IL ROSSO E IL NERO
anno 2, numero 5, giugno 1993
racconti brevi, pp. 23-30
Alessandro Trasciatti
Prose brevi per i viaggiatori pendolari
Tra i cavoli e i granturchi
Il burro più grande del mondo si stendeva placido in fondo all’orizzonte. Sterminatamente. Lo guardavo dal finestrino e più il treno corre e più il burro si allunga dietro le case coloniche, dietro gli alberi, forse pioppi. Era giallo e cremoso e spandeva profumo in ogni direzione. Davanti a lui i paesi corrono svelti e i tralicci dell’alta tensione e i panni stesi.
Era quasi mezzogiorno e mi accorsi che molta gente stava uscendo di casa con un coltello ed un piattino andando al burro come si va alla fontana, per condire la pasta. Anch’io avevo voglia di andare laggiù e meditavo di tirare il freno di emergenza, scendere in fretta dal finestrino e poi darmela a gambe per la campagna, inseguito dagli sguardi dei ferrovieri allibiti, e corro e corro tra i cavoli e i granturchi, e pesto i campi seminati di fresco, e sguazzo nei fossati d’acqua verde, e tra i fienili e le strade dei paesi. La gente va, la gente viene con un piatto di burro in mano, oppure un barattolo, qualcuno una pentola, perfino una botte…
Ma invece rimasi al mio posto, per pigrizia forse, o per vigliaccheria. Il treno continuava a correre senza che avessi il coraggio di farlo fermare. Il burro si allontanava luccicando al sole. Io stringevo le palpebre e allungavo il collo per non lasciarmelo sfuggire. Poi anche l’ultima strisciolina gialla svani nell’aria calda e tremula.
Il mistero di Rigoli
Non riesco mai a capire a che punto della ferrovia tra Lucca e Pisa si trovi Rigoli. Quando il treno si ferma mi dico:
“Siamo a Rigoli”. E invece è Montuolo. Oppure:
“Ecco Ripafratta”. E magari è proprio Rigoli.
È una stazione imprevedibile e per me c’è sotto qualcosa di strano. Ci sta che qualcuno la sposti per un fine delittuoso e questo sarebbe grave e preoccupante. Ma può anche darsi che Rigoli si muova da solo e che sia un paese mattacchione che si diverte a prendere per il naso il treno. Magari Rigoli sta acquattato dietro un cespuglio e fa passare il treno. Poi, sempre di nascosto, corre svelto per certe vie che sa solo lui, supera la locomotiva e gli si ferma davanti all’improvviso, cosicché il macchinista è costretto ad inchiodare i freni.
Io di queste cose non ne ho mai parlato con nessuno ma mi è venuta voglia di sentire cosa ne pensano i ferrovieri perché una volta mi è sembrato di udirne uno che diceva tra sé:
“Anche stavolta c’ha fregato”. Ed io penso che parlasse di Rigoli.
Caffè
Oggi ho proprio bisogno di sentirmi in pace, un po’ con me stesso, un po’ con questo e con l’altro mondo. Siedo a un tavolino del bar più bigio di Pisa, il mio preferito, l’unico ad avere l’ombra anche d’estate a mezzogiorno. Insieme al caffe che scende giù a goccia a goccia sento scivolarmi nello stomaco una specie di tranquillità, di piacevole assenza.
E d’un tratto il caffè sono io. Mi scendo lungo l’esofago e mi arrivo giù in basso in mezzo a mille succhi gastrici. Ma ora sono anche l’asfalto della strada. Sento i passi dei pedoni sulla schiena e le ruote delle macchine. Non mi danno fastidio, come ci fossi abituato da sempre. Adesso invece sono il vecchietto seduto al tavolino accanto che fuma una nazionale. E sono già quella. Mi sento tra le sue labbra un po’ vizze che certo, anni fa, ne hanno baciato di ben più fresche e umide. D’un tratto sono le risate che attraversano la piazza come raffiche di mitra e poi la macchina che si viene a parcheggiare proprio davanti a me. Ma sono già diventato la penna che scrive e il foglio che è scritto e l’inchiostro che scorre e poi l’occhio che legge ed io che scrivo, leggo, vedo, penso. Il cerchio si è chiuso nel breve tempo di bere un caffe, ma resto ancora un po’ all’ombra del bar Bozzi.
