IL ROSSO E IL NERO
anno 3, numero 7, aprile 1994
poesia e critica, pp. 76-78
Commento critico
Miro Renzaglia
La poetica del pre-sentimento
Cogliere in un testo il fattore che lo survolti in opera d’arte non è atto che un lettore possa compiere senza il rischio di una sfida alla propria intelligenza e alla possibilità che, nonostante ogni sforzo, quella specificità risulti alla fine introvabile, perché inesistente.
D’altra parte, se vogliamo distinguere un’opera d’arte testuale da un testo meramente letterario bisogna accettare la sfida che la scrittura propone e farsi in qualche modo con-vincere della (e dalla) differenza. Infatti, a fronte delle migliaia di versi pubblicati ogni anno, quelli che possono vantare un ascendente che non li riduca a mera letteratura sono veramente pochi. Scrivere per la grande, piccola o media industria culturale è cosa diversa dall’impegnare ogni energia intellettuale, emotiva e fisica per cercare quell’unica combinazione verbale che schiuda il verso all’opera.
Di Pietro Altieri ammiro questa seconda opzione, psico ed ontologica, nei confronti della propria scrittura. E se questo, in genere, non garantisce il risultato della ricerca – non esistono ricette esclusive e la più buona intenzione può essere vanificata dall’inadeguatezza al compito che ci si è dati ‒, nel suo caso l’impegno lo ripaga con testi che più volte trascendono il prodotto letterario.
Per introdurre alla sua poesia credo comunque opportuno dover definire alcuni concetti fin qui usati in maniera assiomatica. Credo, cioè, di dover dare in qualche modo ragione di ciò che intendo per opera d’arte testuale e in cosa consista secondo me la differenza fra questa e un testo letterario.
Se nella classificazione di letteratura rientra tutto ciò che è scritto con funzioni di comunicazione, di informazione o di intrattenimento, un’opera d’arte se ne discosta perché, invece, non vuole comunicare nulla, non informa di niente e, soprattutto, anziché in-trattenere (=tenere dentro) vuole dis-trarre (=trarre fuori).
Ma trarre fuori che, da che cosa?
Per rispondere a questa ulteriore domanda mi muoverò ricorrendo alla sintesi di due definizioni che mi offrono filosofi dal pensiero pressoché antitetico: Wittgenstein e Heidegger. Per il primo “il mondo è tutto ciò che accade”, per il secondo “l’opera d’arte è l’esposizione di un mondo”. Sintetizzando i due concetti avremo allora che l’opera d’arte è l’esposizione di tutto ciò che accade. Ma ciò che accade, accade nella storia, e la realtà storica, in quanto tale, non è un’opera d’arte chè, altrimenti, non avremmo alcun bisogno di distinguere fra arte e storia: ogni fatto, in quanto tale, sarebbe un’opera d’arte. E se, come riteneva Mallarmé, tutto ciò che accade, accade per finire in un libro, forse l’espressione più alta di arte sarebbe contenuta nei manuali di storia. Invece, noi sappiamo distinguere fra una pagina di storia e una pagina che contiene un’opera d’arte testuale. E se sappiamo fare questa distinzione deve esserci, evidentemente, un fattore che fa la differenza.
Ho detto prima che un’opera d’arte non comunica nulla. Ebbene, ho volutamente forzato il concetto: in realtà la poesia (=opera d’arte testuale) comunica se stessa. La poesia è al tempo stesso oggetto e mezzo della comunicazione. E una comunicazione immediata. È ciò che accade e, con-testualmente, l’in-formazione dell’accadimento. È il fatto stesso che intende narrare e la discrittura del fatto pre-testuale. Dis-trae l’accadere di se stessa, lo trae fuori, cioè, da quella sfera che chiamo del pre-sentimento (la sfera alogica che è prima del sentimento), e lì, in quanto “fatto-in-sè”, lo rimanda. La letteratura usa la parola per raccontare i fatti, l’opera d’arte per crearli, creando se stessa. E in ciò, esattamente, consiste, a mio modo di vedere, la differenza fra i due enti.
Pietro Altieri non racconta “fatti” ma, se ci è consentito lo stereotipo linguistico, li fa. E, per farli, mastica l’evento storico (personale o collettivo, autobiografico o eterobiografico, reale o virtuale) fino a liberare il sapore del suo involucro. Quel sapore è il fattore specifico, tutto biologico e terrestre, che genera la poesia e che ho inteso definire pre-sentimento (scritto così per sottolineare la duplice accezione di zona psichica posta fuori e prima del sentimento e di intuizione pura). L’evento, in quanto tale, è risputato fuori dalla pagina.
Una poetica del pre-sentimento è zona franca per una ricerca libera tanto da ricatto algolagnico delle poetiche emotive, che dalle frigide sperimentazioni linguistiche di una velleitaria ed attardata neo neo avanguardia e, nella mia accezione generale e in riferimento alla poesia di Altieri in particolare, non ha ovviamente nulla a che vedere con la fantomatica apertura del “terzo occhio” su avvenimenti futuri. Anche la sua adesione ad una concezione circolare del tempo, infatti, non fa cadere Altieri nell’errore tecnico commesso per troppo amor fati da Nietzsche nella formulazione dell’eterno ritorno dell’identico che, in questi termini, ammetterebbe in qualche misura il verificarsi di fenomeni preveggenti. Altieri sa bene che le lancette, ritornate all’esatto punto di partenza non segneranno mai più la stessa ora e che la conclusione del giro del quadrante apre ad un tempo del tutto nuovo e imprevedibile. Per questo, nonostante molta della sua poesia alluda a qualche Medio Evo prossimo venturo, non è avvertibile nei suoi versi l’ormai intollerabile timbro vaticinante. La realtà virtuale, che pure l’appassiona, ha la mera funzione di pre-testo all’unico accadimento che riguardi la poesia: se stessa.
A questa, e solo a questa, tendono i lampeggiamenti sinestetici all’orizzonte del vuoto; l’incalzare di un ritmo ai limiti dell’ossessione; le ellissi brucianti che rendono la sua tendenza aforistica accettabile per indefinitezza e quella particolare capacità di legare le parole con sottili rimandi sillabici che verso dopo verso, tessono l’opera.