IL ROSSO E IL NERO
anno 3, numero 7, aprile 1994
saggi: il Tragico, pp. 33-40
Anna Maria Farabbi
Cinque variazioni sul tema del tragico
I. Doppiezza della tragedia. Attraversamento e testimonianza
Quando l’altra sera entrai nel portone n. 25 di P.za di Spagna, sentivo già il mio solito malessere negli occhi: una leggera infiammazione al nervo ottico che emetteva dolore come un filo elettrico scoperto e crepitante dentro la polpa della mia testa, nel mio cervello. Erano dieci ore consecutive che stavo camminando. Avevo percorso piede per piede, occhio per occhio, orecchio per orecchio, alcune fibre della formicolante e labirintica ragnatela romana. Ero stanca, infreddolita, con lo stomaco secco per non avere ancora mangiato. Suonai il campanello del Keats and Shelley’s Memorial House alle 17 in punto. E dopo dieci minuti, automaticamente, intorpidita nel bozzolo della mia stanchezza, mi trovai nello stanzino in cui Keats mori. Gironzolando svogliatamente con lo sguardo tra i fogliettini ingialliti, incubati, nella bacheca, all’improvviso, con lo stesso automatismo, mi si è spalancato l’occhio, cuore e cervello, sul brevissimo autografo di Joseph Savern. Sotto al ritratto fatto all’amico morente, vegliato da lui in quell’ultima notte del 23.2.1821, Savern scrisse: “L’ho ritratto per il puro pretesto di mantenermi sveglio”. E con questa semplice catena di parole circoscrive la doppiezza della tragedia.
Due persone. Una davanti all’altra, alimentate dallo stesso cordone ombelicale entro cui gli impulsi della vita coincidono in intensità e frequenza con quelli della morte. Con ritmo estenuante e penetrante.
Nelle tempie di Keats, le scariche compiono un battito corrosivo, di irreversibile estinzione. In quelle di Savern, la morte oltre che rapinatrice è propulsiva, duellante, al punto da scatizzare l’ultimo grano di energia. Lo innesca. Gli infebbrisce la veglia del cervello e quello della sua mano certosina. Posso immaginare la fatica di Savern nel disciplinare l’attenzione cioè nel contrastare l’assopimento che è la dimenticanza del dolore cosmico. Quel dolore cosmico, dilagante e definitivo, stava ingoiando Keats. Nel suo corpo, esposto all’estremo, stava turbinando l’ultimo, tremendo, dialogo serrato.
Il fogliettino sgualcito tra le mani di Savern, quel pezzettino di carta, era ed è ancora, la confluenza della doppia tragedia: il ponte sacro iniziatico e mortale nel centro del quale divampa il crogiuolo, il cratere del buco nero. L’artista era lì – e c’è ancora – precisando e avvitando la sua esistenza dentro l’epifania della tragedia. Attraversandola in simbiosi con l’amico, ma avendo più di lui la possibilità e la capacità di testimoniarla. Non avrebbe mai potuto totalmente comunicare. Nessuno mai potrebbe farlo. Soprattutto di questo siamo imperfetti.
“L’ho ritratto per il puro pretesto di mantenermi sveglio”.
Dunque non aveva altro di uguale forza che l’arte per concentrarsi, per non spegnersi, per non morire di coscienza prima della morte del caro amico. L’arte, innanzitutto, come strumento di precisione esistenziale, con la punta rivolta interiormente. L’arte, dopo di tutto, come l’azione precisa che tramanda.
Finisco con i primi quattro fotogrammi del “Film” di Samuel Beckett:
1°: Zummata sulla palpebra chiusa dell’occhio (di B. Keaton). La pelle, con i suoi attraversamenti di rughe, piegature, piccoli rigonfiamenti e curvature, si estende come l’intero paesaggio fotografato. Vecchissimo e coprente. Coprente perché sotto di sé protegge e trattiene la capacità dell’occhio.
