IL ROSSO E IL NERO
anno 3, numero 8, ottobre 1994
racconti brevi, pp. 8-12
Alessandro Carrera
Doppie metafore
Il giorno che anche Elvis sparì dalla cartaccia rugosa dei tabloid che si vendevano alle casse dei supermercati mi dispiacque un po’. Avevo amici tutti d’un pezzo, gente colta, stata all’università, che li compravano tutte le settimane per riderci sopra. Non so cosa ci fosse da ridere, era un bel mondo, tutti erano vivi, Marilyn era viva, decrepita e rugosa come Gloria Swanson con la veletta ma viva, faceva la cameriera nel New Mexico e la schifosa nel retro del bar. J.F.K. era vivo, senza neanche un dente, sepolto in una cantina di Providence, Rhode Island, da dove comandava il mondo attraverso un Nintendo. Anche il vecchio Adolf era vivo, salute di ferro, novantacinque e passa, tutto una ruga, ma quarant’anni a Minas Gerais a cacciare i serpenti non erano uno scherzo. Era un’epoca eccitante. Gli extraterrestri mostravano la carta di identità del loro pianeta ai poliziotti, Liz era sempre rimasta fedele a Richard Burton e quelle che mandava a sposarsi in giro per il mondo erano le sue sosia, un gatto mangiava un pappagallo e dopo diceva “Polly vuole un cracker” tutti avevano figli segreti, tutti facevano i porcelli, tutti erano froci e puttane come nelle scritte sui muri dei cessi, ma almeno nessuno stava solo, nessuno era sterile o impotente, nessuno si immalinconiva. Al mondo ci sono così poche cose vere, lì invece era vero tutto, tutto quello che la gente pensava ma non aveva il coraggio di dire era vero. Elvis poi era il più vivo e vero di tutti. Indaffarato a far figli, a telefonare ai fans, a suicidarsi, a ripensarci, a comparire in una catena di ristoranti dell’Indiana, a raccogliere la storia delle sue scopate, si divertiva come un pazzo.
Mi spiace che sia tutto finito. Adesso che i tabloid non escono più è come se tutti quei nostri amici siano morti davvero. Non è stata colpa loro. E’ che sono morti anche quelli che facevano quei giornali, sono morti quelli che li stampavano e quelli che li compravano, e nessuno li ha conservati, nessuno ne ha fatto una biblioteca, un museo, una fondazione. Tutto giù nello sciacquone. Ma quei giornalisti, dico io, che al lunedì mattina mettevano le gambe sul tavolo e decidevano chi sarebbe risuscitato quella settimana, chi sarebbe dimagrito e chi ingrassato, prima di estinguersi come i panda avrebbero dovuto pensarci, che ne so, preparare dei numeri di giornale chiusi in cassette di sicurezza da aprire solo in giorni concordati con una dinastia di notai. Così almeno sarebbero ricomparsi, in questo noioso ventunesimo secolo, a dirci siamo ancora vivi, anche loro sono tutti vivi, James, John, Marilyn, Liz, Elvis, perfino il vecchio Charlie Manson, ma sì, vivo anche lui, fidatevi, non tutto è perduto, siamo appena stati nell’aldilà, Dio si fa consigliare da Richard Nixon, l’America ha sconfitto la morte.
Niente. Ma più di tutto mi spiace per Elvis, che non se lo fila più nessuno. Mi dispiace, dico, perchè viene qui tutte le sere e non fa che bere al bancone, poveretto. Certo che non è mai morto, ma non è vero che faceva il dentista a Seattle. È che aveva un dannato da fare come assistente sociale, con quel programma di riabilitazione sociale intitolato ai Figli di Billy the Kid e tutto il resto, sempre in giro tra Fort Summer e Tombstone, una vita da cani, ma gli piaceva rendersi utile, è fatto così. Quando aveva bisogno di soldi andava all’Imperial Palace a Las Vegas e impersonava se stesso, tanto non lo riconosceva nessuno e lo prendevano tutti per un imitatore di Johnny Harra. Ma adesso che il National Inquirer non esce più lui si sente perso, non sa più cosa la gente pensa di lui. Prima era facile: dava un passaggio a un tale da Shrieveport a Baton Rouge, chiedeva lui un passaggio da Memphis a Lake Charles, andava a cantare alla festa delle debuttanti a Nacogdoches e le ragazze piangevano. Sapeva sempre dove era stato e chi aveva incontrato. Adesso invece parla strambo, secondo me non è più lui.
Qualche sera fa ad esempio mi dice che quello che non gli piace di Shakespeare sono le doppie metafore.
Io gli dico cosa.
– Ma sì – fa lui. – Amleto non può dire che prende le armi contro un mare di guai (to take arms against a sea of troubles).
– Amleto dice così?
– Tu prendi le armi contro un guaio?
– Dipende.
– Prendi le armi contro un mare?
– Amleto era pazzo.
