IL ROSSO E IL NERO
anno 2, numero 6, ottobre 1993
poesia e critica, pp. 57-58
nota di poetica
Appunti per una dichiarazione tra “Fine e Principio”
Del ricordo di una poesia, rimane il senso della Memoria; di quanto è legato a ciò che dalla poesia si muove, organizzando complicità e accumuli di “rovine”, di queste tracce ineffabili sopravvive il senso della stessa poesia e del suo farsi.
Il problema (il dubbio) della comprensione è parziale, o non esiste; in realtà, lo sappiamo, ognuno scopre nella poesia ciò che vi ha portato e pertanto può anche andare oltre la scrittura del poeta. Il percorso intrapreso, quindi, inizia sulle tracce della sua Fine, e percorrendo la spirale della sensazione arriva al Principio.
Non potendo, il poeta, “trattare concetti filosofici come materia di discussione, ma soltanto come materia di visione”, l’incanto lasciato da Mnemosine è il terreno su cui lavorare senza porsi il problema di quanto si andrà a raccogliere, né delle sue epifanie.
Pur nella sollecitazione a dire del proprio fare poesia, e del relativo insito intendimento, credo che ogni aggiunta a queste poche righe assuma i contorni di dichiarazioni distraenti; quel che importa, infatti, “non è mai ciò che la poesia dice, ma ciò che è”. E che la poesia debba essere filtrata, continuamente lavorata sulla parola, presentazione (e non soltanto rappresentazione) della sua stessa “fatica” dialettica, può e deve riguardare i confinanti dell’autore? O non è piuttosto il rapporto estetico che si instaura ad assumere il più importante ruolo comunicativo?
Pensando alle tesi di Gorgia da Lentini: a) nulla è; b) se qualche cosa è, è incomprensibile; c) se è comprensibile, è incomunicabile, Roberto Sanesi si chiedeva se Gorgia stesso non si fosse reso conto che stava parlando di poesia, ed Eliot, d’altro canto, si dichiarava “impegnato alle frontiere della coscienza, al di là delle quali le parole vengono meno, benché ancora esista il significato”. Forse è questo il punto di equilibrio: la frontiera tra la coscienza e il comprensibile, dove le parole perdono a volte identità, eppure dilatano i significati; la tensione che ne deriva coordina il linguaggio, ne libera e insieme ne guida le possibilità di comunicazione. Ma il dato fondamentale, si evidenzia nel fatto che ogni ragionamento, ogni definizione, sia che ci trovino concordi o meno, vivono (o, meglio, sopravvivono) in una precisa condizione anacronistica, libera e liberatrice.
Così la scrittura assume i caratteri del logos phàrmakon per uscire dal privato del suo pensante; ed è in questo stretto passaggio che soffocano molte delle cose dette e scritte sulla poesia.
C’è un passaggio concettuale da attraversare guardandosi probabilmente allo specchio. Il poeta appartiene al paesaggio; se le tappe, i referenti, le orme e i riferimenti rimangono sotto le unghie o negli occhi, vorrà dire che “l’inutilità della poesia” – cui non possiamo rinunciare – avrà nuovi e antichi complici. Dicevo che della poesia rimane la Memoria; in questa utopia, in questo non-luogo, il Principio e la Fine di Eraclito tornano ad unirsi, perché (sempre rimanendo con Eliot) “una delle qualità del poeta… è che nel leggerlo ci ricordiamo di remoti predecessori, e nel leggere i suoi remoti predecessori ci ricordiamo di lui”.
Acqua nell’acqua, aspettando nuove.
Massimo Scrignòli
Castel Maggiore, 4 agosto 1993