IL ROSSO E IL NERO
anno 2, numero 5, giugno 1993
racconti brevi, pp. 17-20
Maria Strianese
La casa della signora Amalia
La sig. Amalia era stata sposata per quasi due anni, poi aveva saputo che suo marito non sarebbe tornato dalla guerra. Non aveva avuto figli e, mancando di fratelli, non ebbe mai neppure dei nipoti. Non per questo visse priva di affetti e amicizie, ma la lunga vecchiaia, per un amaro caso, le tolse una per una tutte le persone care. Rimase sola alla vigilia degli ottant’anni, come unici interlocutori i commessi dei negozi.
Fu certo ancora per caso che una mattina, passato mezzogiorno, intravide fra i clienti della salumeria un profilo conosciuto. La donna era stata una sua allieva trenta anni prima. Fu piacevole per entrambe riconoscersi e indugiare su convenevoli e ricordi. Qualche giorno dopo la donna si recò in visita dalla sig. Amalia, come aveva promesso, insieme alla giovane figlia. Le visite si ripeterono con frequenza e la sig. Amalia credette che Dio, nella sua infinità bontà, avesse voluto risparmiarle la pena di una morte solitaria. Sia la donna che la ragazza si mostravano molto sensibili verso la situazione della sig. Amalia e parevano contente di poter mitigare la sua solitudine. La ragazza, in particolare, prese spontaneamente ad assisterla in molti modi. Da principio rimaneva semplicemente a farle compagnia durante il pomeriggio, mentre il suo bambino era al doposcuola, più tardi, accresciuta la confidenza, stirava, riordinava la cucina, faceva la spesa, l’accompagnava in macchina quando ce n’era bisogno. Il marito si prestava per le piccole riparazioni casalinghe. La sig. Amalia si disobbligava volentieri con regali e danaro in ogni occasione; non aveva l’impressione di comprare l’amicizia, ma solo di ricambiare affetto e aiuto come meglio poteva. E quando una flebite la costrinse a letto per alcuni mesi le parve doveroso pagare regolarmente le tante ore, anche notturne, che la ragazza le dedicava.
Passarono tre anni in questo onesto baratto. Il bambino ormai la chiamava nonna e tutti parevano soddisfatti ricavando vantaggi a poco prezzo. Fu per Natale che la sig. Amalia decise di premiare la famiglia con un regalo fuori misura. Non avendo eredi lo stimò giusto e firmò la donazione del suo appartamento riservandosi il solo usufrutto, come le aveva consigliato il notaio. Questi, in realtà, le aveva proposto di redigere un testamento a favore della ragazza, azione egualmente generosa, ma prudente. La sig. Amalia, però, non voleva pensare alla morte, e rifiutava qualsiasi genere di preparativo, una cappella funebre come una camicia bianca nel cassetto. E poi non poteva appendere all’albero di Natale il suo testamento. Invece arrotolò l’atto di proprietà, lo legò con un nastrino rosso e lo lasciò fra gli altri pacchetti.
Le festività terminarono. Passò qualche giorno, una settimana, ma la sig. Amalia continuò a non avere notizie della famiglia. Dopo l’ultimo pranzo e l’ultima distribuzione di regali erano scomparsi. Non era mai successo prima e la sig. Amalia pensò a una disgrazia. Telefonò molte volte. Finalmente la ragazza rispose che il bambino aveva la febbre e non poteva lasciarlo; dopo raccontò che doveva accompagnarlo in palestra e non aveva più tempo come prima; che sarebbe passata appena poteva; che non poteva e non scocciasse più.
Dopo un paio di mesi si presentarono tutti e tre alla sig. Amalia e, con modi neppure gentili, le dissero che avevano bisogno subito della casa. La sig. Amalia cercò ancora di comprendere e di farsi comprendere, poi si stancò, dichiarò che lei aveva diritto a occupare l’appartamento e li cacciò via. Da quel giorno incominciarono le telefonate, in ore indiscrete e fastidiose. La voce ripeteva sempre la stessa richiesta nello stesso tono acido. La casa è nostra. Se non vuoi andartene da sola in ospizio ti mandiamo noi in ospedale.
Una sera, verso le undici, la sig. Amalia si trovò all’improvviso l’uomo in casa (gli aveva dato le chiavi quando era stata costretta a letto). L’uomo gridò e minacciò di metterla sotto con la macchina la prima volta che usciva. La sig. Amalia fece cambiare la serratura e non uscì più di casa. Qualche notte dopo fu svegliata di soprassalto da forti colpi contro la porta. Dal pianerottolo l’uomo gridava rabbioso di aprirgli, che non poteva chiuderlo fuori di casa sua. La sig. Amalia finalmente minacciò di chiamare il 113 se non andava via e quello scappò.
