IL ROSSO E IL NERO
anno 2, numero 6, ottobre 1993
saggi: il Sacro, pp. 43-50

Marisa Strada

Il sacro Asterione deve morire

Miti del labirinto infinito in Jorge Luis Borges

Che il cielo esista, anche se il mio luogo è l’inferno.
Che io sia oltraggiato, annichilito, ma in un istante, in un
essere, la Tua enorme Biblioteca si giustifichi.


   L’antica etimologia latina del termine “sacro” (sacer) ha un duplice ed opposto significato: si riferisce a quanto è in rapporto con il divino e con la salvezza e a ciò che è “maledetto” e allontanato dalla società (esecrando). L’ignoto, il mistero, l’orizzonte ultimo della morte e del senso, hanno il volto della speranza e dell’abisso spaventoso; l’umanità non ne può, in qualunque tempo, fare a meno, se non al prezzo della caduta di tutte le idee (gli idoli e le utopie, abdicando ai quali si sprofonda nell’impotenza dell’effimero), ma, nel contempo, deve cercare qualche forma di difesa dall’invasione del sacro-terribile, tracciare dei “recinti” protettivi che lo tengano ad una minima distanza, affinché la ragione possa governare la piccola zona dell’esperienza conferendo valore positivo alle costruzioni minimali che avvengono nel tempo quotidiano e sociale. Recinti ne hanno forniti le religioni, la psicoanalisi, la scienza, con una “saggezza” culturale variabile nel tempo e sempre pericolante, perché il “sacro” (il metafisico, l’inconscio, l’ignoto) si sterilizza se lo sguardo è troppo oggettivante o definitorio e, al contrario, precipita nel buio e nel caos, se lo sguardo si fa irrazionale fino a disperdere la condizione spazio-temporale che è propria dell’uomo. Borges è forse il più grande scrittore del dilemma del “sacro” così come si pone nell’età contemporanea “post-moderna”, se guardiamo al di sotto della pseudocultura del “nonnulla” dell’ottimismo effimero, che è forse il sintomo coperto (e vile) di un nichilismo impotente e agonico, proprio perché alla tragedia e alla disperazione “sacra” vuol rinunciare. Borges è la voce invece, di una cultura portatrice di un sentimento estremo e nuovo del rapporto “benedetto-maledetto” e comunque irrinunciabile con il “sacro”.
   Molta lirica e moltissima narrativa di Borges sono segno di una vocazione al mistero. Non c’è quotidianità sociale o interiore che non risulti straniata (rispetto alla percezione comune) dal filtro di una globale prospettiva enigmizzante. Inchieste, miti, leggende, si intricano con le vicende reali e le parole, anche le più comuni, sono piegate a significare una molteplicità di cose, in un moltiplicarsi di allusioni simboliche, per cui la “realtà” si ribalta, in ogni sua manifestazione, nell’ “irrealtà” dell’insondabile e dell’invisibile. Borges, ”un argentino smarrito nella metafisica” come egli stesso si definiva, disseppellisce il sacro dagli strati della cultura, dove ha sede antica ed eterna e lo fa tramite la parola mitica. Egli nega, infatti, valore alle teorie filosofiche, alla scienza, al pensiero matematico, linguaggi tutti troppo “finiti” di fronte all’ ”ignoto inesauribile”, “IL” linguaggio è, per lui anteriore alla ragione, ”lo inventarono guerrieri e cacciatori”, è prima mythos che logos.
   Ora, nell’antica Grecia, il mythos era la “storia vera”, capace di narrare il sovrannaturale, come tale il mito coincideva con il sacro e nel contempo con il reale; solo in epoche successive il mito va discostandosi dal campo definito come realtà, finché, per l’uomo moderno, il pensiero razionale e storico finisce con l’occupare in esclusiva questo territorio, confinando il mito nella zona dell’irreale. Ma l’uomo contemporaneo ha visto crollare anche l’illusione della Storia, avverte sotterraneamente la sua vanità ripetitiva e Borges dà voce e immagini a questa disillusione: anche la storia non è ”scientifica”, fornisce le spiegazioni mitiche che i vincitori di volta in volta hanno inventato per giustificare il loro operato e, comunque, rispetto alle attese umane di significato e di redenzione, nel mondo ”accade poco o niente”.
