IL ROSSO E IL NERO
anno 2, numero 5, giugno 1993
poesia e critica, pp. 92-93
nota di poetica
La luna vista da Viggiù
Avevo dodici anni quando mi capitò fra le mani, giuntomi chissà come, e chissà da dove, un volume di poesia contemporanea, “Spartito lessicale” di G. Ballo.
Per me, allora, quello era un libro di magia.
Non ne capivo nulla se non il fascino. Decisi allora di iniziarmi ai misteri della parola. Abbandonai per un po’ “Alan Ford” e “Zagor” approdando a Nanni Balestrini.
Poi, girando per le librerie, m’imbattei in un minuscolo libricino dalla copertina bianca. Ne ricordo l’impatto fulminante: “Ora c’è la disadorna/e si compiono gli anni a manciate”…
Leggevo e piangevo. Per mesi non me ne separai più, lo portavo ovunque come una sorta di talismano.
A scuola, le interminabili ore dedicate a quella che sarebbe diventata di li a poco un delle mie grandi passioni e, a tratti, disperato motivo di vita, mi era insopportabile. Una sorta di atroce profanazione la parafrasi computata sotto l’egida del voto e della distrazione.
Ma era ormai mia, solo mia, la svolta del respiro di Celan. Mie le giovani fiorentine di Campana, mio il sapore di mare delle parole di Caproni…
Un’estate, in Sardegna, mi provai io stesso nell’impresa di comunicare qualcosa di simile ai capogiri che provavo leggendo poesia. Divenni ben presto una sorta di scemo del paese. Con il quaderno sottobraccio attendevo che qualcuno mi passasse sotto tiro. Allora iniziava l’eserciziario della coscienza. Poesie come brufoli.
Studiavo metrica nell’attesa di avere il mio primo rapporto sessuale completo.
Sono passati un po’ di anni. Devo essere diventato meno sfrenatamente innamorato del verso.
Tredici anni di convivenza danno il tempo di cogliere i difetti di chiunque. Ma anche di apprezzarne i meriti. Quella primaria, concitata pulizia dell’anima di fronte alla pagina vuota è rimasta.
A me piacerebbe anche che rimanesse per sempre.
Quando iniziai a scrivere andavo sempre a messa per guardare una siciliana che mi guardava.
Credo di aver avuto un’educazione cattolica ancóra più opprimente di quella di Giudici. Nutella e sensi di colpa.
Non ho mai tollerato alcun discorso normativo che non fosse puramente intrinseco all’equilibrio del singolo testo. Ho assistito alla presentazione di manifesti e proclami di poesia definitiva. Situazioni spiazzanti…
Siamo in tanti e ciascuno ha diritto ad esprimersi come gli pare. Tanto se c’è qualcosa che vale decide il tempo. “La poesia si fa così e si fa cosà” non mi sembra il modo giusto di affrontare il problema.
La teorizzazione sfrenata e catalogante è una sorta di sgradevole, logorroico, cugino della poesia, quando arriva è meglio far finta di non essere in casa.
Non mi piace Heidegger riscaldato in tutte le salse.
Non mi piacciono le mirabolanti acrobazie teoretiche di Zecchi o dell’eternamente rifondantesi esperienza dei “novissimi”.
Credo che quella di comunicare scrivendo sia un’esigenza primaria, e la marea di testi “creativi” che oggi circola lo sta a dimostrare.
Ci sono molte cose buone. Ogni tanto qualcuno le legge e le diffonde. Un contagio di emozioni. Una palestra di riflessioni. Essenzialmente la poesia è questo.
Antonello Satta Centanin