IL ROSSO E IL NERO
anno 2, numero 6, ottobre 1993
racconti brevi, pp. 8-13
Daniele Gorret
Capodanno con la testa del professor M.E.
Capodanno: il cielo appare insolitamente terso…
(Sei Shonagon, Note del guanciale)
Vedo le matite e le lenti, gli inchiostri e i compassi, i gessi la gomma e le righe, vedo le squadre di forma diversa, le carte, vedo la lavagna e le penne, ma ancora non vedo la testa del signor professore. Pure, l’incontro è sempre stato a quest’ora, questo giorno dell’anno. Forse mi dovrei chiedere prima (prima, s’intende, di vederla apparire): sono pronto davvero? e ogni strumento è sicuro, funziona? è stato provato abbastanza? e gli occhi e la mente son quelli che voglio, lucenti precisi allo scopo? oppure io ancora voglio e non voglio, sto a chiedere scuse, penso cose diverse, non sono capace? E, più importante di tutto: mi trovo alla giusta distanza? che basta un decimetro in più oppure un decimetro in meno, e un attimo prima o un attimo dopo, e niente (e evidente) si potrebbe osservare: le chiare misure gli esatti contorni i colori. Fossi troppo vicino, nulla potrebbe salvarmi dall’essere addosso a ogni più piccolo segno ma senza capirlo; la paura mi tirasse, al contrario, un pò troppo all’indietro, sarebbe la fine prima ancora d’avere iniziato: tutto rimarrebbe nell’ombra, l’uguale e il diverso confusi, e a niente varrebbe stare a fare e rifare, cancellare o correggerci sopra, che anzi con sempre più rabbia e paura, perderei le forze e la calma, e tutto resterebbe sporcato, i colori sopra altri colori, la tristezza che si aggiunge a tristezza; e mentre all’intorno il sole e la neve si scambiano bianche dorate scintille, io solo, qui dentro, sarei nell’affanno e le angosce, inadatto a far parte della festa d’inverno, sarei, per qualcosa che sembrava da nulla, perduto.
Ma quando, per un brevissimo istante, la mente non pensa più niente, e soltanto è riempita da un vuoto pulito, allora, evviva! ci siamo: appare là in fondo! E’, vero, ancora lontana, per ciò ci vorrà ancora un minuto, e il ritardo rimane, ma l’arrivo è questione di tempo, di pochissimo tempo! Avanzando come è capace di fare (velocità che l’età le permette), si spinge un po’ avanti col mento, poi, dopo piccola sosta, un altro colpetto alla fronte e torna, penzolando, davanti: sono questi i passi che una testa può fare, trovandosi sola, da anni, lasciato il resto del corpo che ormai non serviva più a niente, al massimo a dare fastidio e a impedir di pensare. Testa del signor professore (forse adesso potrebbe sentirmi): le porgo il saluto e gli auguri di buon capodanno! Grazie di cuore per essere tornata, mi scuso se per un breve momento ho creduto mancasse, e le promesse, perfino le sue, valessero come monete scadute, senza peso e valore! Invece ci siamo, e ancora una volta si parte: per esser fedeli, si può dire che siamo fedeli!
Oserò cominciare dalla fronte solcata? Se la testa del signor professore, arrivata a questa distanza, è un palloncino che trema nell’aria, la fronte ricurva e piallata è la sua parte più ampia e più bianca, un po’ Alasca e Groenlandia, terra di ghiacci soltanto percorsi all’esterno da righe profonde come su neve ghiacciata le lame di slitta, lavorata all’interno da scosse e da crolli continui che sono sottomarini gelati, i pensieri. A ben vedere però, questo è soltanto impressione: che infatti non c’è forse rapporto tra dentro e di fuori? Non sono proprio le paure e gli scatti, le gioie e le tremende visioni che tutta la vita sono state prodotte lì (sotto sotto la pelle le carni la parete di osso) a fare, poi, quello che da fuori si vede? La terra rimane ghiacciata soltanto se sotto ci son blocchi giganti che costringono il sole a non sciogliere niente, ma se a primavera li sotto qualcosa si muove e c’è un pesce, più ardito degli altri, che riesce a guizzare nel freddo, allora è ben vero che anche all’esterno qualcosa di cambiato si osserva, e il lago che sembrava sicuro per ognuno che volesse passarci si riempie di grandi fessure, diventa una lastra sottile: segno che sotto lo specchio, tutto diventa diverso, e l’erba perfino, le alghe cresceranno nell’acqua. E se ancora avessimo un dubbio, ce lo toglieremmo da soli: già solo l’avermi rivisto e sentito, soltanto l’esser tornata a trovarmi, non sono forse bastati alla fronte a distendersi meglio, a sembrare come fosse più fresca e più irrigata dall’acqua, più morbida e un poco più rosa?