2°: La palpebra lentamente, faticosamente, si alza. E stoccata a metà da un quasi impercettibile raggio di luce.
3°: L’occhio è quasi intero. La palpebra si è ritirata quasi del tutto.
4°: Del tutto. Il raggio di luce raggiunge il centro dell’iride. O forse è l’occhio cosciente che gli è pienamente davanti, spalancato e consapevole.
II. La maternità della morte
C’è almeno una donna per tutti nella nostra vita. Ha una faccia ideale e per questo invalicabile o comunque non completamente valicabile. Si pone frontalmente, con l’attenzione del felino che punta durante la caccia.
Ovunque andassi, qualunque esperienza facessi, sui tavolini zoppi delle camere di affitto, congiunta a loro a studiare le carte, o sui marciapiedi impestati, mia madre era là. La sua faccia frontale, la sua sostanza nutrice e tragica, era sempre l’unica cruna dentro cui doveva infilarsi la mia identità. Sono cresciuta. Ed è cresciuta nella mia coscienza, la faccia di mia madre. Si è slargata diventando l’enorme metafora.
Sappiamo che l’origine della tragedia – greca – si compiva nel tempo di un giorno, in un brevissimo spazio, con l’azione intensa e rapidissima.
Penso all’origine di ogni tragedia. Dunque penso al parto.
Intendendo per tragedia la massima focalizzazione del pathos e della capacità umana di esprimerlo. Dunque penso al parto. Scelto e cosciente. Punto il dito nell’incrocio entro cui la morte e la vita si protendono entrambe con presenza reciproca.
Si è slargata a tal punto la faccia di mia madre che la sua sostanza, oggi, per me, incarna morte e vita. Identicamente. A secondo di come io mi disponga verso di lei e a prescindere dal mio amore testato e tastato.
Forse la notte è incinta. Ha in sé la luminosità e la composizione delle ombre del giorno successivo. E viceversa. Forse la morte ha in sé la micidiale gravidanza: il brevissimo e profondo rientro nell’intero buio e una seconda espulsione uterina. Indico “la morte” come la soglia del passaggio da una fase esistenziale all’altra ma anche il tempo dell’esalazione finale.
Forse non è un caso che il viaggio di Perseo passi per lì, per la caverna della Medusa, al di là dell’Oceano, dove comincia il regno della notte. Li nell’ “invalicabile” per gli esseri umani e per le deità giovani, poiché solo le Moire e le Graie dee più vecchie, custodivano il tempo e la sostanza del Luogo. Bisognerà non dimenticare che Perseo indossò la cappa di Ades, cioè ciò che poteva renderlo invisibile; ricordiamo che nel cambio della guardia lui strappò di mano l’unico occhio delle Graie, e che una volta individuate le caverne segrete, Perseo mantenne il corpo all’indietro, tastò il collo della Medusa e lo recise. Lo falciò nettamente con la lama antica della sua arma che una volta era appartenuta ai Titani. Da quel collo (e non è forse il collo che sopporta l’altezza della testa, il peso del cervello, e la unisce alla restante parte animale del corpo?) uscì il cavallo Pegaso: la pesantezza alata. Ma anche l’eroe Crisaore. Sì, perché l’orribile Sovrana, l’assassina vivente, era incinta.
Semino un’altra manciata di scheggine citando Alda Merini: “C’è un momento nel passaggio della nascita di Gesù in cui naturalmente egli tocca la vagina della madre e non può non sentirne il palpito e lo sgusciante dolore. L’attaccamento al dolore materno è sempre un sintomo di grande domanda e la spiritualità della mamma in questo senso va a farsi benedire. Saranno le stesse domande che Cristo uomo avrà rivolto tacitamente alla Vergine Maria quando la guardava solamente come donna. Ho detto il palpito del dolore…” (da “La trappola” in Le parole di A. Merini).