Il Guidi e il Malatesta
Fu di venerdì che scorgemmo giù in basso, nell’onde del greco mare, due ombre confuse. Con l’aereo planando ci avvicinammo e allora non ci furono più dubbi: erano il Guidi e il Malatesta, rispettivamente re della strada e re della foresta.
Difficile dire il nostro giubilo alla vista di quei decrepiti sovrani in preda ai flutti. Con le corone in capo e le vesti d’ermellino inzuppate, si agitavano convulsamente e a tratti sparivano inghiottiti dall’onde. Lottavano contro la morte ed avevano gli occhi pieni di terrore, del sordo terrore che precede l’ultimo tuffo.
Con lo sguardo ci imploravano, loro, gli affamatori del popolo, gli sfruttatori della classe operaia. Per anni avevano regnato incontrastati sul mondo intero; per anni avevano goduto dello ius primae noctis sui loro miseri sudditi, infrangendo il velo della verginità a mille e mille fanciulle; per anni avevano commerciato armi e droga con i più iniqui intriganti dell’Orbe ed avevano colmato i loro forzieri sfruttando la prostituzione minorile. Non c’è favella umana che possa narrare compiutamente i loro orribili misfatti, le loro turpi colpe, impresse nelle loro anime come patacche inattaccabili anche dai più potenti smacchiatori.
Ma adesso era giunto il momento della resa dei conti e i due neri sovrani scomparivano per sempre, trascinati a fondo dal peso delle loro stesse nefandezze. Le onde color cioccolato fondente si richiudevano sopra di loro.
Sentenze notturne
C’è una tribù di ragni sotto il mio letto. Si sono annidati nella polvere per crescere e moltiplicarsi secondo il biblico precetto. Sono molto religiosi e spesso, nel cuore della notte, li sento sussurrare litanie e invocazioni. Non posso dire che mi diano fastidio perché non alzano mai la voce, ma al momento di andare a letto provo un certo non so che.
Non di rado li vedo camminare sul pavimento con movimenti rapidi e decisi, escono dalla tana uno ad uno, s’incrociano confabulano come formiche e poi tornano sotto il letto. Mi viene da pensare che stiano tramando un assalto in grande stile alla mia persona, e che le loro preghiere siano volte ad ottenere il favore di Dio in questa impresa.
Da diverse notti le loro suppliche si sono fatte più intense e frenetiche, hanno anche alzato un po’ la voce. Li sento agitarsi sotto di me, senza posa. Incrociano le loro lunghe zampe, tessono nervosamente ragnatele, vanno avanti e indietro febbrilmente. Cosa stanno facendo non lo so ma è certo che sarò io a farne le spese.
Ormai sono destinato a scomparire prematuramente, come spero diranno i giornali, quelli locali almeno. Frettolosamente ho fatto testamento e ho confessato i miei peccati al parroco. Questa notte sarà l’ultima ma sono preparato ad affrontare la mia sorte, certamente dolorosa. Mi sono coricato da alcuni istanti e già le mie orecchie sono piene del lamentoso brusio dei ragni. Nonostante che questi estremi momenti siano carichi di tensione e angoscia, non riesco a non compiangere un po’ anche i miei stessi carnefici: è un compito ingrato essere condannati da Dio ad eseguire sentenze notturne e inesorabili.
Il barbiere di Siviglia
Il barbiere di Siviglia si annida certamente in questi luoghi. Ho avvertito con sicurezza la sua presenza insidiosa, il suo fiato avvelenato. Senza ombra di dubbio adesso mi spia, osserva ogni mia mossa, mi segue in punta di piedi appiattendosi negli scaffali. Scivola tra un libro e l’altro, s’insinua tra le pagine, serpeggia tra le righe, si ferma ai punti e forse anche alle virgole. Piccolo piccolo, impercettibile. Ogni tanto sporge la testa e allora scorgo distintamente due occhi pungenti come spilli fra un dizionario ed un romanzo rosa.
