IL ROSSO E IL NERO
anno 3, numero 7, aprile 1994
racconti brevi, pp. 8-11

Luigi Amendola

Trenta, dodici, settantadue

   Di tutti i giorni belli dell’anno, Umberto preferisce il lunedì dell’angelo, pasquetta. Gli piace la gita fuori porta con la figlia e il nipotino, le formiche nel pane, la fila del ritorno sull’autostrada e poi cadere a peso morto sul letto. Ama il presagio d’estate racchiuso in quel giorno, il primo sole, il ricambio di sangue nelle vene, ieri come oggi. Da vedovo non è bello vivere, anche se si sente coccolato dalla figlia, padrone del tempo, ed ha scelto anche di non fare il pensionato, ma continuare a consegnare lettere, cartoline e pacchi, come fa da quarant’anni. Però un desiderio di vita diversa ce l’ha Umberto, e punta tutto su quel terno secco da trent’anni: 30, 12, 72. Prima o poi dovrà uscire, si ripete.
   Il fatto è che la borsona da postino gli pesa un poco, ma prova tanta tristezza nel vedere i suoi coetanei incollati ad una panchina con lo sguardo perso, o allineati come bocce al circolo parrocchiale. Preferisce portare saluti da Rimini, baci dalla Francia e buste istoriate di cuoricini ai ragazzi; ama meno i biglietti listati a lutto e le buste intestate avvocato tale, studio legale tal’altro. Ma tant’e, la vita, si ripete Umberto, è bella perché è varia: si nasce e si cerca di fare più cose possibili prima che arrivi la vecchia con la falce, l’importante è agitarsi, combattere la tristezza. Se avessi tanti soldi, dice perdendosi in una nuvola rosa, farei questo o quest’altro. E continua a giocare trenta, dodici, settantadue.
   Certe sere d’inverno, Umberto se ne va al Cinodromo, alle corse dei cani, e fa qualche puntata tanto per dire alla Fortuna eccomi, sono sempre pronto, o forse solo per lasciarsi prendere dalle luci, dalle grida, dalla corsa cieca dei levrieri dietro al finto coniglio, nel finto entusiasmo che lega tante solitudini al destino di una sera. Umberto non vince mai, ma incontra gli amici del quartiere e impara le ultime novità: la moglie del lattaio che fila col droghiere, il figlio del calzolaio scalzo, gli impiegati chiusi nelle grisaglie, la benedizione pasquale.
   La domenica, alle undici, Umberto va a messa quando ancora nella Basilica si sente l’eco di boy-scout, aspiranti e chierichetti che alzano le loro voci bianche fino alla cupola e la superano, davvero arrivano al cielo. Forse Dio ascolta solo loro, perché i vecchi non hanno voce, non hanno energia e quel poco che hanno la conservano per qualche occasione… Perdonami, Signore, si pente Umberto, se faccio questi pensieri nella tua casa, ma la vecchiaia, lo sai, rende egoisti, si fanno i conti con quel che resta, i numeri impazziscono, non c’è tempo per i rimpianti. A pranzo va da sua figlia; il nipotino gli dice “nonno, raccontami quella storia di guerra”. Umberto non vorrebbe, anche se ama suo nipote, si sente un po’ reduce e un po’ ebete a raccontare sempre le stesse cose. Questo dovrebbe farlo una nonna, se fosse in vita. I nonni non raccontano, mostrano; portano i nipotini su una collina e aprendo il braccio a ventaglio dicono “Ecco, vedi, questo è il mondo”. Così devono fare i nonni, indicare la vita, tracciare il segno, cucire i sogni, niente favole, niente fantasia, la vita, semplicemente. A sera Umberto torna a casa, si scalda un po’ di latte, cuce un calzino rotto ed alla luce fioca della lampadina da venticinque candele s’addormenta leggendo il Bollettino di sant’ Antonio.
   Così Umberto si avvia alle soglie della sua sessantacinquesima primavera; così in un sabato di marzo sente snocciolare trenta, dodici e settantadue dalla voce metallica di una radio, ed il suo cuore resiste a stento. Terno secco. Ha vinto una cifra meravigliosa, un numero incredibile nel firmamento aritmetico; e come nei sogni tante volte sognati, Umberto va alla finestra e svuota la sua borsona da postino sulla strada. È un fioccare lento di caro amico, abbracci e baci, gradita vostra, seconda convocazione, post scriptum, ciao mamma. La posta si va posare sui panni stesi e sulle piante, sui marciapiedi, sulle auto tra le mani di increduli passanti che alzano gli occhi verso il presunto folle.
