IL ROSSO E IL NERO
anno 2, numero 5, giugno 1993
saggi: il Comico, pp. 32-37
Daniela Marcheschi
In margine al Comico
Diceva Charles Baudelaire – nel saggio intitolato De l’essence du rire et généralment du comique dans les arts plastique – che il riso umano è intimamente legato all’accidente di una caduta antica, di una degradazione fisica e morale. È forse per questo che un corpo che reca i segni, l’immagine di una miseria forte e non ancora del tutto trascorsa colpisce la nostra mente e ci fa subito ridere: penso alla buffa figura di Charlot o di Stanlio e Ollio, a Keaton, a Totò (in Uccellacci e uccellini accostato da Pier Paolo Pasolini a Ninetto Davoli), a Sergio Tofano, al trucco pronunciato di Petrolini, a Woody Allen o Roberto Benigni che, prima di ogni altra cosa, producono una reazione per la maschera comica, carnevalesca dei loro volti, dei loro corpi privi del fascino standardizzato proposto dal cinema e dalla televisione. Per gli antichi Greci, komos – da cui deriva la parola Comico – era la festa con i conviti, con i riti orgiastici in onore di Dioniso: dio dell’abbondanza, della fioritura, della fertilità, non per nulla al centro del mito di morte e resurrezione caro agli Orfici. Per tutto questo il comico è anche gesto di libertà, di giudizio, di rinascita morale appunto. Il Comico, al pari del Sublime, non sta infatti mai nell’oggetto, bensì nel soggetto; ed ambedue sono il frutto dell’intuito e del gusto, inteso come spessore, senza posa raffinato, della cultura. Come è possibile cercare, esprimere la Bellezza solo se la si vede, la si ricrea e la si porta dentro di noi, cosi accade per il comico: è il ridente che vede incarnati degli anti-valori in ciò che gli sta davanti, che trova quindi il ridicolo nell’oggetto. Essere sé ed uscire da sé come un osservatore obiettivo è dunque l’azione del ridente che Luigi Pirandello, nel saggio sull’Umorismo, avrebbe poi spiegato come “sentimento del contrario”, contrapposto al semplice “avvertimento del contrario” proprio del Comico, in quanto scisso dalla riflessione. Ma Umorismo, Satira, Sarcasmo, Ironia sono forme del comico che hanno modellato di sé tanta grande letteratura – da Aristofane a Plauto, da Marziale a Belli, da Machiavelli a Molière, da Orazio a Manzoni, da Sterne a Collodi, da Luciano a Leopardi – ed è difficile, spesso, poterne delineare nettamente i confini, tanto le une si stemperano e si compenetrano nelle altre.
Non è mio intendimento fare qui una classificazione ed una storia del Comico, cosa che Paolo Santarcangeli ha già ampiamente compiuto con il suo Homo ridens. Estetica, Filologia, Psicologia, Storia del Comico (Firenze, Olschki, 1989) a cui indirizzo volentieri quanti volessero approfondire l’argomento o semplicemente attingere alla ricca bibliografia. Vorrei piuttosto cogliere l’occasione per fare alcune riflessioni sulla letteratura e cultura italiana dell’Ottocento e del Novecento in rapporto al tema che qui interessa. Non è un caso che nelle classifiche dei best-sellers, troviamo oggi a imperversare molti libri di umoristi: Gino e Michele, Covatta etc. Solo gli snob possono storcere il naso: questa preminenza ha un’origine antica. Anthony Shaftesbury l’aveva capito molto bene: “Quando si vieta agli uomini di riferire seriamente il loro pensiero su certe cose, essi lo faranno con l’ironia. […] Quanto più forte si farà l’oppressione e tanto più amara sarà la satira. Quanto più grave la servitù e tanto più violenta la buffoneria. Che ciò sia veramente così, è dimostrato chiaramente nel caso dei paesi in cui la tirannia spirituale è più forte. Per questo, gli Italiani sono i più grandi tra i buffoni; nella letteratura, nelle conversazioni più aperte, nel teatro e sulla strada, il motteggio e la burla sono in gran voga presso di loro. Infatti, per quegli uomini infelici e sfortunati, è quello l’unico modo per dare espressione a qualche pensiero più libero” (in Essay on the Freedom of a Wit and Humor, cap.IV). La situazione ancora oggi è tragica e ridere è una vetta, un’affermazione di libertà, un dovere e un piacere per gli Italiani; ma, come ammoniva Cesare Zavattini, “un vero scrittore […] è sempre anche un umorista, mentre invece un umorista non è sempre uno scrittore, nel senso che uno scrittore ha più ancora dell’umorista