Ma ora sono pronto a difendermi. La mia mano sicura stringe una bomboletta di micidiale e profumato insetticida. II Barbiere ha i minuti contati. Sento il suo passo affannarsi tra i paragrafi, frusciare fra i gerundi in cerca di un improbabile rifugio. Presto avrà finito di instillarmi le sue viscide inquietudini. Presto il suo minuscolo corpo resterà stecchito come una zanzara.
Ma d’improvviso un libro vola via dalla finestra sbattendo i fogli come ali, il Barbiere ci si aggrappa e per l’ennesima volta mi sfugge sotto il naso.
Un viaggio imminente
Partiamo per un viaggio periglioso, ci attendono futuri incerti, cammini frammentari. Prepariamo bagagli voluminosi, casse smisurate, valige polimorfe, bauli dai mille sottofondi. Approntiamo carrozze robuste e confortevoli, trainate da cavalli poderosi dai muscoli elettrici e scattanti. Non c’è stanza del castello che non risuoni di ordini gridati, cigolii, tonfi, scalpiccii. Il tempo c’ incalza ed abbiamo rinunciato al sonno abituando gli occhi alla luce fumosa delle torce.
Di ora in ora i preparativi si fanno più frenetici, s’infittiscono i rumori, le urla, gli stridori, i colpi, i tramestii. Il vento dell’imminenza attraversa le stanze con raffiche nervose, riempie le sale sguarnite di arredi portati via in fretta.
E finalmente tutto è pronto: le pesanti vetture, stracolme di uomini e cose, attendono il segnale. I cavalli schiumano e scalpitano, tendono le membra percorse da tremiti continui, pronte allo scatto, all’esplosione della fuga. Schiocca il primo colpo di frusta e gli animali guizzano rabbiosi, ma il loro è un balzo inutile e penoso: i convogli non si muovono, troppo è il loro carico. Si raddoppiano i colpi sulle groppe che sudano ma senza risultato.
Allora si decide di alleggerire le vetture, si calano a terra le cose più inutili e si riprende a frustare le bestie. Ma la carovana resta ugualmente ferma. Ancora si tolgono oggetti e masserizie fino a lasciare in carrozza i soli viaggiatori. Ma è inutile continuare a frustare gli animali che scoppiano di fatica. Anche i passeggeri scendono e di nuovo sibilano gli scudisci che, tuttavia, rimangono impotenti. Si decide addirittura di staccare le carrozze, di caricarsi gli enormi bagagli sulle spalle e di seguire i cavalli a piedi.
Sotto l’ultima, disperata gragnuola dei colpi dei vetturini folli, gli zoccoli s’impennano in un estremo sacrificio, poi le best crollano a terra.
Sale d’aspetto
In molte metropoli (forse in tutte) esistono sale d’aspetto enormi, sterminate. Divani si susseguono a divani, luci al neon a luci al neon, porte d’ufficio a porte d’ufficio. Gente di ogni età ed estrazione sociale, delle più disparate nazionalità e dei sessi più vari, affolla ogni centimetro quadrato adibito all’attesa. Ognuno tiene in mano il numero del proprio turno, alcuni ne hanno più d’uno, relativi a diversi uffici. Si attende di tutto: la riscossione della pensione, la visita militare, la consultazione di una cartomante, il tram, la lettera della fidanzata, una comunicazione giudiziaria, Godot, il telegiornale della sera.
Nessuno, però, sa qual è la porta giusta perché non ve n’e alcuna che rechi scritto qualcosa. Così accade che, aprendosene una, tutti accorrono in massa gridando la propria urgenza. Di solito non entra più di una persona alla volta, quella più vicina alla porta. Si sa per certo che alcuni, riuscendo dopo mesi di appostamenti a penetrare dentro, si siano resi conto di aver sbagliato e, per non lasciare scappare l’occasione, abbiano adattato le proprie esigenze alle funzioni dell’ufficio. Un tale, ad esempio, bisognoso di una visita oculistica è uscito fuori con un attestato di nobiltà. Ma non ha proferito alcuna parola di disappunto e, con esemplare civismo, è tornato a sedersi sul divano attendendo un’altra occasione.
Tutti hanno ammirato la sua dignitosa rassegnazione.
