IL ROSSO E IL NERO
anno 3, numero 7, aprile 1994
racconti brevi, pp. 12-16
Cesare Maoli
Il timone bianco
Nel 1957, di fronte alla seconda stazione ferroviaria della città, si potevano ancora vedere due grandi elci e un giardinetto pubblico. I vialetti di ghiaia erano delimitati da siepi basse e ben potate, dal fogliame verde scuro. Nessuna di queste stradine era diritta, e nessuna ne incrociava un’altra formando un angolo retto, come avviene di norma. Le siepi erano in curva, e seguivano fedelmente il contorno delle aiuole. Quindi ogni aiuola era racchiusa entro il perimetro di una siepe curvilinea, e ogni segmento di vialetto correva esattamente attorno ad un’aiuola. Le aiuole era quattro in tutto; su due di esse, alle opposte estremità del giardino, gli elci facevano ombra con la loro rispettabile chioma.
A Celestino non piaceva troppo giocare a nascondersi dietro le siepi in curva. Giocare per ore e ore senza smettere, come avrebbe voluto suo padre per farlo irrobustire, era veramente impossibile per lui. Dopo una mezz’ora si sentiva già stufo. Per cambiare, provava a prendere la bicicletta (era molto agile, e riusciva – per esempio – a sfiorare una buca sulla sinistra e un albero sulla destra senza rallentare). Oppure, a correre con gli altri bambini attorno alle aiuole, ma per fare una gara vera e propria, senza che ci fosse bisogno di stare addosso al tronco di un albero, o di acquattarsi sotto una panchina.
A primavera, cioè nel periodo in cui suo padre lo accompagnava ai giardinetti, Celestino era vestito con una certa cura. Portava scarpe, camicie, maglioncini e calzoncini sempre piuttosto eleganti. Bisognava dunque giocare stando attenti a non sciuparli.
“Ma come posso giocare a tana senza rovinarmi le scarpe? Allora dovrei solo camminare avanti e indietro per il vialetto come fai tu” diceva Celestino a suo padre.
No, invece: secondo suo padre si poteva correre e non rovinare le scarpe, saltare giù dalla panchina ed evitare di scucirsi i calzoni, e soprattutto si poteva giocare, saltare e correre senza sudare, o almeno senza sudare tanto da rischiare di prendersi un malanno e di inzuppare il maglioncino, che poi si sarebbe dovuto lavare una volta di più.
“Papà doveva essere un fenomeno, da piccolo. Doveva sapere già molte cose che io non capisco” pensava Celestino. E gli sembrava strano che proprio lui, così serio e severo, quell’anno fosse entrato in confidenza con un tipo come Checco Cialone.
Checco faceva di mestiere il tassista abusivo. Una sera aveva còlto in flagrante Celestino mentre riempiva di pipì una ruota della sua vecchia Opel: vecchia già nel 1957. La macchina era parcheggiata lungo un marciapiede coperto da una pensilina, su un lato dell’edificio principale della stazione. Il babbo era andato a comprare il giornale all’edicola, che si trovava invece all’interno, subito prima dei binari. Senza di lui, come attraversare il piazzale per arrivare ai giardinetti? E d’altronde come resistere?
Quell’uomo, arrivandogli alle spalle a lunghi passi, l’aveva spaventato.
“Sei una lenza, eh?” gli aveva detto, mettendogli una grossa mano sulla spalla destra e tirando un po’, per farlo rigirare. Lui aveva appena finito di riabbottonarsi. “Hai preso la ruota della macchina mia per un vespasiano?”
Celestino aveva creduto di farla franca, perché quel marciapiede era completamente deserto, e fin dove lui poteva guardare non c’era nessuno ad aspettare l’autobus (al capolinea dell’autobus), e non c’era nessun movimento di gente, e nessun altro taxi all’infuori di quella grossa macchina bianca e blu.
”Non l’ho fatto apposta, aspettavo che venisse mio padre” e infatti suo padre era subito arrivato, e aveva subito cominciato a scusarsi per quel che era successo.
”Quante chiacchiere! E strano che papà si faccia attaccare bottoni da uno che non conosce” pensava Celestino. Ma i due s’erano messi a parlare di scuola, dei figli che andavano a scuola (Celestino ci sarebbe andato per la prima volta fra pochi mesi, a ottobre); poi Checco aveva raccontato dell’operazione di sua moglie, che stava per essere dimessa dall’ospedale.
“Sarà giovane o vecchia?” pensava il bambino cercando d’immaginarsela: ma non ci riusciva proprio. D’altra parte, lui quanti anni poteva avere? I suoi capelli erano biondi, color tabacco, e abbastanza folti; ma sulla faccia gli spuntavano dei peli bianchi, perché evidentemente non aveva la pazienza di farsi la barba tutti i giorni. E la sua grande pancia, molto larga ma non tanto sporgente, da quanti anni gli era cresciuta? Una grande pancia color crema: perché Checco Cialone, anche se si era soltanto nella prima settimana dopo Pasqua, già non portava vestiti sopra la sua camiciola con le maniche corte.