– Sto parlando di economia espressiva. Arthur “Big Boy” Crudup non avrebbe messo una doppia metafora in una canzone. Io non l’avrei messa in una canzone.
– Elvis uno – gli dico. – Vecchio Shakespeare zero.
Facevo finta di niente e lavavo i bicchieri, ma quella faccenda delle doppie metafore si mise a rodermi il cervello. Cominciai a starci attento e ne sentivo, accidenti se ne sentivo. Non le avevo mai notate prima e adesso mi piovevano addosso dappertutto. Accendevo la televisione e sentivo il presidente che diceva che bisognava raffreddare i tacchi per poter tirare i remi in barca. Poi veniva quello dell’opposizione e diceva che era stufo di gente che leccava gli stivali ai palloni gonfiati. Cambiavo canale e sentivo un predicatore annunciare che nemmeno un passero va via a mani vuote dal banchetto del Signore. Finché mi stufai e misi un cartello che vietava l’ingresso nel mio locale ai tacchini e alle doppie metafore. Poi la tavola calda dall’altra parte della strada cambiò nome e io stetti a vedere, perché quei bastardi mi odiavano. Quando vidi che la nuova insegna era “Alla Doppia Metafora”, per poco non andai a prendere il fucile che tenevo nel retro, ma mi venne in mente quella storia di prendere le armi contro un mare eccetera e lasciai perdere perché non volevo fare una figuraccia. Elvis mi aveva messo in confusione. Se prendevo cappello e sparavo a una doppia metafora finiva che ci entravo anch’io e dopo magari non ne uscivo più. E Elvis era sparito. Sempre così, tutte le volte che uno ne aveva bisogno. Doveva aver cambiato città, era andato a rovinare la tranquillità di qualcun altro, che andasse all’inferno anche lui. Andai a prendere una birra alla Doppia Metafora, per una volta in vita mia volevo essere servito. Per strada c’erano due che si sposavano con il prete in equilibrio sull’orlo del marciapiede, le macchine gli facevano il pelo ma lui andava avanti a dire che nel meglio e nel peggio bisognava sollevarsi verso l’alto per ripararsi sotto i colpi della sfortuna. La Doppia Metafora, me l’aspettavo, dentro era una porcheria, decorato come uno dei soliti nazimotel. Seduto al banco c’era Nolan, il mio vicino di casa Nolan, l’astronomo dilettante che si spostava quando mi vedeva per le scale, che mi fermava se vedeva che era troppo tardi per spostarsi e che magari ci saremmo sfiorati e che mi diceva che lui sarebbe tornato in dietro fino al pianerottolo così io potevo passare e che dopo sarebbe passato lui, oppure che prima sarebbe passato lui così dopo potevo passare io, oppure che potevamo restare fermi lui sul pianerottolo in basso, io su quello in alto, e aspettare la fine del mondo e la resurrezione della carne. Una volta l’avevo visto uscire di casa con in mano un sacchetto di plastica nero e lui mi aveva avvertito che quella non era spazzatura, era la sua biancheria, solo che non aveva più sacchetti della lavanderia e aveva dovuto usare un sacco per la spazzatura che però era nuovo, non l’aveva usato nessuno, se volevo potevo controllare. Quella sera gli dissi che ero stufo di salire di pressione per montare su tutte le furie, ero stufo di spiccare il volo a passo di lumaca, ero stufo di essere buono per il re e cattivo per la regina, ero stufo che l’acqua cheta dei miei anni corrodesse i ponti della mia vita, ero stufo di fasciarmi la testa per paura che mi tirassero via la sedia da sotto il culo e che soprattutto e prima di tutto e alla fine di tutto ero stufo di lui che in tre anni che abitava nel quartiere non era mai venuto a bere al mio locale. Allora lui mi portò sul suo balcone e mise lenti oscurate sul suo cannocchiale, lo puntò verso il sole e mi disse chinati a guardarlo, vedi come è puro, li uno come te non ci arriverà mai. E io aprii la porta del cielo e mi trovai in estasi e vidi un trono e il sole ci stava seduto sopra e aveva il colore di un diaspro dell’Arkansas con venature di cornalina, e le fiamme intorno alla sua sfera erano tagliate via da una mascherina applicata alla lente come quando Cecil B. De Mille aveva diviso il Mar Rosso, aveva chiamato gli angeli e gli aveva dato i compiti a casa e aveva detto a te un paio d’ali nuove, a te una vestina su misura, e sul corpo del sole c’era una macchia che sembrava l’isola di Cuba ma tutto insieme era un mare di fiamme lisce come l’olio e ogni fiamma era una metafora che aspettava il momento in cui il peso che si portava dentro l’avrebbe fatta cadere sulla terra a raddoppiarsi in un corpo qualunque che per tutta la vita l’avrebbe chiamata la sua anima, la sua tenera anima inquieta, la sua piccola anima vagabonda e pellegrina finita a mordere la polvere in fondo al nostro mare di guai.