IL ROSSO E IL NERO
anno 3, numero 7, aprile 1994
racconti brevi, pp. 17-21


Tommaso Di Francesco

Il libro perso

I

   Un libro perso è come una persona. Ho perso un libro e l’ho anche cercato lungamente come un disperato. In alcune ore del giorno sembrava davvero che mi mancasse qualcosa di vitale come il pane, un vestito o un pezzo della mia pelle. Il libro è Memorie di un seminarista di A. Nikitin, ma non ricordo nient’altro su chi fosse realmente l’autore, soltanto che – c’era proprio scritto – quello non era certo un testo autobiografico. Nel racconto-lungo l’autore descriveva la crisi di un giovane seminarista tornato d’estate, dal suo istituto, nel villaggio dove era nato. Così forte era la sua sicurezza nel tepore dello studio e indistruttibili le convinzioni e le certezze nel suo dio e i suoi saperi che, arrivando, vedeva come in una esaltazione mistica l’intero luogo della sua origine. Una sorta di predestinazione, ma tutta personale, trasfigurava quelle case e quelle vallate nella culla naturale di una nuova, potente felicità.
   Quello era il villaggio di suo padre e sua madre che avevano fatto tanti sacrifici per mandarlo in seminario… tanti sacrifici. Ma ecco che, nel percorso della memoria e nel tratto breve degli occhi, alla fine quello che restava era lo squallore del presente. Sì, tornare era stato come rimanere immobili, scoprire dentro la formula delle preghiere il presente, solo il presente, un tempo, questo, che non aveva mai avuto alcun fascino per lui. Il villaggio così, pian piano, gli appariva sempre più per quello che era: un misero, casuale ed insignificante agglomerato di esseri umani, di poveri, di contadini. E questa sua disperazione nel non sapere compensare il respiro lungo che aveva dentro con la realtà non trovava in quel luogo né interlocutori, né legami. Veniva solo silenzio dai dialoghi strumentali che cercava di tessere con le persone, le ombre che gli stavano intorno. Finché non incontrò una donna bellissima, una suora di villaggio giovane e dolcissima, disperata quanto lui nel non trovare nella crudezza del quotidiano la stessa sicurezza e protezione divine. E i due si innamoravano e, credo di ricordare, si baciavano a conclusione di una scena incerta e indefinibile in cui avevano tentato di ricordarsi, reciprocamente, il sentimento struggente di protezione che avevano provato e provavano studiando le sacre scritture. Intorno l’aria quasi senza peso e responsabilità delle giovani vite, anche inconsapevoli, destinate ad un rapporto divino, un tratto di luce senza fine sui loro giorni, una perenne adolescenza.

II

   Quell’estate, l’ultima estate prima che il paese, le città, i cuori e le carni venissero dilaniate, sdraiato e perso su una spiaggia deserta della costa jugoslava, sullo stesso mio scoglio – non me n’ero accorto tanto era forte il biancore delle carni – stava un giovane piccolo, tozzo, dall’aria di paggetto, con un taglio uniforme di capelli e una larga chierica, una luna di cute che gli sporgeva come un vulcano mica tanto cheto tra i ciuffi castani. Allungato sulla pancia, per quanti sforzi nascosti facessi per vederlo in volto, dava proprio l’impressione di volersi nascondere. Mi comunicava una strana sensazione perché, insieme allo sforzo di non farsi riconoscere, sembrava anche non vedermi: lui era solo con se stesso, io per lui non c’ero, c’era lo scoglio e basta e un mare grosso che spruzzava schiuma sui nostri piedi penzoloni dallo scoglio.
   Per due volte si era alzato ed era entrato in acqua, senza mai girarsi dalla mia parte o guardare dietro di sé: Dalla posizione in cui ero non potevo vederlo in volto. Rimaneva fra le onde sempre girato di spalle e camminando all’indietro ritornava sui suoi passi e riguadagnava lo scoglio. II mistero però mi si sarebbe presto rivelato. Sentii prima leggero, confuso col messaggio monotono delle cicale che il silenzio generale portava vicinissimo, poi sempre più distinto e forte un pianto secco e nervoso. Era il giovane che, con un libro nero aperto in mano, piangeva piegato su se stesso, sfogliando a tratti le pagine bianche bordate di rosso che aveva, mi sembrò allora, disperse sulle mani come fossero un largo fazzoletto. Solo in quel momento potei notare il suo sguardo perso di ragazzo, la sua disperazione d’età, vera e incontaminata. Il suo inferno usciva proprio dalle pagine del grande libro nero. Ecco che cos’era quell’oggetto di dolore: una Bibbia finemente rilegata di cuoio nero come solo i preti hanno, un breviario di penitenze e manuali per confessioni, la radice raccontata del divino. E il giovane cercava, sfogliava nervoso, trovava, perdeva passi, paragrafi, versetti. E più approfondiva nella memoria il testo, più il dolore diventava forte e il pianto alto. Quella faccia da ragazzino doveva essere quella di un seminarista.