   Perciò, alla radice della letteratura borgesiana c’è il mito, la parola-magica che insegue e investiga il mistero senza “dirlo”, perché “dirlo” nella nostra epoca non è più concesso, pena la riduzione al “finito” di ciò che è “infinito”, pena il rischio che ciò che dell’ignoto si “dice” venga “disdetto” da una ”zona ulteriore” che resta fuori dalla pretesa definizione. L’uomo contemporaneo (reso scettico proprio dalla sua credulità onnivora) ha paradossalmente bisogno di un “sacro totale”, che resti intatto e intangibile dai babelici logoi di tutte le discipline, che si scontrano demolendosi reciprocamente dentro al labirinto della Biblioteca costruita dalla cultura umana, e ha bisogno che esso gli venga avvicinato invece, dalla letteratura, da quei libri che, con un’immagine cara a Borges, giocano a scacchi con il mistero e sono, forse, nel contempo inconsapevolmente pedine di un Giocatore Ignoto.
   Mythos e logos sono, peraltro, come inseparabili fratelli-gemelli, l’uno la faccia oscura, l’altro l’effige trasparente del Pensiero, quel pensiero umano che, da una parte, invoca e calamita il sacro entro la prigione della sua propria realtà e perciò la “dice” con il linguaggio mitico, che ne esplode i tratti precisati nel tempo e nello spazio; e dall’altra, si industria a imploderlo nel recinto di proprio dominio, normalizzandolo con la distinzione precisa e la tenace delucidazione di frammento dopo frammento dell’Enigma.
   La cultura, contemporaneamente, è ormai una vecchia costruzione gigantesca e babelica; ha disegnato infiniti recinti, ma ogni “dentro” ha rivelato un nuovo “fuori”, che a sua volta si è stretto in un nuovo reticolato, in un’altra stanza dell’immenso labirinto.
E il labirinto è sempre la casa del sacro Minotauro, che ancora attende di essere ucciso. Ma l’Uomo è Teseo? O è egli stesso il Minotauro? O è entrambi, l’eroe liberatore che vince il labirinto grazie al filo di Arianna (il logos), e il mostro sacro, che è unico e divino, ma nulla sa e nulla ricorda, se non l’attesa della propria redenzione?
   Uno dei più vertiginosi ed esemplari racconti di Borges, La casa di Asterione, porta al cuore dell’enigma per eccellenza, che si potrebbe forse così esprimere: il sacro è disumano (cioè mostruoso, come il mitico Minotauro che uccide i visitatori sacrificali) oppure è l’Uomo stesso che è sacro (mostro e Dio)?
   Asterione (il Minotauro) è figlio di una regina: è questa l’unica informazione anticipata nell’epigrafe del racconto, che cita Apollodoro. Poi la narrazione si fa mimetica, la voce è quella del mitico personaggio in una sorta di monologo interiore. Borges capovolge la focalizzazione leggendaria e il racconto assume il punto di vista del Minotauro.
   L’autopresentazione di Asterione inizia come apologia, in una forte contrapposizione con la folla che lo ”calunnia”; subito l’identità del personaggio appare conformata alla sua casa: essa lo isola totalmente dal volgo, che lo considera ”superbo, misantropo e pazzo” e, nel contempo, ”prigioniero”. Ma, afferma Asterione, la sua casa ha tutte le porte (il cui numero è infinito) aperte: ”può entrare chi vuole”.
   La seconda sequenza del racconto è costituita da un rapido flash-back: Asterione ricorda di essere uscito una volta dalla sua casa, ricorda i pianti e le preghiere, il terrore e la fuga della folla. E’ l’atteggiamento umano di fronte all’apparire improvviso del sacro nel luogo dell’esistenza quotidiana, all’invasione del mostro-divino, che si dice (e si vuole) stia superbamente chiuso nella sua labirintica dimora. Ma ciò che colpisce è l’innocente inconsapevolezza di Asterione: egli non conosce il senso di quella paura, non sa di essere agli occhi della folla il mostro che uccide con la superiore potenza di un Dio. La sola conclusione cui giunge è la sua propria alterità, la sua unicità.
   Dunque, Asterione riprende a spiegarsi al lettore: la solitudine e l’unicità comportano per lui il rifiuto della comunicazione (impossibile) ed in particolare della scrittura. Asterione è analfabeta, il suo spirito che è ”atto solo al grande” rigetta le ”minuzie” e la distinzione.
   L’arresto del logos di fronte al sacro è sia la sterilità del linguaggio con le sue distinzioni nei confronti del mistero, sia l’impotenza della ragione con le sue ”fastidiose e volgari minuzie” nei confronti della globalità indistinta dell’inconscio, che è libero di vivere e uccidere, anche se prigioniero nella sua casa, l’infinito labirinto dell’io, unico e solo.