Ma adesso chi può contrariare lo sguardo se ha voglia di scendere un po’ e, lasciando la fronte ai suoi piccoli cenni, posarsi sulle stanghe di ferro che tengono fissate le lenti: guardarle e dire di amarle è tutt’uno. Gentilissima testa che è tornata da me, lei non può nemmeno pensare quanti ricordi di tempi lontani (conservati perfetti come fossero freschi di oggi), mi fa rinascere dentro se solo mi mostra gli occhiali! Attraverso le lenti che ho adesso di fronte, non può averlo scordato, lei riconobbe le lettere e mi lesse i versi più belli! Quegli occhiali hanno letto il poeta:
conobbi il tremolar della marina
con forza capace di produrre esplosioni tra le orecchie e cervello, di segnare una volta e per sempre le più interne sostanze, le vene e il sangue che ci sprizza di colpo, i dominanti pensieri, le vie che collegano il cuore la pancia e la mente! Per questo mi voglio fermare a lodarvi: occhiali che non siete cambiati e soltanto siete stati corrosi a forza di lacrime e sole di pioggia e sudore, resistete per altri cent’anni! Con tutta la cura di cui siete capaci, potreste restare così, e la vita (la bellissima vita che sapete trasportare da fuori all’interno) durerebbe, per voi e per me, per gli anni che ancora abbiamo in riserva. Non toglietemi oggi giorno primo dell’anno, questa grande speranza! Con voi che potete tornare ogni volta a farvi vedere e a vedere, io sono capace di non avere paura, di guardar sorridendo i nemici, di combattere altre cento battaglie e non certo da poco! Sarebbe davvero tremendo se un giorno, lasciati dalla testa distratta sull’orlo del bagno oppure posati senza fare attenzione in mezzo ai cuscini, le lenti partissero in pezzi e le stanghe uscissero fuori contorte incapaci da allora di servire a qualcosa! Sarebbe perduto, una volta per sempre, l’oggetto più bello che la testa ha tenuto con sé, che ancora lei porta come portafortuna e come portaricordi ovunque si mostri o nasconda.
Può fare impressione notare: qui davanti, gli occhiali quasi immobili e fermi, capaci di navigare sul tempo, e sotto, al contrario, le mille ferite degli occhi: son loro, pur sembrando cosi più riparati e nascosti, ad avere patito: hanno troppo guardato? hanno visto le cose più brutte e non han resistito? oppure eran fatti di materia sottile inadatta a tante tempeste? Domanda che risponde da sola: se infatti li osserviamo più a fondo (aguzzando la vista che ci è stata lasciata) vedremo: non due globi di luce, non due biglie dai colori brillanti, ma un paesaggio intero sommerso: sotto uno strato leggero di acqua, ci son boschi li dentro, radure! gentilissimi fiori d’alpeggio! e sentieri, contorti sentieri come sono contorte le strade in montagna! quegli occhi son fatti di mille sostanze diverse; e sarebbe stato ben strano che tutto funzionasse per sempre: stagione seguendo stagione, mille son stati gli attacchi, milioni i rischi affrontati, alcuni soltanto, e per caso evitati!
