Avevo un po’ di freddo alle braccia. Le spalle si muovevano da sole in una direzione che sembrava quella dell’alto e invece era quella di se stesse, l’una in difesa dell’altra, come due creature stanate all’improvviso che cercano di avvinghiarsi fra loro prima che l’estraneo le divida.
È finito tutto in un attimo. Mi sono come svegliata. Gli occhi mi chiedevano che ci fai qui, come ti è venuto. Ho raccolto la camicia e l’ho infilata come un soprabito. Mi sono chiusa la porta alle spalle.
Avevo il sugo fatto, gli spaghetti pesati, la tavola pronta. Mancava solo l’acqua. Le pentole sono nel piano più basso del mobile. Visto che ci sono, ho pensato, faccio un po’ d’ordine. Ero china nel buio dello scaffale, mettevo e toglievo in cerca della disposizione più adatta. Lo squillo del telefono si è intromesso fra il rumore delle pentole. Mi è entrato nella testa, appena sopra la nuca, ed è uscito dalle orecchie. Allora ho concluso che era la terza o quarta volta che suonava. Non mi sono mossa. Ho solo voltato gli occhi in direzione della porta. Poi mi sono alzata. Piano. Con tutte le pentole. La realtà aveva ripreso il solito torpore.
Il ricevitore tremava ancora quando ho sollevato. Non è lui, non è lui, mi sono detta fino all’ultimo.
La mano ha allentato la presa, reggeva soltanto. L’altro braccio mi è caduto lungo il fianco.
Un’altra volta quel silenzio. Senza rumori soffocati. Non un suono, neanche in lontananza, che lo tradisse. Ho tentato qualche spiegazione di convenienza, poi mi sono arresa. Poteva essere un altro.
Magari era un altro. Perché no. Uno stronzo che si divertiva a chiamare a caso. Gli ero capitata io e ci aveva preso gusto. Un represso che stava aspettando il coraggio di mugolare qualcosa per masturbarsi meglio. Un maniaco che mi aveva puntata e prima o poi sarebbe venuto a farmi visita. Lo so che tutto questo era possibile. Però non ci credevo. Stavo col telefono in mano ad aspettare chissà che. Una parte di me diceva attacca, critica, difenditi. L’altra, quella degli sbagli, mi teneva li. Mi rendevo conto che così lo autorizzavo a insistere, ma non ce la facevo a chiudere. Provavo come un dolore nel non riuscire a capire di cosa, in quel momento, sentissi la mancanza.
Ho resistito finché ce l’ho fatta, poi ho raccolto qualche parola e l’ho detta. M’e venuta la voce di quando mi vergogno di qualcosa.
“Senti, io non lo so perché continui a telefonare e che vuoi da me. E non so nemmeno se faccio bene a parlarti, invece di appendere. Ma guarda che non ci metto niente a cambiare idea.”
Ho detto così e mi sono fermata. Mi sentivo tremendamente ridicola. Allora ho avuto l’impressione di un’attesa, di un’attenzione restituita. Quel silenzio non era sfida, provocazione. Sembrava fallimento, vergogna.
“Probabilmente mi sbaglio, però non credo che tu sia un depravato o uno che si diverte a importunare la gente. Dimostrami che ho ragione, finiscila di chiamare. Vivo da sola e di paure ne ho già abbastanza per conto mio. Lasciami in pace. Non chiamare più.”
Quella è stata la prima volta che ha respirato. Doveva avere appena finito di ingoiare. Ho sentito la sua mano che rinunciava, accompagnando il ricevitore a fatica. Poi sono rimasta sola.
Era quello che gli avevo chiesto.
Ho messo il telegiornale altissimo mentre l’acqua bolliva. Quel poco che ho mangiato mi è sembrato parecchio. Sono andata in camera da letto e mi sono stesa. Non avevo voglia di leggere. Ho imparato a memoria il lenzuolo appeso al balcone di fronte.
Non dormo mai di pomeriggio. Mi sono addormentata. Quando ho aperto gli occhi (sarà passata un’ora scarsa) è stato come se qualcuno avesse messo a posto per me. II cassettone, la busta di plastica appesa alla sedia coi bigodini e lo scontrino mezzo strappato ancora dentro, le piastrelle arancioni nella cucina della casa a fianco, il mugolio continuo della strada, tutto aveva il solito aspetto misero e rassegnato.