Lettere morte
Spesso indugiamo con timore davanti alla buca delle lettere, e non sappiamo deciderci ad abbandonare la busta che teniamo fra le mani. Controlliamo di nuovo l’indirizzo, verifichiamo il mittente, ci sinceriamo dell’affrancatura. Poi, per paura che gli sguardi dei passanti ci sorprendano fra queste esitazioni, infiliamo la lettera nell’apposita fessura.
Ma, nonostante i nostri scrupoli, ogni volta ci sfugge qualche errore che apre il varco ai più incerti destini postali. Passano i giorni, i mesi ed anche gli anni, finché qualche indizio ci fa capire che il nostro messaggio non è arrivato mai in porto. Allora ci rechiamo, col cuore stretto, all’immenso Ufficio delle Lettere Morte.
È un ambiente sfuggente e irregolare, dalle pareti spoglie e numerose. In fondo si apre un piccolo sportello e, dietro il vetro in piedi un perenne impiegato. Una lunga e composta coda di persone si snoda lungo gli innumerevoli lati della sala. Ognuno, a turno, secondo una liturgia minuziosa, prende la penna la catenella e compila varie schede consegnateli in ordine successivo dall’impiegato stesso. Questi, una volta riempite, le esamina attentamente, poi sparisce nel retro per alcuni istanti.
È questo un tempo prezioso, in cui noi utenti possiamo sbirciare l’interno dell’ufficio ed espanderci in sogni fiduciosi circa l’esito della nostra pratica. Si dice che vi siano chilometri e chilometri di scaffali tarmiti, su cui si ammucchiano poderosi pacchi di missive con indirizzi erronei o, addirittura, assenti e non restituibili al mittente perché anch’egli sconosciuto. Ma si dice pure che vi si trovino lettere intercettate dalla censura poliziesca, confessioni di politici pentiti, messaggi di naufraghi in bottiglia, eresie di papi oppiomani, cartoline di defunti ai loro cari ancora vivi di cui non ricordano più il nome. Sembra che fra questi cunicoli di carta si aggirino archivisti pallidi e incurvati, e che vaghino eterni con in mano lampade a petrolio. Frequenti sarebbero gli incendi dovuti proprio a queste lampade fumose, molte le vittime e le lettere distrutte, fra cui, forse la nostra.
Ma è impossibile sapere queste cose con certezza, ed anzi c’è chi sospetta che dietro lo sportello non vi sia assolutamente niente, e l’impiegato si limiti a restare nascosto alcuni istanti oltre una porta fittizia, magari fumando una sigaretta. Il suo sarebbe un compito assai pio: illudere, con una parvenza di ricerca, noi cittadini ignari ed apprensivi; farci credere ancora per un po’che possiamo rimediare alle nostre colpe epistolari.
Fatto sta che ogni volta lo vediamo ritornare a passi cauti, scuotendo la testa e mostrando le palme vuote delle mani.
Teatro d’avanguardia
Sul palcoscenico si montano cannoni, bombarde e colubrine. Risplende il metallo alla luce dei grandi lampadari. La platea affolla nel giorno della prima, gli elegantoni guadagnano primi posti. Nell’aria il brusio sale, si fa denso. Poi entrano gli attori, vestiti da antichi militari. È avanguardia, si pensa, è surrealismo, prepariamoci a vederne delle belle. Si spengono le luci e un vasto applauso riempe il buio…
Cento bocche di fuoco scintillano sul palco, rovesciano proiettili in platea spazzando via le prime file. Grida strazianti si levano impazzite, ma non certo per questo si può interrompere lo spettacolo. Gli attori continuano a sparare sulla folla in gabbia che corre ovunque sconvolta, insanguinata. Si alza il tiro e si crivella di colpi ogni ordine di palchi. Cadono dai balconi corpi esanimi, attraversando il vuoto con virtuose evoluzioni. Il personale del teatro, onesto e ligio, ha sprangato ogni porta e non lascia uscire: chi ha pagato il biglietto ha il DOVERE di restare fino al termine.
Solo gli addetti alle pulizie sono turbati al pensiero della fatica che li attende, l’indomani, nel riempire i bidoni di cadaveri.