IL ROSSO E IL NERO
anno 3, numero 8, ottobre 1994
saggi: la Menzogna, pp. 43-50

Amedeo Anelli

Ogni trovata è persa. Immagini della menzogna

   O per pochezza o per necessità, si potrebbe dire che lo stato di sbriciolamento, di frantumazione, di dissignificazione delle poetiche artistiche di questi ultimi anni fino a mettere in sospetto il concetto stesso di poetica in una polarizzazione nelle forme dominanti dell’idioletto da una parte e dall’altra di furore di autofondazione a dispetto delle opere che ne dovrebbero costituire il radicamento e che invece ne sono un puro epifenomeno, una vaga voce – sia il controcanto di una riduzione di tutto in una reversibilità globale e nel contrario di questa globalità, una totale mancanza di fondazione stilistica e di verità, una pappa ben confezionata, nei casi migliori, ben digerita, ove l’imballo è tutto.
   Non che il senso delle tradizioni (novecentesche e non) sia smarrito, o manchino punte o vette a cui fare riferimento o avversari, secondo l’indicazione di Giacomo Noventa: “Se non trovi avversari degni di te cercali fra i morti o inventali: poi discuti con loro come fossero vivi; ti accorgerai che i tuoi avversari esistono, che esistono oggi e che sono degni di te ‒ ma l’immagine prevalente è quella di una ben disciplinata (agli umori, alla rimozione, ai terrori del mercato) amministrazione letteraria ed artistica con le sue figure catastali, con la quasi totale latitanza della critica se non nelle figure accademiche di amministrazione dell’esistente (un narcisismo speculare di valori) e di recensione e divulgazione libraria, un darsi per affogati nel mare magnum delle quarantamila pubblicazioni, si dice, nelle altrettanto numerose presentazioni, letture, recensioni, segnalazioni, manifestazioni artistiche, musicali, premi, ecc… Anni di quantità avrebbe detto Dante Filippucci, fenomeni scontati di una società che si è voluta di volta in volta chiamare nelle sue forme dominanti e fra esegeti e critici: affluente, amministrata, dello spettacolo, post-industriale, post-storica. Una mancanza di approfondimento del senso delle tradizioni novecentesche e antinovecentesche operanti, una mancanza di progettualità a lungo respiro di “un senso architettonico e non epigonale della tradizione” (delle tradizioni) direbbe Daniela Marcheschi.
   Come tutto ciò possa inerire al tema della menzogna è ciò che vorremmo indicare in questi brevi cenni ed immagini, laddove la menzogna venga tematizzata non solo come qualità dell’artificio e dell’illusione, quindi ancora all’interno delle poetiche come verità dell’arte, ma come patologia delle arti come pseudoartisticità, come Kitsch.

   Il tema della menzogna è indiscernibile nei suoi aspetti linguistici, morali, giuridici ecc., dal tema della verità e dalla costellazione dei significati e del senso che a questa come fattore oppositivo si congiunge. Così Harald Weinrich nel suo saggio “Linguistica della menzogna” (in Metafora e menzogna): “Per Agostino esisteva la menzogna quando dietro la frase menzognera si trovava l’intenzione di ingannare. La linguistica invece considera data una menzogna quando dietro alla frase menzognera (espressa) si nasconde una frase vera (non espressa), che si discosta da quella in senso contraddittorio, cioè per quando riguarda il morfema asseverativo si/no. Non “duplex cogitatio” come dice Agostino, bensì “duplex oratio” è il “segno della menzogna”. Opposizione e costellazione dei significati a dare un senso esplicito/implicito, astrazione, ampiezza, vaghezza del significato e particolarità del senso come relazione testo/contesto, come evento della verità e della menzogna.
   Utile può essere una ricognizione delle forme verbali dell’ebraico così come ci perviene dall’esegesi biblica, ove si distingua la menzogna come dire falso corrispondente al verbo KaZaV (K Z V) mentire, convincere di menzogna (menzogna, bugia, ciò che mentisce, oracolo falso) menzogna come agire falsamente corrispondente al verbo SHéQeR (SH Q R) mentire, ingannare, frodare (menzogna, inganno, frode); menzogna come essere deludente, rinnegare, corrispondente al verbo KaCHaSH (K CH SH) mentire, ingannare, rinnegare, calunniare; menzogna come ciò che è vano, corrispondente a SHaW, essere vano (vanità, il nulla, menzogna, falsità, molestia, indarno – forma avverbiale ‒), e della forma greca di pséudos, relazione menzognera, falsità.
   Una costellazione ampia che compendia tutte le accezioni del termine nel testo biblico e che avrà inerenze con il fare artistico in quel che più si avvicina al significato del termine greco techne nei significati ermetici di furtività, di prontezza di spirito, astuzia, atto ingannevole, artificio, stratagemma segreto ecc. ed in quello poi di poiein come fare e primariamente il fare poetico.

