IL ROSSO E IL NERO
anno 2, numero 6, ottobre 1993
poesia e critica, pp. 59-65
commento critico
Giovanni Infelìse
Ritratto dall’acqua
Frammenti di un dialogo inedito
[…] Non un’onda batteva sulla riva. i
In altri ricordi della vita vorremmo che si indagasse, in altri risvegli vorremmo, se non fosse pure necessario il sonno – il sognare poi di non essere nati altrove –, che si cerca ciò che è espressione sensibile dell’essere, del mondo, di quella verità sovente inattingibile, anche inquieta, che è per il poeta l’esistenza umana.
È la poesia infatti, la sua natura, un dirci “che la vita continua a scorrere attraversando le malinconie improvvise e la chiara visione di ferite aperte […]”ii. Sì che il dolore è l’origine e la ragione stessa dell’essere nel mondo, una presenza che induce all’interrogazione della scoperta della “parola affabile” che renda più tollerabili le umane vicende e realizzi un riavvicinamento alle “cose”, alla loro essenza.
Un riaccostamento impossibile?
E se si provasse fedeltà alla “materia” (all’elemento) che governa in vario modo la vita e che variamente si manifesta alla coscienza umana? Se si provasse a considerarla come l’atto supremo che amministra dapprima l’immagine e il côté oscuro di “ogni vita” prima che il “tatto” o altri sensi?
Ebbene, riteniamo che quella stessa “materia”, pure evocatrice di sensi ma anche di luoghi dove accade il tempo – di luoghi mitici – comprenderebbe in sé certamente non già (o non solo) l’immagine di un mondo irrimediabilmente doloroso, bensì quella di un mondo anche lieto se ri-conosciuto come proprio da ogni essere, un mondo ri-considerato nella sua duplice veste di essenza inalienabile e di corpo, la cui origine sfugge e la cui fine non è dato conoscere.
Il titolo del presente saggio, in via del tutto preliminare, sintetizza almeno due aspetti peculiari della poesia di Scrignòli: l’uno riguarda il “ritratto” che affiora dall’acqua che rappresenta l’immagine più autentica del poeta nel rapportarsi all’essenza stessa dell’elemento naturale, l’immagine connotata da una marcata matrice esistenziale soggiogata dalla presenza-assenza dell’elemento vissuto come l’“altro” da sé, come la voce da ascoltare e “luogo” a cui ritornare; l’altro, più specificatamente, il fatto che tutti o quasi i componimenti sensibili appaiono caratterizzati da una dialogicità dai toni inattingibili – qui individuata quale esito naturale di un “dialogo inedito” con la “materia” in forma di “frammenti poetici” –, assunta quale topos linguistico naturale della poesia.
Il ricongiungimento alla “materia” (alla sue essenza) appare, nella produzione poetica di Scrignòli, un atto dovuto all’elemento naturale riconosciuto quale incipit, metaforicamente e di volta in volta differentemente rappresentato, di ogni essere, di quell’essere che qui ad exemplum “emerge dall’acqua […] come un riflesso che in poco a poco si materializza [e diventa] immagine […], desiderio prima di essere immagine”iii.
La poesia di Scrignòli pone quale questione vitale il superamento del comune senso delle “cose”, essa è espressione e affermazione di quel “desiderio” che precede il concretizzarsi dell’oggetto, “desiderio” che solo in apparenza sembra capovolgere l’ordine, per così dire, naturale, il giusto verso o l’equilibrio che la conoscenza instaura tra le “cose” osservate:
Vista da questa parte, accanto al silenzio
la terra diventa nutrice dell’acqua
[…]
mentre “[…] il vero occhio della terra è l’acqua”iv.
L’elemento diventa tout court il simbolo che antropomorficamente accenna a sentimenti riconosciuti come propri dal poeta, ma diventa altresì la metafora viva di un viaggio, di un viaggio che non ha mete precise né luoghi da riconoscere giacché inospitale è ogni terra a cui l’acqua non sa plasmarsi, a cui l’acqua non sa ricondurre il canto del suo poeta:
[…]
l’acqua sa essere gentile, dolcissima,
con chi ne conosce i nomi.
[…]
I nomi da ricercare (o da ri-scoprire) verosimilmente tracciano in Scrignòli il senso di quel viaggio che è un risalire perpetuo nel labirinto della memoria alla ricerca di una propria identità che è la “via” – sostrato di esperienze –, l’origine, ciò che rappresenta poi, in età matura, l’esito inattuale, non più riproducibile di un tempo mitico che è il tempo dei primordi e dell’innocenza. La “via” non è più indicata – da un immaginaria città ideale – dalla voce del poeta il quale non si sa riconoscere e vaga; essa gli è ri-velata allo stesso modo che ai “[…] primi poeti greci [i quali] credevano di essere guidati dalla Musa lungo la via del loro dire e pensare, e ciò presuppone, evidentemente, che ci sia una determinata via, conosciuta se non altro dalla Musa […]”. v
Tale ricerca diventa così la ragione prima del quotidiano concedersi alla vita emblematicamente raffigurata dall’immaginazione in movimento dell’acqua del fiume (“[…] Lavata nel fiume della vita/La mia lucente criniera brillerà […]”) vi che accoglie in sé il giorno, ma anche quell’irrinunciabile libertà che annuncia l’uomo, assimilato rigorosamente alla natura. Il non sentirsi partecipe, e in certo senso complice, di un sentimento di “fuga” dai “bisogni”, fa sprofondare nello smarrimento e nella solitudine, riporta indietro in un tempo disadorno, all’estraneità per quei luoghi una volta familiari:
Scivola già in avanti
il giorno dell’incontro con il fiume
là dove l’interesse
è per il profilo inghiottito
del nero, nel peso
sospeso
di queste solitarie libertà
e nel canto di sirene ulteriori.