III. Il peso tragico della mano
Rimpiango di non aver mai fotografato la mano di mia nonna. Ricordo che non era mai distesa, se non quando la riposava sul fianco per dormire, quando ormai tutti erano andati a letto da un pezzo. La trama del tessuto crettato era quello della sua faccia. Antica, non vecchia. Perché oltre la vecchiaia. Ossuta e con la pelle sottilissima sotto cui si intrigavano i bluastri delle vene e i gialli delle efelidi. La pesantezza silenziosa di quella mano mi appartiene. La sento dentro la fronte perché da lei ho ricevuto il battesimo. Appartenenza che riconfermo ogni volta che scrivo.
La mano di Gotama il Buddha è tutt’altra storia: non risponde alle provocazioni di Mara, il dio della morte. Non ne accetta l’agone tragico. Si astiene dal sacrificio. Ha una delicatezza marmorea sublime e con leggerezza (perché porta in sé niente) carezza la terra – la dea terra – evocandone protezione. Per questo la morte intera si ritira.
Se la mano ha il corpo della piuma può accedere al Vuoto, alla pienezza fatta di nulla, e immergersi dentro la beatitudine isolante del Nirvana. Metti invece che la mano porti in sé la manciata di sementi. Metti che la carne pesi terribilmente e ciò che contiene altrettanto. Come non potrebbe segnare la figura dell’arco e aprirsi in fondo per spargere e suscitare?
“Tanto più è stanco, tanto più il bue affonda la zampa dentro la terra.” Mi consegnò questo splendido detto materico Francesco Guarnieri. Eravamo dentro l’oscurità di una chiesa rupestre. Davanti all’icona.
IV. L’inquietante avvicinamento: l’occhio dietro la lente d’ingrandimento
La prima fotografia in assoluto che mi ha bloccato cuore e cervello dichiarava il primo piano di una donna vecchia. Le restai di fronte mezz’ora. Poi mi voltai, a mia volta presa: dietro le mie spalle sorrideva Mario Giacomelli.
Mi raccontò parte della lunga storia di quel volto. Quella donnina viveva da sola su uno spicchio dell’appenino umbro-marchigiano, dentro una casa quasi sventrata dal terremoto. Lontana dai paesi. Lui, il fotografo, l’imbalsamatore, l’aveva scoperta per caso durante uno dei suoi profondi viaggi. Era stato un autoambulante ad indicargliela. II piccolo commerciante era l’unico ad andare a trovarla. Una volta ogni dieci giorni. E ogni volta la vecchia lo faceva entrare. Discreta, dignitosa e forte della povertà (che è l’opposto della miseria). E ogni volta gli chiedeva l’unica sua lussuria: una scatoletta di tonno. Ho pensato a quella bocca sdentata per anni. Alla sua vita durante gli inverni. Al freddo che entra. Al camino acceso. Alla scodella. Ma soprattutto, significativamente e quotidianamente, alla luce che penetrava nei suoi campi sterminati.
Amo Giacomelli. Dicevo… i viaggi profondi di Giacomelli dentro la famosa caverna… della Medusa. Fiato dentro il fiato della lampante tragedia. La serie “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, tratta dal carnaio dell’ospizio, in cui ogni foto è una freccia amorosa scoccata in faccia alla Medusa penetra la polpa dell’ossessione, della solitudine, della consumazione irreversibile. Fotografia significa scrivere con la luce. Ma questo significato vale per ogni scrittura.
Per fotografare/testimoniare è necessario vedere ed entrare nel mondo.
Come Giacomelli entrò nelle braci del Mattatoio o a Lourdes o a Loreto per ri/scattare con la fotografia la tragedia delle bestie, bestie al pari degli esseri umani e viceversa (“Perché le foto – dice lui ‒ per me sono lo specchio dove io mi guardo dentro”) così un altro tra tanti: Roman Vishniac, per esempio. Uno che con la macchina fotografica nascosta per registrare il modo di vivere degli ebrei durante i già terribili anni 30 in Germania rischiò la pelle. “Ma doveva essere fatto… Non potevo salvare la mia gente, solo il ricordo”. Sono parole sue ma potrebbero essere state anche quelle di Robert Capa, di Etty Hillesum, di Breyten Breytenbach… Il fondo della loro scrittura è lo stesso.