Dotata d’un altro potere e fatta di più robuste sostanze, la statua del naso mi è sembrata parlare: “sono qui a dividere e unire dividere gli occhi, separare la faccia in due parti, in modo che ognuno guardandomi sappia: destra o sinistra, oriente o occidente, salita o discesa, non si possa sbagliare; e unire le impressioni del mondo (che tutto al mondo ha un odore) e portarle al cervello. E per mia interna memoria potrei ricordare i profumi e le puzze di tutta la vita; ma prima di tutto mi tornano dentro, alla sola parola gli odori dei frutti e gli odori dei libri. Se anche occhi ed occhiali non servissero più, basterebbe lasciarmi sfilare davanti albicocche ed arance, uva e ciliege, e mele di ogni colore: e io (sono certo) conoscerei da solo ogni frutto, direi nome e stagione, svolgerei la sua lode. L’uguale coi libri: librerie dell’Europa da me odorate per lungo e per largo: io qui, fosse anche per l’ultima volta, voglio farvi l’elogio! Attraverso di me siete voi ad aver consolato la testa, anche quando era stanca talmente da aver solo paura e aver perso speranza! Mai non potrò esser grato abbastanza: di quello che allora davate senza chieder compenso, di quello che ancora nel ricordo mi date!”.
Ma dove l’intera dolcezza del signor professore sembra andata a abitare e stare in riserva, è nelle guance e le labbra: qui non c’è punto di pelle e di baffo o di barba che non dica la medesima cosa, vale a dire: sorriso bontà gentilezza. Le ingiustizie patite, le offese, i terribili sforzi fatti da tutta la testa per restare in silenzio si son scritti lì sopra, e comunque questa parte di faccia si muova, sembra ripete le medesime frasi: “di me non c’è da avere timore accetto l’inverno come accetto l’estate, accolgo gli insulti come accolgo le lodi, ricevo cose diverse ma in cambio dò sempre questa maschera di buona carne e di peli: è la valle che mi ha fatto così, il posto tra montagne e torrenti che impasta le facce a quel modo”. Le labbra si possono muovere anche per dire cose a queste del tutto contrarie, e dalla bocca potrebbero uscire suoni di dolore e di rabbia, ma in un altro linguaggio, silenzioso e segreto, è così che la faccia ci parla. E se bene si guarda, di fatti si muove di continuo e da sola: ogni più piccolo gesto, la salita o discesa che fanno le guance pendenti, il tremare continuo del labbro, l’arrossire e sbiancare, sono segni precisi, che solo un uomo volgare potrebbe pensare: non dicono niente, sono fatti per caso, non diamogli alcuna importanza.
Con ciò (naturale) non vogliamo toglier certo valore a ciò che dice la bocca: lo dice, d’altronde, in modo talmente più chiaro e più forte, sentito da tutti, che sarebbe follia anche solo pensarlo. Adesso, per esempio, che è aperta e si lascia guardare: possiamo vederci, ben chiari, i sei denti che ha tenuto con sé, quelli che per sua decisione ha sempre pensato come parte di lei, mentre ha lasciato cadere (col tempo) quegli altri che pensava come parte del corpo, inutili e storti, con meno storie e con meno vigore come fossero pezzetti di osso cresciuti per sbaglio, al posto che non gli era in alcun modo dovuto. E se un poco si apre e si chiude a provar le vocali, anche vediamo spuntarvi la punta di lingua: quella lingua, un giorno, servì per formar le parole, le preferite e prescelte, per dirmi le antiche poesie:
Cercato ho sempre solitaria vita
e ancora potrebbe, con sforzo tremendo, provarle!
Il caldo bollente che da quel buco m’arriva è segno che ancora, lì dentro, è fornace e vulcano: e infatti una nuvola bianca si alza, in lotta contro il freddo d’inverno, fa il suo fumo nell’aria, si perde a levante. Carissima bocca, non creda che non l’abbia capita! Il suo invito è ben chiaro: scenderle dentro, tentare il viaggio, esplorare quello che ancora nessuno ha esplorato, farmi legare all’uscita, e, tra arditi passaggi, diventare l’omuncolo che giunge ai recessi più interni! Mi creda: non è che non ci abbia pensato! e dubbi ne ho avuti e ancora ne ho! Ma dovendo, con l’ora che avanza, decidere si o decidere no, partire o restare, io resto. La testa, al completo, mi spinge o trattiene? Ad esser sinceri, trattiene.