la funzione di dirigere il tiro come risposta a quelle domande che sono sempre più profonde del tempo nel quale viviamo” (in “Tuttolibri”, 16 gennaio 1977). Ed aveva ragione, perché uno scrittore autentico non può fare a meno né del sentimento della tradizione né del sentimento morale come lo intendeva Leo Ferrero, ossia come la capacità di reagire di fronte all’ingiustizia del mondo: in breve, di elaborare una propria visione delle cose che gli consenta di reinterpretare, ricostruire appunto un mondo. Chi si pone il problema del romanzo quale forma architettonica, e non banalmente mimetica per azione di residui pregiudizi tardo-naturalistici, sa di doversi accostare, sul piano speculativo, ad una complessa serie di mediazioni culturali per creare una struttura formale in cui c’è spazio per tutto – l’elemento tragico, quello comico, quello elegiaco etc. – quantunque poi sia possibile imprimere al nuovo organismo un tratto prevalente: si ricordi l’ironia funambolica e giocosa che contrassegna Palazzeschi o quella irridente e paradossale di Svevo il cui ‘malato’ personaggio Zeno Cosini si rivelerà infine l’unico sano di una società borghese perbenista e calcolatrice, che s’immagina possa perire in una futura, grande esplosione della terra. Né mancano scrittori odierni – nelle varie gradazioni del Comico – in grado di lasciare un segno, di far lievitare la realtà nella sfera dell’ironia derisoria e dissacrante, oppure sottile, ma pur sempre diretta verso una società e degli esseri umani conformisti e compresi della propria arroganza, delle proprie certezze materiali e intellettuali. Penso a Giuseppe Pontiggia, in specie al quadro comico e grottesco che ci ha dato della realtà metropolitana contemporanea con La grande sera e Le sabbie immobili; all’ironia cupa di Horcynus orca di Stefano D’Arrigo; ma anche alle opere di Francesca Duranti, del graffiante ed effervescente Aldo Busi, di Stefano Benni, o di Gaetano Neri e di Fabrizio Dentice; e, fra i più giovani, di Ermanno Cavazzoni, Paolo Codazzi, Gianni D’Elia, Giovanni Pascutto, Clara Sereni.
Mi sono spesso chiesta perché la critica italiana abbia talvolta o poco valorizzato alcuni di questi autori o, nei casi più fortunati quando ne ha messo in rilievo il lavoro, abbia poi finito con circoscriverne la portata, magari entro limiti di genere. Forse perché l’indigenza del romanzo di cui ha sofferto la letteratura italiana si è rivelata, di necessità, deleteria anche per la formazione della critica odierna, in specie ora che i resti della cultura decadente mostrano, nell’ostinatezza degli epigoni, tutto il consumo delle loro corde. Fare letteratura non significa né ripetere pedissequamente i modi della tradizione di cui ci viene consegnato direttamente il testimone, perché tradizione è anche l’affidare qualcuno o qualcosa per via di tradimento; né soltanto attingere alla realtà, alle proprie esperienze di vita oppure a quelle viste vivere da altri, con l’idea che la vita è migliore e più perfetta ispiratrice dell’arte. Un artista, un romanziere vero, deve anche essere colto, deve saper attingere alla letteratura in maniera critica oltre che alla realtà che lo circonda. Quest’ultima dovrebbe così essere osservata, rimeditata, attraverso la letteratura, criticamente e problematicamente assunta, perché è l’arte, la letteratura, che ci fornisce gli strumenti culturali più idonei per penetrare nella realtà stessa. La critica autentica dovrebbe per l’appunto vagliare e storicizzare anche tutto questo, nel momento in cui si accinge al suo rischioso, ma indispensabile compito di scegliere, lodare, accusare, spiegare, interrogare, interpretare, giudicare, valutare. E ora necessario più che mai che l’attuale critica italiana ripensi sé stessa insieme al romanzo italiano moderno e contemporaneo. Un tale esame dovrebbe riguardare non solo le metodologie interpretative, il loro uso, la loro funzionalità in relazione al ruolo della prassi critica prima individuato, ma anche la reinterpretazione sul piano storico delle linee formali portanti della letteratura romanzesca più recente in Italia. È un fatto, ad esempio, che noi continuiamo a ‘leggere’ il nostro primo Ottocento secondo lo schema interpretativo binario, assai poco discusso, ideato dal genio di Francesco De Sanctis, che