Ho lavato il piatto, la forchetta, il bicchiere e la pentola. Dall’appartamento vicino si sentiva la pubblicità alla televisione. Non volevo passare un’altra serata in casa. Sotto la doccia ho pensato di chiamare Valeria, mi fa ridere è spostata e mi piace stare con lei, se non ci vediamo spesso.
Metto l’accappatoio, vado in camera (ho il telefono anche là), mi siedo sul letto e alzo. Muto.
Avevo i sandali e le sopracciglia inzuppate. Le gocce che arrivavano in bocca sapevano di capelli.
All’inizio non ho neanche pensato a lui. D’istinto sono andata con la mano ai pulsanti del telefono per liberare la linea. Ho abbassato due, tre volte e un’altra volta ancora, lentamente. Macchè.
Dentro l’accappatoio ho cominciato a soffocare. Ho messo giù e mi sono alzata in piedi facendo come quando ti viene un dolore all’improvviso e pensi: se faccio finta di non vederlo se ne va. Ho dato una stretta alla cintura, ho raccolto i capelli all’indietro e sono uscita sul balcone. C’era un ragazzino affacciato a una finestra con un quaderno in mano, e muoveva e labbra. Non faceva freddo.
Sono rientrata (passando davanti al telefono ho guardato dall’altra parte), sono andata in cucina, ho aperto la finestra e il rubinetto. Avevo bisogno di rumore, qualcosa che mi tenesse occupate le orecchie. Ho preso un bicchiere, l’ho riempito e svuotato due o tre volte nell’acquaio. Ho chiuso il rubinetto e sono tornata in camera di corsa.
Ho alzato, come una pazza. Avevo ancora il bicchiere in mano.
“Sei ancora là? Vaffanculo, hai capito? Vaffanculo!!”
Stavolta non ho controllato se chiudeva o no. Ho messo giù e sono andata in bagno ad asciugarmi. Mi tremavano le mani e le labbra.
Ero delusa, avvelenata come dopo un litigio con una persona cara. Adesso gli faccio passare io la voglia, ho detto. E mi sono vestita. Sono andata a rispondere in soggiorno. Ho alzato il telefono e gli ho urlato ogni volgarità, tutte le parolacce che ho imparato in vita mia, molte che mi sono sorpresa addirittura di conoscere, così come mi venivano, senza sceglierle, senza distinguerle, come buste della spazzatura, immondizia che gli rovesciavo addosso balbettando, ripetendo, sospirando, facendo pause lunghe e improvvise a cui seguivano altre scariche di insulti sconnessi e senza senso.
Lo colpivo, sì. Gli facevo male. Respirava chiaramente adesso, mi restituiva la sua umiliazione. Ma non riuscivo a tirarlo fuori.
“Guarda”, gli ho detto, “ho un amico magistrato. Lo chiamo, anzi ci vado, ecco, ci vado e domani mattina ho il telefono sotto controllo e se riprovi a chiamare ti mando in galera, in galera hai cap…”
Mi è scomparsa la voce. Tutta la rabbia era finita così all’improvviso che mi sono guardata intorno per vedere se era successo qualcosa.
C’è stato dell’altro silenzio, il peggiore, quello di quando restano solo le ferite. Respiravamo tutti e due, ognuno nella sua solitudine. Lui era sempre lì, con le mie bucce addosso si passava continuamente il telefono da una parte all’altra. Neanche adesso che eravamo alla fine trovava il coraggio. Per un momento mi ha commosso la sua debolezza, quel suo voler continuare a salire anche se le gambe non gli tenevano. Stavo quasi per piangere, ma ho resistito. Mi sono messa una mano fra le gambe e ho spinto forte, quasi fino a farmi male. Finalmente mi è tornata la voce.
“Chi sei, che vuoi da me, perché non mi lasci in pace? Parla, per favore, dimmi qualcosa. Una soltanto.”
Questo, questo gli ho detto. Io che avevo tutte le ragioni, io che fino a un attimo prima lo avevo offeso e minacciato, adesso lo stavo pregando. Pur di far finire quella sofferenza, vederlo almeno per un attimo, avrei fatto qualunque cosa. Se avesse bussato alla porta, gli avrei aperto.
Allora ho sentito un respiro diverso da quelli che aveva fatto fino a quel momento. Un respiro che tradiva una paura superata, un coraggio costato carissimo.
E un attimo dopo ha parlato. Avevo aspettato tanto che ho contato le sue parole una lettera alla volta mentre si mettevano in fila e diventavano la sua voce.
Mi chiamo Giacomo, ha detto. Faccio il cartellonista.
Ho attaccato.