   Asterione rifiuta l’umanità del logos, ma umanamente gioca ”a rimpiattino” e parla con ”un altro Asterione”, il suo doppio. Giochi e dialoghi hanno come esclusivo referente la casa. Essa è il labirinto, caratterizzato dal ripetersi ossessivo di forme oggetti (corridoi, cisterne, terrazze, ecc.); tranne che per la voce di Asterione, essa è muta; tranne che per la sua presenza, e vuota; è priva di colore, grigia come la pietra. È unica e infinita come Asterione, è aperta ma è una gabbia, così come Asterione è libero e nel contempo prigioniero.
   Il labirinto, che nel mito antico era l’ostacolo frapposto tra l’eroe e la sacra prova della sua identità nell’azione-missione, ora è esso stesso l’identità, magnifica e maledetta, indicibile e incomprensibile (cioè sacra), di Asterione.
   Egli dichiara di aver anche meditato sulla casa e la sua è una fulminante riflessione sull’infinito: la casa è grande come il mondo, eppure c’è un “fuori” (il tempio, il mare), che è anch’esso infinito; l’infinito gli appare come il ripetersi delle forme ”molte volte, infinite volte”, Ma è proprio meditando questo che Asterione giunge a cogliere una “diversità” tra sé e la casa labirinto-infinito: egli, infatti, esiste una volta sola, come soltanto ”l’intricato Sole”. Forse è lui stesso ad aver creato il tutto, ma non lo ricorda.
Asterione riconosce in sé il sacro, il divino, proprio nella sua estraneità rispetto a ciò che si ripete all’infinito: egli è unico, non riproducibile e moltiplicabile, può esistere una sola volta dunque deve morire.
   La casa-labirinto, da luogo amico, si fa allora ostile, Asterione ammette il dolore della solitudine, l’angoscia per i ”mille corridoi” e le ”mille porte”. Egli vive in attesa del suo ”redentore”. Una delle sue vittime, cioè uno di quegli uomini che ogni nove anni vengono nella sua casa per essere da lui liberati ”da ogni male”, glielo ha profetizzato. E Asterione si chiede come sarà il suo redentore: sarà ”un toro con volto d’uomo” (cioè il suo opposto speculare) oppure sarà come lui un uomo con volto di toro? Essere liberato da ogni male è, comunque, per Asterione, essere portato in un luogo ”con meno corridoi e meno porte”. Fuori dal labirinto delle cose che si ripetono all’infinito e fuori da se stesso.
   Sul motivo del desiderio di liberazione si chiude il monologo del Minotauro e una forte ellissi narrativa tace l’evento di catastrofe (l’uccisione del Minotauro da parte di Teseo). Esso è alluso, in modo suggestivo e inquietante, nella battuta dialogica di Teseo, che costituisce l’epilogo del racconto: sulla spada di bronzo dell’eroe brilla il sole ed egli stupito informa Arianna che ”il Minotauro non si è quasi difeso”.
   Il mostro sacro doveva morire. Ma chi è Teseo se non il “fratello-gemello” (il rovescio oppure il doppio) del Minotauro? E forse Teseo più consapevole dell’innocente Asterione, che uccide ogni nove anni nove giovani, o ha ucciso con egual inconsapevolezza (e, infatti, se le mani di Asterione restavano immacolate, anche sulla spada di bronzo di Teseo ”non c’è traccia di sangue”)?
Teseo non sa e non comprende perché il Minotauro non si è difeso: il logos ha “redento” il mostro divino, ma il mistero resta intatto, non-detto, soltanto momentaneamente allontanato.
   I modi iterativi della narrazione, sostanzialmente acronica nel continuo gioco di prolessi, analessi ed ellissi, suggeriscono ed incarnano quasi nel ritmo temporale, l’idea della ripetizione eterna del mito del labirinto e della tragica lotta interiore e sociale che l’umanità (la sua cultura, il suo pensiero) ingaggia con il tabù oscuro, tra desiderio del divino e terrore del buio infinito.
Asterione ha bisogno di essere “liberato” da Teseo, ma Teseo davvero non avrà più bisogno di cercare il Minotauro?
   ”Se lo spazio è infinito, noi siamo in qualunque punto dello spazio; se il tempo è infinito, noi siamo in qualunque momento del tempo”: osserva il protagonista-narratore del racconto Il libro di sabbia. Il mito del labirinto non è storico, è eterno. L’ordine causal-temporale, le coordinate di luogo, cessano nel labirinto di essere principi esplicativi affidabili: il computo si perde nella moltiplicazione caotica, mentre l’insieme si espande generando forme in un continuum iterativo, entro il quale la singola unità individuata non si potrà più incontrare una seconda volta. “More geometrico il labirinto è, infatti, l’Universo infinito, e neppure il linguaggio numerico può “dirlo” (ordinarlo). In Altre inquisizioni, Borges scrive: ”C’è un concetto che corrompe e altera tutti gli altri. Non parlo del male, il cui limitato impero è l’etica; parlo dell’infinito.”