Due mesi più tardi, verso la fine di giugno, le chiacchiere tra il babbo e Checco erano diventate un’abitudine. Naturalmente, Celestino apriva bocca solo se uno dei due gli chiedeva qualcosa. Spesso suo padre proponeva di entrare nel bar a Celestino piacevano le paste al cioccolato, mentre da bere non voleva mai niente. Nonostante la stagione estiva, si vedevano arrivare dai binari solo poche persone, che andavano regolarmente a formare piccoli gruppetti al capolinea dell’autobus. Nessuno prendeva una macchina per tornare a casa.
“Checco non si muove mai: ogni volta che veniamo qui, lui c’è sempre. Pare che non abbia niente da fare per tutta la giornata. Ma allora quando lavorerà?” pensava Celestino. Già più di una volta Checco li aveva invitati a fare un giro in macchina con lui. La macchina era sempre tutta lustra e pulita, e a starle vicino odorava leggermente di petrolio. Ma Celestino non avendo mai sentito il rumore di quel motore, non aveva mai visto Checco montare e allontanarsi su per la strada in salita che usciva dal piazzale della stazione. Non poteva trattarsi addirittura di una macchina finta, senza motore?
Un pomeriggio, suo padre gli dette il permesso di andare. Andare a fare un giro in macchina con il “signor Cialone”. Lui li avrebbe aspettati al bar: aveva bisogno di un caffe forte per farsi passare il mal di testa. Checco lo rassicurò: “Facciamo appena appena un giretto attorno alla città universitaria. Non si preoccupi: fra un quarto d’ora glielo riporto qua.” Sembrava contento. Prima fece salire Celestino, aprendogli la portiera di destra e richiudendola dopo aver fatto scattare la sicura. Poi si mise al volante e partirono.
La macchina faceva un rumore un po’ buffo, come il brontolio di una pentola piena di patate.
”Questa qui ha un motore diesel” disse Checco.
“E che significa diesel?” domandò Celestino.
”Adesso ci vorrebbe troppo tempo per spiegartelo” rispose lui.
Intanto, guardavano entrambi davanti a sé con la faccia annoiata, fermi in mezzo a un incrocio col semaforo rosso. Passò un tram pieno zeppo di gente, e dietro al tram veniva un carabiniere in motocicletta, con il casco di cuoio in testa.
”Vuoi provare come si fa a guidare la macchina?” disse Checco Cialone.
Celestino credeva di non aver capito bene.
“Sì, è facile: non aver paura. Devi sederti qui davanti e girare il volante insieme a me. A tutto il resto ci penso io”.
Il semaforo era ancora rosso, perciò Checco ebbe tutto il tempo di sollevare di peso Celestino e metterlo a sedere al posto di guida, sopra le sue ginocchia. Il volante, tutto bianco e larghissimo, sembrava a Celestino il timone di una nave, ma di una nave antica e con molte vele, come quella del capitano Achab nel film sulle balene, che era uno dei suoi film preferiti.
Checco dette gas, e Celestino s’accorse di tenere già tutte e due le mani appoggiate sul cerchio bianco. Sentiva la voce di Checco che gli diceva: “Bravo! Lo vedi com’è facile? Segui sempre il nero della strada e non c’è pericolo che ti sbagli.” E intanto lo faceva star comodo sulla sua pancia, che era più morbida e calda di un letto.
Checco Cialone si sentiva soddisfatto e sorrideva, ma Celestino non poteva vederlo. Guidavano a quattro mani: la vecchia Opel bicolore svoltava a destra e a sinistra, brontolando un po’ di più o un po’ di meno a seconda della velocità. A poco a poco, Celestino si andava abituando a quella situazione così straordinaria. Dopotutto, aveva quasi la sensazione di averla vissuta altre volte. Il pancione di Checco era comodissimo: non c’era nessun motivo di avere paura. La macchina andava a meraviglia e non dava scosse: avanzava lenta e sicura, proprio come una nave in un mare molto tranquillo.
Dovevano essere in giro da un pezzo, oramai: quando sarebbero tornati verso la stazione? Si erano lasciati alle spalle l’università, e da tutte le parti comparivano muri di villini, cancelli di piccoli parchi, strade alberate con casette graziose e quasi nessun negozio. Un quartiere lontano, silenzioso e sconosciuto: e piuttosto grande, a quel che si poteva capire. Ma Celestino badava solo a seguire il nero della strada: tutto il resto gli era indifferente. Il viaggio filava via liscio, e lui era felice di essere li alla guida, anche se chi guidava veramente era un altro, un mago del volante, un timoniere.
Quando si vide tagliare la strada da una piccola spider nera, Checco Cialone schiacciò il pedale del freno con tutta la forza, e obbedendo a un altro riflesso piegò un braccio per trattenere Celestino e impedire che battesse la testa. Appena in tempo. Ma lui, come succede ai bambini, si era addormentato, e adesso dormiva così bene che non si accorse di nulla.