E quante, immobili,
sfiorano il sentiero
in attesa di visioni affollate
sulla via del guado
non avendo mai conosciuto, l’acqua,
la distanza
dalle sue frontiere.
L’acqua è l’elemento che “purifica”.
E tuttavia il ridurre a topos sacro la funzione purificatrice dell’acqua non significa qui necessariamente attribuire un valore meramente religioso alla “parola”, significa, più esattamente, sottolinearne la valenza culturale che esemplarmente si impone quando ben sia compreso, ad esempio, che l’acqua è l’elemento fecondativo della terra, datrice e conservatrice di vita, di vita eterna, anche, secondo una certa ritualità primitiva. L’acqua sgorga dal suolo ed è per ciò stesso, se non la divinità, il tramite, il punto di contatto, con la divinità: “Io non so gran che degli dèi; ma penso che il fiume/Sia un forte dio bruno, – scontroso – indomito e intrattabile,/Paziente fino a un certo punto, dapprima riconosciuto come una frontiera […]”. vii L’acqua impone un confronto con il mondo ctonio, con il mondo dei morti:
[…]
Eppure
ora c’è acqua, e stanche primavere
e la stesse sete dei morti per acqua.
[…]
Questa riproposizione, che pure si avverte nelle poesie di Scrignòli, della “fantasia mitica” che popola l’acqua di esseri (di nomi),
[…]
Il cerchio apre la luce, quindi
si ricomincia con altri nomi.
[…]
delle voci stesse dei fiumi
[…]
già in queste sovrapposizioni si possono
sentire le voci dei fiumi […]
– sì che il fiume è prevalentemente, visto come “luogo” sacro – rende la poesia di Scrignòli esemplificatrice di un “valore nuovo” che il “luogo” stesso, da noi fin qui conosciuto, assume in virtù di una mutevolezza che non è solo, o prevalentemente, linguistico-lessicale, bensì fortemente concettuale.
Il fiume è, metaforicamente, ora e qui, il “luogo” della memoria, di quella memoria che è ragione prima dell’uomo, di ogni uomo sottratto allo smarrimento, nell’inidentità. L’acqua sintetizza in sé l’origine stessa della vita, i suoi stravolgimenti. Ma l’acqua è, oltre che espressione di una vitalità inesauribile, sintesi di un “tempo” confinato nel “limite”, che è la morte: “[…] Temete la morte per acqua”. viii
La convinzione che tutto sia scandito da un ordine inaccessibile – che tutto accada secondo un destino -, fa sì che ci si rivolga all’“altro” da sé in un atmosfera quasi irreale che trascende volutamente – in un atto di estraneazione – il mondo visibile. L’attimo in cui si realizza compiutamente il desiderio di conoscenza, è quello che concede un riavvicinamento al mondo che più conosciamo (quello umano) e che tuttavia ogni volta più distante ci appare:
[…]
sùbito dopo essere annegati mi dicevi
del limite dell’acqua
[…]
L’acqua è espressione emblematica di un una duplicità delle cose, tutte, dell’ineffabilità, del mistero.
L’elemento diviene così depositario del mistero insondabile della vita e della morte: una vita che sovente mortifica il pensiero, l’azione e che rende arido il sentimento; una morte che si identifica con la quiete e l’attesa. La morte va qui intesa come fonte germinatrice della vita, secondo una positiva concezione đell’esistenza, e dell’esistenza dopo la morte, rappresentativa di certa mitologia, soprattutto ellenica, da cui il nostro poeta – se pur a tratti inconsapevolmente – attinge i motivi dominanti della sua poesia.
La forma dialogica, che pure è prevalente – anche se leggibile tra le righe -, crea infine un rapporto simbiotico di fondamentale importanza tra la parola poetica e l’elemento naturale. Il fiume (l’acqua), infatti, rappresenta l’interlocutore “ideale” per il poeta, ma anche – sia detto metaforicamente – il corrispettivo di sé in natura. Il parlare del poeta al fiume altro non è che un parlare di sé con il sè che è l’“altro” che gli vive accanto e che tuttavia gli si sottrae, ma a cui comunque tende quando più greve la voce gli annuncia la solitudine, lo scorrere inarrestabile del tempo verso un punto ideale (il guado) che solo gli consente l’attraversamento del fiume e il ricongiungimento di sé all’uomo, di entrambi alla natura.
“La poesia, essendo non per nulla una manifestazione linguistica quindi dialogica per natura, può essere un messaggio nella bottiglia, gettato a mare nella convinzione – certo non sempre sorretta da grande speranza – che esso possa un qualche giorno e da qualche parte essere sospinto alla spiaggia del cuore, magari”. ix