   Il mostro sacro che incarna l’infinito nell’omonimo racconto è, appunto, il libro di sabbia. Il libro ”demoniaco”, che uno sconosciuto viene a vendere alla casa del protagonista: esso non ha inizio né fine, porta sulle illeggibili pagine dei numeri spropositati in un ordine apparentemente casuale e caotico; qualche segno grafico, come quello di una piccola àncora o quello di un maschera, è stampato qua e là, ma né segni né numeri sono ritrovabili una seconda volta, se si chiude e si riapre il gigantesco volume.
   Il venditore lo ha avuto da un uomo ”che non sapeva leggere” dando a lui in cambio la ”Parola del Signore” (una Bibbia), ma ora vuole, misteriosamente, sbarazzarsene; infatti, avendo chiesto al protagonista una cifra enorme, subito si accontenta della sua modesta liquidazione e della sua Bibbia di Wiclif in caratteri gotici.
   Il libro ”impossibile”, nuovamente scambiato dunque con una Bibbia, resta allora nella casa dell’anonimo narratore, che è caduto nella trappola del suo fascino irresistibile. Egli non esce più la sera, perde gli amici e il sonno, ossessionato – tra estasi e incubo – dalle pagine innumerabili eppure numerate, e dai segni irrintracciabili eppure scritti. Egli diventa ”prigioniero del libro”, come Asterione della casa-labirinto. Infine comprende che ”il libro è mostruoso”, anche se deve ammettere che ”mostruoso” è lui stesso, visto che lo percepisce con gli occhi e le mani. Decide di allontanarlo, dunque, e lo nasconde nello scantinato della Biblioteca Nazionale, cercando di non osservare dove lo pone, ed evitando in seguito anche solo di passare per la via dove si trova quell’edificio, dentro al quale, tra novecentomila libri, sta il mostro sacro senza logos.
   La Bibbia, che possiede la Parola, che “dice” il sacro e lo definisce, poteva stare nella sua dimora, il Libro di sabbia, il mistero infinito, doveva essere invece “perduto” nel labirinto della Biblioteca. Ma là, proprio in mezzo al caos delle parole umane che tutto dicono e disdicono, sta nascosto il ”Libro dei Libri”, sempre capace di catturare e “redimere” chiunque gli si accosti: e la mostruosità dell’infinito enigma imprigionerà altri uomini ancora, proprio perché anche l’Uomo è ”mostruoso”. Ma egli non ricorda, non comprende, e non può allontanare sé da stesso se non, come il sacro Asterione, morendo.
   Per Borges non esiste un tempo (neppure il nostro) in cui la vittoria della ragione, del logos, sia irrevocabile e irreversibile. Se religione, psicoanalisi e scienza pretendessero di “dire” il sacro e uccidere il mistero, l’Uomo (che pur resterebbe una creatura bifronte, il Minotauro/Teseo) diverrebbe ”credulo”, come il discepolo di Paracelso nel bellissimo racconto La rosa di Paracelso, ma, come lui, perderebbe ”la fede”, che è alla fine la mostruosa inconsapevolezza (paradossalmente “responsabile”) con cui egli abita il labirinto infinito, comprendendo soltanto di poter esistere una volta sola.
   Paracelso prega il ”suo Dio”, il ”suo indeterminato Dio”, un ”qualunque Dio”; egli sa che ”esiste una via”, ma non può dire qual è la meta, per questo ”la via è la meta” (sacro è il cammino nel mistero).
   Paracelso rifiuta al discepolo implorante di pronunciare la Parola che fa risorgere la Rosa dalla cenere. Il suo non è semplicemente il diniego alla richiesta della “prova” visibile delle sue capacità miracolistiche; neppure è garantito nella narrazione che Paracelso sia davvero un mago e non un impostore. Paracelso rifiuta, perché la Parola non deve essere detta, così come la Rosa, quella che risorge dalla cenere, non deve essere ”cantata”.
   E infatti, nell’esordio della splendida lirica che appare gemellata al racconto (La rosa), Borges scrive: ”La rosa,/l’immarcescibile rosa che non canto… ”, e ripete in chiusa: ”l’ardente e cieca rosa/ che non canto/ la rosa irraggiungibile.”
   Magnifico inchino, questo di Borges, di fronte al mistero impossibile; l’inchino di un “giocatore” lucidissimo, che conserva intatto, però, il brivido sacro, perché, come dice il venditore del libro di sabbia, l’infinito mistero ”É impossibile, ma È”.