subito individuò nell’opposizione Manzoni versus Leopardi, Romanticismo versus Classicismo, Scuola Liberale versus Scuola Democratica, gli aspetti salienti della produzione letteraria del suo tempo. L’ironia sterniana non gliene sembrava all’altezza; e non aveva tutti i torti, viste le opere a cui essa aveva dato vita fino a poco prima del fatale anno Milleottocentosessanta. Sennonché, la prima metà dell’Ottocento italiano fu appunto anche sterniana e Carlo Collodi – che in quel periodo formò il suo gusto e il suo stile è l’autore che ha assimilato e tradotto la lezione dello Sterne meglio degli altri, più compattamente e durevolmente, in uno stile personalissimo, in autonomo polo formale, grazie ad una valentìa linguistica senza pari. Proprio per la tenace fedeltà al modello sterniano, di cui Le avventure di Pinocchio sono uno straordinario e, per l’epoca in cui apparvero ‘inattuale’ esempio, non riusciamo a ben collocare nella storia letteraria del secolo scorso l’opera del Collodi, tutt’al più accomunata al bozzettismo toscano con cui ha non molto a che fare a livello formale… Eppure, tenerne presente la lezione di stile – costituito da una lingua in cui scritto e parlato (con abbondanza di pleonasmi anacoluti etc.) sono messi in contatto e fatti reagire a scopo ironico e satirico; dalla creazione di testi mistilingui in cui il carattere spontaneo dell’oralità è proposto per far letteralmente saltare la retorica tradizionale; dalla parodia del linguaggio alto, ma anche dal vaglio ironico dei luoghi comuni del parlare quotidiano – avrebbe forse meglio aiutato a comprendere il valore non solo della letteratura umoristica di Achille Campanile o di Ennio Flaiano, ma anche dei giochi linguistici di cui era intessuta la comicità di un Totò (e, ancor prima, di un Petrolini), poi ereditata da tanto moderno spettacolo teatrale e televisivo. D’altronde è significativo il fatto che Collodi rappresenti, nell’ambito del nostro Ottocento, uno dei pochi autori che non solo praticò con eccellenza e senza pentimenti il genere del Romanzo, ma che portò a termine anche un ciclo romanzesco (quello di “Giannettino” – un racconto con un manuale per le Scuole Elementari). Si sa infatti cosa pensò Manzoni; del suo travaglio intorno al romanzo; delle pesantezze, non possiamo asserire quanto correggibili, pur fra tanta genialità, delle Confessioni di un Italiano del Nievo; dell’abbandono impotente del Verga il cui incompiuto ciclo dei Vinti sta nella storia della nostra letteratura come le fondamenta di un monumento mai terminato. Sono queste le tare (troppa era l’arretratezza sociale del nostro paese, la sua lontananza dalla Modernità) che, dalla nascita, affliggono il romanzo contemporaneo italiano; i nodi che il nostro Novecento non sempre ha capito di dover sciogliere e superare in maniera vitale: si pensi, al contrario, al sogno tutto ottocentesco di Pratolini, quello di dare all’Italia il grande affresco romanzesco che essa non aveva avuto nel secolo precedente; ma quello che è storicamente definito, chiuso, è chiuso per sempre, e la storia scava cunicoli e tane di talpe ma non offre riparazioni retroattive.
Il riso è un ottimo avvio per la dialettica – diceva Walter Benjamin – e non è un caso che il Novecento italiano si apra così all’insegna dell’umorismo di Pirandello, di Svevo e di Palazzeschi, senza peraltro dimenticare Gadda e, più vicino a noi, Landolfi o Calvino. L’opinione di Fruttero e Lucentini, secondo cui mancano agli Italiani “la versatilità, la disinvoltura, la spregiudicatezza […], la curiosità e il piacere del gioco” per alimentare una vena umoristica nell’ambito della nostra letteratura (in “La Stampa Tuttolibri”, 23 maggio 1981), è certo eccessiva; ma forse è vero che la nostra critica ha ereditato dal De Sanctis – grande rimosso della cultura odierna, ma ancora suo archetipo attivo – un pregiudizio di ‘serietà’, peraltro poi viziato da decadenti visioni eburnee dello scrittore e dello scrivere, che andrebbero forse più spesso misurate su quelle famose affermazioni che Nietzsche fa in Così parlò Zarathustra, per cui il grande tragico, “come ogni artista, arriva alla vetta più alta” solo quando “sa ridere di se stesso”, e secondo cui “sia falsa per noi ogni verità che non è accompagnata da una risata”.