Per far tremare i sordomuti aggiungo altre parole, quelle feroci di Hugo Von Hofmansthal dalla “Lettera di Lord Chandos”: “..una vicinanza inquietante; come una volta avevo visto in una lente d’ingrandimento un lembo di pelle del mio dito che somigliava a una pianura con solchi e buche, così mi accadeva ora con gli uomini e le loro azioni.”
V. La necessità del rischio. L’arte come pretesto amoroso per l’attenzione
“Non avremmo più bisogno di porre domande. Ma noi poniamole invece. E facciamo in modo che esse riacquistino in futuro un carattere vincolante”. E la Bachman che me lo incide, che continua a ripeterlo nelle profondità della mia caverna interiore. Li dove respira la mia Medusa. E dove io la scelgo, certo, tragicamente.
L’immersione rischiosa del sommozzatore ha la finalità della riemersione. Di portarsi e di portare alla luce il proprio lavoro. La sua esposizione è sempre significativa perché deriva dalla profondità vissuta. Scrive Kate Kollowitz: “L’esposizione deve avere un significato, perché questi fogli sono estratti dalla mia vita. Io non ho mai fatto un lavoro a freddo, ma in un certo qual modo sempre col mio sangue. Questo devono sentirlo quelli che li vedono.”
Non è un martire colui che affonda la propria mano in sé stesso, dentro la propria terra, a testoni sul collo della Medusa, e continua a camminare e quindi a fare della propria vita il segno esposto. Non è un martire il bue. Ma si muove nella necessità e responsabilità esistenziale verso il dentro del sé e verso gli altri. Nijinski identificava l’artista con il santo, con il Cristo Crocefisso. Lo ha fatto anche P.P. Pasolini. L’artista come l’eroe tragico per eccellenza, crocefisso con i chiodi della sua lancinante sensibilità, con quelli della fatica sostenuta, e con quelli dell’incomprensione sociale.
Io quando parlo di necessità spazzo di colpo la tavola apparecchiata dell’ultima Cena. Mi metto alla mia tavola davanti al mio pasto, nel piacere e nel dolore composti in un unico piattino colmo di ogni minuto della mia giornata. Stiamo attenti. Stiamo mangiando ogni minuto della nostra giornata. Punto. A capo. L’embrione della tragedia è l’eros. Punto. A capo. Se la coscienza preme, divenendo vincolante, è chiaro che ogni lavoro deve essere carico di questa pregnanza. Un qualsiasi lavoro, un libro per esempio. “Se il libro che stiamo leggendo non ci sveglia con un pugno in testa, perché mai lo leggiamo?.. Un libro deve essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi.” Firmato F. Kafka.
Il penultimo sparo conclusivo della mia scrittura (penso alla fase finale dei fuochi d’artificio) è tratto dalle mani sanguinanti del poeta cèco Jiri Orten: “E adesso mi congedo da te, per il momento, Quaderno Zigrinato. Devo farlo: per motivi di sicurezza. La polizia, o cos’altro, mi cerca, perché scrivo versi. Non appena sapranno il mio indirizzo, verranno fin qui a Vyton…e tu costituirai un eccellente corpo del reato.”
L’ultimo sparo viene da Hrvé Guilbert. Il suo grilletto puntato scatta nel momento della sua esalazione. Dopo essersi fatto pasto nel descrivere la sua traiettoria dentro la caverna, e perfino la pelle mordente del collo della Medusa. Un Perseo malato di Aids che ha incarnato tutta la tragedia: “Scrivere? Scrivere nel buio? Scrivere fino all’ultimo? Farla finita per non arrivare alla paura della morte?”
Da quel collo falciato uscì il cavallo Pegaso: la pesantezza alata. Ma anche l’eroe Crisaore. Sì, perché l’orribile sovrana, l’assassina vivente, era incinta.