III

   Quello che mi aveva appassionato del romanzo di Nikitin erano i dialoghi. La sapienza di quella scrittura consisteva proprio in questo: l’autore aveva consegnato al lettore colloqui piani, scontati, letterari, nella parte iniziale della trama, quando tutto appariva normale e il protagonista ripassava davanti a sé, come a memoria, la storia del suo villaggio, riscoprendo l’esistenza delle persone, godendo, in poche parole, della sua nuova alterità. I dialoghi diventavano invece irrazionali, pieni di scatti, di parole dette a mezza bocca e piene di enfasi, in una atmosfera cupa, senza possibilità di respiro, fino a ridursi spesso a soliloqui, nella seconda parte del romanzo quando il protagonista, il giovane seminarista, cominciava a rendersi conto d’essere perso, di non ritrovare più alcuna corrispondenza, né umana né divina, tra la sua antica condizione di adolescente amato e innamorato del villaggio paterno e la sua nuova realtà, istituzionale, di giovane prete. Con la qualità di questi dialoghi, del resto, prendeva corpo la sua figura che, altrimenti, sarebbe risultata vacua e priva di qualsiasi segnale particolare. Era l’autore che aveva ideato i dialoghi, ma era anche il seminarista che andava inventando di sana pianta i suoi colloqui, alla ricerca di inesistenti interlocutori e passioni. Gli unici colori descritti erano, ricordo, il nero delle vesti contadine bianco-lusso della camicia da seminarista, confuso nel bianco del velo monacale della giovane suora di villaggio, l’unica ad essere incantata dalla solitudine recente del giovane, così eguale alla sua.

IV

   Ad un certo punto i singhiozzi smozzicati del giovane nudo poco distante da me, accovacciato sul mio stesso largo scoglio, finirono d’incanto e cominciò un lento mugolio, quasi un codice di linguaggio. Stavolta vedevo abbastanza bene quello che stava facendo. Appoggiato col gomito alla pietra, continuava distrattamente a sfogliare il libro nero, finché non cominciò a masturbarsi guardando il cielo e rimanendo pancia all’aria.
   Fu un tutt’uno: quello girarsi corrispose alla ripresa del pianto a mezza bocca. Ad intervalli abbandonava il sesso e con le mani correva furente alla Bibbia di pelle bruciata al sole. Poi urlò forte da far paura, ricordo che feci il gesto di ritrarmi. Lo vidi correre verso il mare e gettarsi seduto dentro l’acqua che spumeggiava da tutte le parti, rimanendo come inebetito. Allora, davvero come un bambino, cominciò a battere i pugni contro la schiuma che lo attorcigliava. Più l’acqua tornava verso di lui nella sua temporalità naturale, più lui prendeva a pugni le onde, battendo con le mani a martello, quasi contro se stesso.
   Quello era un pugilato, era un gioco, una pesca, un lasciarsi vincere.

V

   Credo che il romanzo di Nikitin mi resterà dentro come una perla della capacità di raccontare. Anche se ora non ricordo nemmeno più come finiva: se il giovane seminarista riusciva alla fine a fuggire dal villaggio con la suora, oppure se restava, eguale alle altre ombre, a spartire lo spazio da cui pure voleva, ormai senza tregua, allontanarsi.
   E non so nemmeno se riuscirò più a ritrovarlo.