   Umberto ha le idee chiare sulla vincita: qualche soldo in beneficenza, qualche regalo alla figlia e al nipote, tutto il resto in bellavita. Entra in un autosalone e dice “quella”, poi in una jeanseria del centro “quello, quello, e quello”. Vestito da ventenne, dentro la spider rossa, Umberto sembra un ragazzo colto da incipiente calvizie, in cerca dei coetanei. Li trova al Titanic, discoteca periferica dove tanti giovani si riuniscono in frenetiche danze. Della sua giovinezza, Umberto ricorda la polvere acre delle strade, scorci cupi di macerie e frutti acerbi rubati per fame; non ha che rari lampi dei balli da ventenne, l’impacciata corte alle ragazze, il monito eterno “se i giovani sapessero ed i vecchi potessero”. Ora lui può, regala banconote all’ingresso della discoteca, alla guardarobiera, al barista, entra sulla pista e disegna goffi passi di danza. Sei simpatico, dice una ragazza. Ride, è molto carina. Ti presento i miei amici. Lo chiamano nonno Umberto, escono tutti insieme e vanno incontro all’alba sulla spider rossa aperta sul cielo, mentre le luci delle insegne entrano ed escono dallo specchietto dell’auto.
   Il giorno dopo ed altri giorni ancora, Umberto è li a sudare la sua razione quotidiana di vita, fa coppia fissa con la ragazza carina della prima sera: si chiama Stella e non ha mai conosciuto suo padre. Le regala vestiti e cianfrusaglie da bigiotteria, lei è contenta, dice “che fico!” ad ogni nuovo dono, poi corre dalle compagne a fare la ruota, ad incorniciarsi nelle moine di donna.
   Un giorno arriva la mamma di Stella e fa “mia figlia la devi lasciar perdere, non è roba per te”, lui balbetta qualcosa, dice ”io le voglio bene”, ma non come un padre, pensa. Appare anche sua figlia ed urla “papà, sei impazzito, se ci fosse ancora la mamma!”, lui china la testa e sussurra “che c’è di male? ” e la sua domanda vaga incerta nella strada, s’incunea tra le macchine parcheggiate, nei semafori lampeggianti, nei volti della gente che incomincia a ballare un tango in mezzo alla strada. Prorio quando la luna ha iniziato a dondolare al ritmo di quella musica, Umberto si sveglia nella sua casa a fianco di Stella. Nessuno minaccia la favola, nessuno chiede conto delle stranezze, né mette in discussione le azioni di chi può pagare la felicità propria.
   Umberto e Stella sopravvivono tutta l’estate, poi l’autunno; si fanno regalini proprio come fidanzati. D’inverno vanno al mare; amano stare corpo a cuore contro lo sfondo inquieto dell’acqua, dentro quei voli radenti di gabbiani, quegli acuti ad ogni preda mancata; la salsedine secca le labbra, ma presto bocca a bocca tornano umide.
   Stella non sa se Umberto sia un surrogato di padre o un vero innamorato, come lui non ha mai conosciuto tutta la giovinezza che sta dentro Stella, non l’ha mai sfiorata, non l’avrebbe mai potuta toccare senza quella vincita.
   È dicembre, il mese dei regali e della neve, del bambino nella mangiatoia, dell’angelo che dice gloria agli uomini di buona volontà. Umberto ne ha tanta di volontà a continuare quella vita, ma certe volte sente il respiro scivolargli via dal corpo come una camicia ed allora pensa vorrei morire così abbracciato a lei, due cose in una, portarmi nell’eternità il soffio lieve della sua voce e questo profumo di viola della pelle. Stella lo guarda e ride, e dietro al suo sorriso lui si perde; non ha più cognizione di quello che era e che è: la moglie morta, la figlia e il nipotino, il quartiere e le nuvole, le finestre che si aprono come lembi di buste sulla strada. Le buste, migliaia e migliaia consegnate in quarant’anni di scale senza capire che la vita era dentro queste braccia di ragazza. Capirlo proprio ora che il respiro scivola via dal corpo proprio come una camicia, sempre più lentamente, in questo trenta dicembre millenovecentosettantadue.