IL ROSSO E IL NERO
anno 3, numero 7, aprile 1994
poesia e critica, pp. 68-73

Pietro Altieri
“Crepuscolo”, “Fenomenologia del forse”, “Nevermore”

Crepuscolo

I

Equidistanti da tutto
ciò che respira e pesa:
steli di futuro.
Nessun’ala li sfiora.

Obliquo
si disfa tra le dita,
corroso ai bordi:
il sonno.

Vanno
(senza saperlo)
sagome quasi-immobili
nel sistema sospeso del crepuscolo.

Ascolta:
questo silenzio verticale e ubiquo
non ha pause né porte.

Ascolta,
solo il colore calmo si spande
sulla terra irrorata.
L’impassibile assedio dei fiori
alla curva del grido,
là dove il gesto s’arresta.

Scava
nella neve la vena
che unisce i mondi.
L’epilogo epilettico o la pianta
che oscuramente nasce
e si protende
muta verso la gola prosciugata.

La parola che lenta
brucia senza luce
nel cavo di una mente
non-euclidea

II

“Vengono insieme, sempre,
le frasi mai dette.”

Sillabe disperse si assottigliano.
Ciò che saremo:
smagnetizzato suono.

Occhi istantanei che la notte indossa.
Mani, senza sentieri.

Angoli fitti dove il sole assilla.
Anche loro vennero per dire
e tornarono bianchi.”

Non la senti
franare sul fondo della mente
dove rimbalza e cade:
l’onda
che fluorescente oscilla
sulla fronte divisa.
E non risponde.

Cade
tra l’ombra e il viso
il riflesso del fiato che ti sfugge
lungo bianche terrazze di stupore.

Osserva:
labbra dove il silenzio cresce
sanno il segreto dell’ora.

Lo zenit azzurro della neve,
piombata in noi,
da nessun dove.
Tra le fessure del vivere
ciò che si cela o tace:
fiore, fiume, nome.

Fenomenologia del forse

Eravamo piegati, ancora,
agli angoli acuti del non-so
né dove né quando –
la frase incrinata,
imbiancata ai poli.

Sapevi, tu si che lo sapevi,
l’istante esatto
in cui qualcuno venne,
o se ne andò,
dovunque.

Certo che no,
non so volare,
anche se l’aria
è più vetro che vento, oggi.

Come l’urto di un treno
contro un corpo
impalpabile al tatto.

Le tempie bianche,
senza pietà né labbra.
Parole-vetro
rapprese ad ogni bocca.

Vedrai, i luoghi sono muri
che le dita percorrono
finché non cedono.

Cercheranno ragioni,
motivi ad ogni gesto.
Non è questo che serve,
e tu lo sai.

Anche i cani dicono:
la tua infanzia infranta,
le cose che non tocchi.
A Nord d’ogni neve.

Allora, forse.

Nevermore

I

Il granito del dolore
non bussa più.
Fermo, come un’eclissi,
tra futuro e cielo.

Poli magnetici
bruciano il respiro:
la luce indecifrabile

quando ogni gesto
si frammenta o muore,
guscio divelto
da lingue sconosciute.

La terra inganna.
Il fiore uccide.

II

Incandescenza azzurra:
gravita insonne
sui crani rasati dell’ansia.

Rasoiate di rabbia
nell’estate dei nomi spenti.
Cifre di sabbia in dissolvenze quiete.
Incalzano le acque.
Senza requie.
Il fuoco
alza lingue di nere lune
sul sangue delle danze.

Avevo l’alba in mano,
ma non cantava più.

III

Ellissi di voli
tramano iperboli lente
in un circuito cieco
occhio senza uscita.

Frana dentro il silenzio
fino all’osso.

Come un diaframma
tra futuro e cielo:
l’ubiquità dell’acqua.

Sulla vetta dell’iceberg
il vento non ha caverne.