IL ROSSO E IL NERO
anno 3, numero 8, ottobre 1994
poesia e critica, pp. 56-59

nota di poetica

Un vuoto tutto pieno

    Così come Socrate, amo i discorsi belli (e forse l’abbraccio della poesia e della retorica in una considerazione comune è un tratto molto francese); e qui voglio evocare un abozzo della mia concezione della poesia e della consapevolezza della mia poesia, delle speranze culturali che pongo in essa, della salvezza che vedo per i suoi fedeli in questi tempi di modernità.
   Grandi italiani hanno ribadito, dopo Giambattista Vico, come sia impossibile essere insieme sommo filosofo e sommo poeta; epperò voglio subito sottolineare che questa impossibilità non è tanto un’interdizione (fondata, per esempio, su una teoria dei generi letterari) quanto la struttura della modernità stessa. Essere moderno nella poesia è patire di questo divisamento fra i sensi e i concetti. Si deve dire che la poesia non è soltanto l’opposto della filosofia, ma che esiste una poesia capace di esprimere la crisi fra intelletto e fantasia (Da Dante, o forse già dall’ ”ultima carminis aetas” annunziata da Virgilio), e che il fatto che una tale poesia esista è un problema filosofico specifico.
   È vero che questa determinazione della situazione presente fu già quella del romanticismo tedesco nelle sue relazioni con l’idealismo tedesco; però questa figura dello spirito poetico non può esaurire tutte le virtualità del nostro tempo.
   Fedele alla riflessione di Yves Bonnefoy, direi che la forma contemporanea della crisi fra poesia e filosofia può bene spiegarsi con la dialettica del luogo e dello spazio. La modernità può definirsi come conquista d’uno spazio omogeneo, soltanto quantitativo, mentre l’esperienza antica del cosmo si sviluppava dentro uno spazio qualitativo, differenziato fra luoghi naturali. I filosofi affermano spesso che il passaggio dell’umanità all’età dello spazio galileano è un evento irreversibile e che pensare l’essere nella sua forma moderna è trovare un nesso fra tre forme dello spazio: lo spazio dell’obiettività nelle scienze, lo spazio democratico della politica, lo spazio della rappresentazione estetica.
   Questo sarebbe vero senza la Poesia, senza lo sbocco perpetuo del vates, cioè dell’esperto del vecchio spazio, dello spazio aristotelico-pagano, nel dominio sicuro della modernità. Significherebbe questa tesi che la poesia sia soltanto un officio della memoria? Non soltanto della memoria davvero, ma della memoria dello spazio. Il poeta non è l’orecchio del passato e il suo atteggiamento non è quello, storico, di chi difende un’etica arcaica nel mezzo del nichilismo. Il poeta è un “saggiatore” dello spazio e non si contenta dello spazio della dominazione, si cura, diremmo con René Thom, dello spazio dell’intelligibilità. Intelligibilità di che cosa? Intelligibilità del cosmo umano.
   I boschi sacri dove sono nati i poeti non sono un’immagine idillica, ma una certa partizione dello spazio che rimane costitutiva per la nostra esperienza del mondo. Attraverso le esigenze biologiche del nostro corpo, nostra conquista dello spazio rimane un’esplorazione pagana del territorio – pagana, di pagus, che significa il territorio del villaggio.
   La città, nella sua forma romano-cristiana, non può esaurire il tesoro del paganesimo finché il poeta può custodire il culto dei luoghi che rende la vita umana possibile. Anche in un contesto affatto disperato come quello proprio di Giacomo Leopardi, si ricorda come l’infinito, il niente, privo di ogni illusione favorevole alla vita umana, si conquista ancora dentro il cerchio incantato d’una siepe.
   Non avrebbe però senso immobilizzare la poesia all’interno di un culto del luogo considerato come un assoluto opposto allo spazio cittadino moderno. Nessun assoluto può tenersi nell’opposizione, e una poesia della città c’è. La sfida della poesia moderna è, piuttosto, di inserire la poeticità dei luoghi nella logica della città. Rispondere a questa sfida non è soltanto scrivere poesie, ma precisamente salvare la propria vita. Ma è vero che non abbiamo diritto ad altri templi di quelli che circondano la forma delle nostre poesie, forma sempre più breve, si deve notarlo.
   La poesia s’identifica con il destino del paganesimo all’età dell’incarnazione storico-tecnica della mistica cristiana; la poesia consiste nella scoperta dei luoghi d’intensità, dei boschi sacri, nella civiltà delle strade. Perciò la bellezza della poesia è, come direbbe Vico, una “bellezza civile”, cioè una bellezza che fonda di nuovo la civiltà per la quale l’esperienza della bellezza è possibile. E mi piace questa nobile risposta di Foscolo al suo contraddittore romantico-sentimentale: “L’autore considera i Sepolcri politicamente”.
   Bellezza poetica si può dire ancora l’effetto dell’irruzione dell’arcaico nella modernità delle lingue prosaiche, e, prima di tutto, l’unità del verso nella dispersione della riflessione. La bellezza poetica sarà bellezza di frontiera: frontiera fra i sogni e la realtà si dice spesso, frontiera fra l’eroismo delle origini e l’umanità presente sempre incompiuta. Ma l’importante è considerare che se frontiera c’è, allora la bellezza è ancora un fenomeno spaziale, proprio questo momento nel quale lo spazio astratto, omogeneo, piegato, lascia emergere la Forma, l’eterna Venere Anadiomene…
   La bellezza poetica, considerata al lume del paganesimo eterno degli animi, ritrova così qualcosa della bellezza platonica; però questo platonismo non è quello d’una forma pura, ma è la misura d’una magia. Contro la semplicità frettolosa delle forme tecniche, dobbiamo vantare la morfologia ricca di senso della miscela fra le fontane perenni e il ribollire dei nostri poteri.
   Uomo dei boschi, amico delle bestie, dell’infanzia della razza piuttosto che della sua, uomo dei nomi coi quali si chiamano dèi, amori, incroci e case, il poeta assicura la civiltà che la storia non è soltanto un sapere, ma anche una natura, proprio quella dell’uomo, che dev’essere conosciuta e interpretata nelle sue singolarità, alla maniera di quell’altra che l’uomo cerca di sottomettere. Così si potrà capire, in tutti i suoi sensi, l’aforisma di Leopardi: “La barbarie non consiste principalmente nel difetto della ragione ma della natura”.

 

Enrico D’Angelo