   L’estetica fenomenologica e l’ermeneutica hanno messo in luce il valore fondativo della verità nei riguardi dell’opera d’arte: “messa in opera della verità” nella vulgata heideggeriana in cui viene conquistato “l’Aperto”, la verità si istituisce nell’opera come tensione fra ciò che viene alla luce e ciò che si nasconde. Significative le posizioni dell’estetica di Dino Formaggio che nel suo volume Arte sostiene: “…ogni scelta della persona non cessa mai, anche sul piano artistico di essere una scelta etica, (…) E poiché la scelta artistica è sempre scelta di segni, di figure, messa in opera di significati, in tale messa in opera non si può mentire, perché, se si mente, si dice che si mente: il segno non può mentire, se non dicendo che mente”.
   Egualmente radicali, dopo anni di “debolezza” come qualità della forza le posizioni di Alain Badiou, seppure non interamente condivisibili negli esiti neoplatonici.
   Nel Manifesto per la filosofia di recentissima pubblicazione, Alain Badiou partendo da un neoplatonismo del molteplice riporta al centro della filosofia contemporanea la categoria della Verità o meglio delle verità: “la filosofia è il luogo di pensiero in cui si annuncia il “c’è” delle verità e la loro compossibilità. (..) Le operazioni sottrattive attraverso cui la filosofia coglie le verità “fuori senso” rilevano da quattro modalità: l’indecidibile, che si rapporta all’evento (una verità non è, ma avviene); l’indiscernibile, che si rapporta alla libertà (il percorso di una verità non è vincolato, ma casuale); il generico, che si rapporta all’essere (l’essere di una verità è un insieme infinito sottratto a ogni predicato nel sapere); l’innominabile, che si rapporta al Bene (forzare la denominazione di un innominabile genera il disastro) “.
   Un riaffiorare delle categorie di Molteplicità e di Verità che tenta di rifondare la filosofia svincolandola dalle “suture” prodotte dalla scienza, dal politico, dall’arte (poesia) che hanno reso la verità, il suo dispiegamento insostenibile ed incerto.
   A tale obbiettivo di insostenibilità ed incertezza hanno concorso sulla scia del nichilismo l’ “ermeneutica di matrice tedesca, (…) la corrente postmoderna francese che ha attraversato lo strutturalismo, (…) la corrente analitica anglosassone”.
   Insostenibilità ed incertezza della verità che si trascina fatalmente l’insostenibilità e l’incertezza della menzogna, un velarsi della verità e della menzogna che ha un controcanto di grande forza retorica nell’opinionismo contemporaneo, un opinionismo alla fase tecnologica mass-mediale che ha perduto ogni fondazione corporea ed etica (nei casi migliori ottemperando ad un’etica dei linguaggi e dei giochi linguistici), in un continuo informativo, un vuoto intersoggettivo, senza alcun radicamento e senza esperienza che non sia l’esperienza del medium.
   Discorsi ben noti, ma che è bene ribadire e che danno un carattere intrinseco alla menzogna come svuotamento di senso, del senso delle fonti del senso e delle sue forme.

