IL ROSSO E IL NERO
anno 3, numero 8, ottobre 1994
poesia e critica, pp. 78-82

Gian Mario Villalta

“Quasi qualcosa nelle frasi”

(Quasi riconosciuti)

Non arriveremo più in tempo.
Come se mai il vento sull’erba
– ti ci ho pregato fàmmelo ancora
sulla nuca – e un appuntamento
dove incontrarci condividessero
il verbo giusto per fare una frase
che siamo insieme: fa’ il vento
sull’erba, adesso, fàmmici brividi
di brina mentre dilegua
(non già-pensieri) il tuo addosso,
in questo a me stesso
sparirmi – sia luogo

(Quasi domani)

La resistenza bruciata in fondo
la cervicale del sonno
e cani abbaiano nel cuscino.
  Si mandano giù così, le parole
con la scorza di vetro, intere,
poi scaricano i quintali
nelle ere
e un dito ruota un’arancia.
  Ruota, un occhio, ruota e ruota
una o due braccia, pancia
senza più ombelico
senza più differenza
se vi ci si avvita
graticola o bilancia
– corpo che mio disdico

(Quasi interrogativo)

 Sapessi altro bene oltre questo
Mimare il mio bene-boomerang
Nel suo voler mai fallire
Mai colpire e infine riaversi
In mio afferrato io-boomerang,
  Saprei davvero soffrire insieme
Quel fare il canto che schiude
La terra in cuore alle ore – e smetterle
Certe giornate vegliate
Come in insonnia, rimettermi
al mentre, sorprendermi
– senza sapere a quale
vera domanda – rispondere (?)

(Quasi noi, qui)

  La pelle vestita del canto
Appena, e poi sono le immagini
A sfarsi lentamente, corpi, nuvole,
Soli come annegati
In fondo al vento di Aprile

(Quasi già il dopo)

  Dei giorni a blocchi e delle ore
franate fuori, di come vanno
via gli occhi dagli occhi e gli istanti
si fanno corpi.
  Di mesi e mesi e mesi
confusi tra capodanni compleanni una
mezza stagione in una canzone
con le parole sbagliate.
  Di strappi d’ore, di spasmi
e crampi d’ore nell’ora
che si divora FARE
CHE RESTI MENO ANCORA,
che tempo perso e perso
nel tempo siano peso
sul sempre meno, zavorra
a questo inaltrirsi – CHI CORRONO AVANTI,
tutte le carte pronte e le date,
LO ISCRIVONO A VITE
LO VIVONO CHE LO DIVENTI

(Quasi nel buio la notte)

  Più notte, più lento approdo
Di una nave di cenere.
Frugano le dita ceree
Della luna. Ricresce il mare, quieto
Effondersi, buio
Di alberi, e vento
Nelle stagioni sfinisce
Rive e portoni in profonde
Strisce di nubi.

  Da un proiettore di sonni
Guasto, salpa nel bianco
Lo sguardo che ha perso una nave
Di cenere, le lontananze
Dove più notte
Fa umide e stupefatte
Le stanze   Da fuori mondo, dal dentro
Terra scava più notte   Più notte ancora

(Quasi/ancora)

  Luce spray dentro l’umido,
eleggi
a segno del giorno
il quadrante dell’occhio
macchiato di luna.
E leggi quanta fortuna nei circhi di brina
puoi cogliere al viola delle erbe
nuvolose, alla quiete vetrina,
quanto verde è già viola
nei frattali raggiati di gelo
di cui la più lieve fogliòla
si fa corona:
un’immagine che offra il visibile
più difficile a separarsi
dall’invisibile,
un senso che accetti
la tua insensatezza e ti assegni
al più tuo dei quasi,
quasi dirsi possibile, ancora,
e qui vero viso, la frase

occhi chiusi allo specchio