Il cadavere della sig. Amalia rimase per quasi una settimana sul pavimento della camera da pranzo. La famiglia, che continuava perseguitarla con le telefonate, pensò che non rispondesse solo per paura, poi un vicino di casa senti uno strano odore.
La casa rimase libera e la famiglia ci si piazzò subito, per far l’inventario dei beni conquistati, senza alcun rimorso. Era una bella casa antica quella della sig. Amalia, ampia e luminosa, cinque camere, una terrazza, bei mobili in noce che erano stati dei suoi genitori, argenteria e merletti di un corredo che non era stato mai consumato, qualche gioiello. I tre, negli anni in cui avevano frequentato la casa, avevano già individuato i pezzi migliori, ma non disperavano di trovare qualche tesoro nascosto. La prima modesta sorpresa la ebbero quando aprirono il cassetto del comodino dove avevano visto, più di una volta, posati su un rettangolo di velluto verde, i gioielli della sig. Amalia. Ora posato sui gioielli, c’era un cartoncino rosa pallido sui cui era scritta, con la grafia elegante e tremula della sig. Amalia, una breve frase: “Neppure la materia inerte sopravvive quando la si usa senza amarla. Amalia Bonajuto”. La ragazza lasciò il biglietto e subito prese la collana di perle, bianche come non credeva fossero le perle vere, la allacciò al collo, ma la collana si spezzò inaspettatamente, e le perle scivolarono fra le mani e rotolarono sotto il letto e l’armadio. I tre le cercarono a lungo, trascinandosi in ginocchio per la camera, la spazzarono con cura, frugarono nel sacchetto dell’aspirapolvere, ma non riuscirono mai a ritrovarle tutte.
Naturalmente risero del biglietto e non fecero caso al piccolo disastro, né ai guasti e alle rotture che seguirono. Parevano normali in una vecchia casa, ma non era così. Una pena segreta si stava diffondendo fra le cose, come un’epidemia, e gli oggetti della casa incominciarono a rompersi l’uno dopo l’altro, a sciogliere le proprie parti, a disfarsi irreparabilmente; e cedevano sotto il peso di una mano, interrompevano il loro moto, si spegnevano, si spaccavano. La teiera di porcellana lasciò il manico fra le dita della ragazza e si ridusse in pezzi, la tovaglia di lino agganciò un lembo alla maniglia e si strappò, il piano di onice del tavolino del salotto si spaccò improvvisamente; le lampade non si accendevano, le poltrone si sfondavano e le sedie perdevano le gambe, le finestre si incastravano; il televisore si guastò e il telefono restò muto. Tutti gli orologi in breve rimasero fermi, tranne la vecchia pendola del salotto, ma quando l’uomo provò a rimetterla sull’ora giusta le lancette gli si spezzarono sotto le dita; la pendola continuò per un poco a segnare le ore, senza che nessuno potesse leggerle, finché, con un ultimo, imprevedibile rintocco stonato, all’improvviso, mori. E il lavandino in bagno, ormai, era definitivamente intasato.
Già dai primi giorni nessuno dei tre aveva voluto sedersi nella poltrona accanto alla radio, dove alla sig. Amalia era piaciuto trascorrere i pomeriggi. Dopo qualche settimana non avevano neppure il coraggio di aprire un armadio o di infilare la mano in un cassetto. Un portariviste di ottone rimase per parecchi giorni in mezzo al corridoio, ingombrando il passaggio, senza che nessuno osasse spostarlo, finché la donna gli diede un calcio che, inevitabilmente, lo ridusse in pezzi.
Ormai si erano ridotti a vivere nella casa come in esilio, estranei a tutte le cose, e se ne rendevano conto, anche se ancora non lo confessavano. Durante la notte sentivano chiaramente il lieve e lungo cigolio delle viti che si svitavano, lo scricchiolio delle giunture che si aprivano, dei meccanismi che si separavano, il fruscio di una trama che si allargava. La mattina dopo verificavano che la bilancia della cucina si era aperta, sparpagliando sulla tavola le sue viscere di alluminio e plastica, e la tenda di pizzo era ridotta a un mucchietto di filo bianco ai piedi del balcone.
Un pomeriggio la ragazza, con le sue urla isteriche, fece accorrere persino la portiera del palazzo. Aggrappata al marito singhiozzava e ripeteva: l’ho vista, era lei. Ha attraversato tutta la stanza con la sua vestaglia a fiorellini.
I tre rifecero le valigie e abbandonarono la casa della sig. Amalia. Poco dopo la vendettero insieme a quanto ancora conteneva. Comprarono un nuovo appartamento al centro e un’automobile da trenta milioni. L’auto gliela rubarono e la casa sbriciolò al primo terremoto.