   Per brevi tratti ciò che ci preme qui non è la faccia “artistica” della menzogna come artificio (che rappresenta pur sempre una delle verità dell’arte) come qualità delle poetiche dell’arte che dalle tradizioni ermetiche nelle loro intrinseche complessità, come apparenza e corpo dell’arte, arrivano a poetiche del decadentismo europeo così come espresse per esemplificazione da Oscar Wilde in La decadenza della menzogna (1899).
   “La vita imita l’arte più di quanto l’arte imiti la vita”; una rivolta contro la natura come fu pensata dal positivismo, dal naturalismo e dal realismo ottocentesco, con sviluppi e radici profonde nella decezione barocca, inganno e illusionismo come vertigine della verità, obnubilazione e dissimulazione, frode per una verità più alta.
   Il che per mille rivoli, attraverso Lautréamont, il surrealismo e la neoavanguardia ci porta, ad esempio al Manganelli (1967) di La letteratura come menzogna: “L’opera letteraria è un artificio, un artefatto di incerta e ironicamente fatale destinazione. L’artificio racchiude ad infinitum, altri artifici; una proposizione metallicamente ingegnata nasconde la ronzante metafora; (…)”.
   Così in area slava con una intenzionalità etica profonda l’arte come artificio (priëm) di Yšklovskijana memoria a cui risponde l’arte come non artificio di Pasternák, spinta e controspinta in un sistema di poetiche, filoni tuttora vivi in un “naturale” confrontarsi di tradizioni.
   Potremmo dire invece che la menzogna che in prima approssimazione ci preme indicare, che coinvolge l’arte e non solo come qualità del “contorno”, come “corte dei miracoli” come sempre più spesso capita di osservare negli aspetti sociologici ed antropologici più deteriori, sia determinabile come pseudoartisticità, come inadeguatezza, accumulo e mediocrità, una contro-progettualità e contro-segnicità che muove allo svuotamento del significato e del senso lungo le direzioni del consumo e del dominio.
   Nell’eterno presente del consumo, un presente esteso ed eternizzato, come sottrazione di ogni presenza e di ogni presente, il dominio si pone come sottrazione dell’artisticità nelle figure e nelle forme in cui si pone o viene posta, l’artisticità come autolegittimazione o pseudo-intersoggettività, si ha bisogno di porre il dominio su ciò che continuamente sfugge ed è estraneo, si arriva qui al significato di menzogna come falso agire, come appunto controprogettualità, come contro-segno e controprassi. Cosi chi abbia potuto seguire gli esiti delle arti visive dell’ultimo trentennio dalla pop art al medialismo in quel filone – non unico e totalizzante come si vorrebbe far credere, nonostante il rifiuto più apparente che reale di ogni totalità e totalitarismo – postmoderno: l’arte nella società dell’iper-informazione e della ipocomunicazione, la società degli apparati, dei media, dello spettacolo, verificherà uno scardinamento e scavalcamento del picassiano “io non cerco, trovo” verso la trovata come espediente dell’istante in un orizzonte dell’esistente storico-artistico (della ricostruzione razionale di questo esistente nella storiografia) come inadeguatezza.
   La trovata come correlativo dell’istante dell’iper-informazione dell’immagine computerizzata o televisiva (dei concetti) e della storiografia artistica come rubrica, file ed ipermercato.
   Una patologia del concetto e dell’operare nelle tradizioni, un tradire verso una funzione packaging di imballo del mercato come patologia dell’economico, dell’economico come autoreferenzialità e svuotamento come i recenti esiti del mercato dell’arte dimostrano.
   Una fuga dall’ontologia del valore classicamente intesa, che fa del valore ciò che sfugge dall’economico, dal valore determinato nella convergenza di un contro-valore come dominio.
   In questo modo bisogna pensare al kitsch non tanto come ad una forma patologica d’arte, ossia ancora arte: l’arte della felicità (Moles), ma come ad un corpo tumorale che si innesta sull’edificio delle arti e che le porta a morte per dissignificazione e consumo (Formaggio).
   Utile a questo proposito, anche se non negli esiti (che so opposti a quelli fin qui rilevati) la ricerca sul kitsch fatta da Abraham Moles nel suo Le Kitsch. L’art du bonheur (Il Kitsch. L’arte della felicità); in particolare il passo di ricerca sull’etimologia della parola, fra gli altri: “La parola, Kitsc è una parola tedesca molto diffusa nel meridione della Germania, con i significati di ammucchiare, riunire alla rinfusa: in senso più particolare, far di mobili vecchi mobili nuovi; apparsa nel significato moderno a Monaco verso il 1860 verkitschen, significa rifilare sotto mano, vendere qualcosaltro al posto di ciò che era stato esattamente richiesto; in altre parole, kitsch è l’indizio di una morale subdola, di una negazione dell’autentico. Come concetto universale ben noto e diffuso, il termine kitsch corrisponde ad uno stile che fa sentire l’assenza di ogni stile, nel momento della sua genesi estetica; corrisponde ad una funzione della comodità che è stata aggiunta senza alcune necessità alle funzioni tradizionali dell’oggetto… “.
   Ciò che è comodo, ciò che è rassicurante, ma anche ciò che è vano: menzogna come vanitas, come vanità.
   Anche nel processo di liberazione all’interno delle aporie del moderno dalla bellezza teologica (dall’arte “teologica”) come estaticità ed esteticità verso le forme dell’artisticità diffusa, fino a giungere ad una antropologia dell’arte, a psicologie dell’arte (del comportamento), alla sociologia dell’arte, ecc.., un’arte come concetto, fenomeni quali la body art, l’arte programmata, il concettualismo, la minimal art ecc.., sono sfociate in questi ultimi anni in cui i mezzi superano i bisogni, in cui nuovi bisogni marxianamente creano nuova dipendenza, “un nuovo modo di godimento e rovina non solo economica”, allo psicologismo in arte, al sociologismo in arte allo pseudoconcetto, al culto della trovata, non nel senso del compimento della tecnica artistica e del superamento nella tradizione, ma come ostentazione, deiezione, ingombro, desublimazione, arresto della sensibilità nel sensibile, un’immagine ed un immaginario “schizzofrenico”. Un esser deludente della trovata, una mancanza di radicamento nell’emergenza dell’opera che non emerge, ma viene schiacciata da una non trascendenza verso il mondo e le cose.
   Esser deludente come forma di inganno (ben lontano dalle forme di artificio e decezione barocca o neobarocca) che rappresenta un’ulteriore strisciante forma di menzogna.
   Parafrasando Füssli: l’eccellenza del maquillage non può compensare la mediocrità e la vuotezza della concezione; e con Füssli: “Vanità. E’ il vanitoso il più misero dei mortali: vittima di una pustola”.