Così adopero il tempo che ho, per altro meno strano viaggio. E passando (sapendo da anni passare) a nordest, arrivo all’orecchio sinistro. Se messa a confronto col resto, questa parte può sembrare più antica, fatta non solo da anni ma secoli prima, come il progetto e la sua costruzione portassero sopra la data che portano scritta gli archi e le mura, le torri e colonne della nostra città fra cui è nata e cresciuta e ha abitato la testa. Sì, proprio come diciamo al turista: ecco, quello che vede li in fondo è il teatro, costruito dagli antichi Romani, al medesimo modo ci sembra (guardandolo bene a questa distanza) sia l’unica cosa da dire attorno all’orecchio: guardate, è il pezzo più antico, la costruzione ha richiesto degli anni, ma proprio per questo è talmente robusto, i barbari e il tempo non l’hanno distrutto, soltanto attaccato nella parte più bassa un po’ per la rabbia di vederlo da sempre al suo posto, un po’ per lasciare anche loro un segno del loro passaggio.
Da qui salire al punto più alto, vuol dire passare, per forza di cose, in mezzo ai capelli (non sono, siam certi, più di sette o ottocento): ricordo del tempo che eran migliaia e coprivan la testa dalla punta più a nord fino ai confini di fronte d’orecchie e di collo: boscaglia selvosa che annunciava per prima l’arrivo del resto, che fosse o scoperta oppure, in questa stagione, coperta dal cappello un po’ storto e un po’ sporco: è in arrivo il signor professore! Ricordi che ci fanno del male! e al medesimo tempo ci regalano dentro un bellissimo sole: quello che è stato ritorna signor professore! È lei ad averlo insegnato! C’è solo bisogno di restare aspettando, fosse pure un lunghissimo tempo: migliaia di milioni d’inverni! Intanto però la testa è coperta di freddo e i mille ruscelli di liquidi e linfe che si vedon spuntare risentono il gelo; e se un attimo solo si mette a pensarsi, a com’è complicata e contorta e basterebbe soltanto un piccolo blocco o un disguido e potrebbe scoppiare, non ci stupiremo allora di certo sentirla esclamare: “voglio esser di ferro! che la ruggine sola mi possa attaccare!” La lasciamo gridare (può farle del bene) e scendiamo frenando, a sudovest: l’orecchio che qui ritroviamo, uguale in tutto al fratello d’oriente, è però molto più guasto al suo interno; è per questo che con tutta la forza che ci resta di voce gridiamo: carissima testa, l’incontro per oggi è finito! il tempo purtroppo scaduto! un anno, un anno soltanto, e staremo di nuovo un po’ insieme: io qui puntuale a aspettarla, lei qui puntuale a passare!
E pensando le faccia piacere, le offro la fetta di torta che avevo da parte: la prenda, è il dolce di buon capodanno, panna cioccolato e ciliege, non può farle del male, le farà compagnia, l’ha presa ogni volta.
Come l’obbediente pianeta sa bene che non può ritardare, non può mettere caos negli spazi e nei tempi, la testa al medesimo modo conosce quel che deve e non deve, accende silenziosi motori, comincia a tremare, tentenna: è il modo che ha di partire e insieme di fare i saluti, non esser scortese ma non esser, neppure, ostinata. Di questo le son grato davvero. Sarebbe pesante insistesse in un senso o nell’altro, si allungassero i tempi d’addio, si cominciassero smorfie e sussurri, non si fosse (come sempre si è stati) composti. Soltanto le faccio un segnale che la testa come sempre comprende: la strada, in questo momento, è per lei, nessuno la intralcia, con nulla potrebbe scontrarsi, proceda tranquilla. E la vedo infatti curvare, penso che ancora sorride, farà certo lo sforzo di non voltarsi all’indietro, scenderà, senza dire parola, a occidente.