IL ROSSO E IL NERO
anno 2, numero 4, febbraio 1993
poesia e critica, pp. 68-71

commento critico

Maurizio Chiaruttini

Una voce per il buio

considerazioni sull’ universo poetico di Fabio Pusterla

    Certo la poesia non esiste al di fuori di itinerari di pensiero in qualche modo eccezionali e laterali rispetto all’esperienza feriale, e sono sicuro che anche Fabio Pusterla ha conosciuto talvolta l’ossessione di un ritmo o l’appello improvviso e immotivato di una combinazione di parole che reca in sé solo la promessa di un significato. Au commencement était la fabe, diceva Valéry.
Tuttavia, l’immagine che la poesia di Pusterla offre di sé e della propria genesi suggerisce altri percorsi e altri avvii: la scrittura sembra porsi come il prolungamento naturale della quotidianità vissuta, il luogo di una comprensione etica dell’esperienza.
La parola non sgorga da qualche zona segreta del nostro essere, è tutto sommato un gesto accanto ad altri che definiscono la concretezza dei nostri rapporti col mondo. E come ogni gesto che aspira all’autenticità, incontra ostacoli e resistenze, affiora da uno sfondo di passività e di inerzia:

Non senza shock si rompe l’uovo
per zabaioni e frittate, o sul cerchio
del tegame, per l’occhio
di bue; e neanche si prepara
il coktail senza shaker, e il ghiaccio
non si stacca (testardo) dal container, e
l’affilato coltello mutila
agrumi, affetta le tartine,
fruga i guizzanti visceri al salmone
per estrarne le uova, e quando
insanguinato appari, affranto, sulla soglia
il braccio teso, la risata, il vassoio,
la sigaretta
(l’improvvisa vertigine, il pronto
sostegno degli ospiti)…

    Quanto di sublime conserva la metafora tradizionale della vertigine poetica in un simile contesto di crude immagini culinarie? La poesia di Pusterla (quello appena citato è un frammento dalla suite Variazioni sull’emicrania, che fa parte della sua raccolta d’esordio) trova i propri emblemi nella fatica quotidiana, nello sforzo di estrarre qualcosa da una materia inerte refrattaria al senso. E il poeta, che ha “in mano cetrioli e carta igienica”, non ha nulla da offrire tranne la caparbietà di questo sforzo, non diverso dalla fatica stessa di vivere. Au commencement était la realité si potrebbe dire: un orizzonte intrascendibile scrutato nelle sue forme più opache e dimesse, nell’ovvietà dei suoi luoghi comuni, negli scorci di un paesaggio che spesso tradisce la presenza di scorie e detriti, figure della stagnazione del senso:

Le acque della pianura
si smistano in intrichi di canali;
sul fondo si immaginano gibbosità,
protuberanze melmose, rifiuti solidi.
Appena invece sommersi, o galleggianti,
fluttuano ciuffi d’alghe,
copertoni nerastri,
resti odorosi d’ incerta provenienza.

    Foglie secche, rovi, stoppie bruciate, protuberanze melmose. A questo ordine di apparizioni appartiene anche il Bockstenmannen il personaggio che sta al centro dell’ultima raccolta di Pusterla, con la quale egli si allontana per un momento dal dato realistico-autobiografico per dare luogo a un progetto poematico di ricostruzione fantastica di un’identità negata. Bocksten, a cui il poeta presta una voce, è una figura senza nome cancellata dalla storia, presenza residuale di un passato inghiottito dal nulla. Non si tratta di un personaggio del tutto fittizio: Bockstenmannen è il nomen dato alle spoglie di un uomo, vissuto più di seicento anni fa, che furono rinvenute nel 1936 in una torbiera sulla costa occidentale della Svezia. Lo scheletro, qualche ciuffo di capelli rossi e alcuni pioli di legno usati per trafiggere il suo corpo secondo un macabro rituale si sono conservati infatti grazie all’azione della torba. Il Bocksten, come i “resti odorosi d’incerta provenienza” del frammento appena citato, è dunque figlio della stagnazione e del fango, la sua presenza emerge da uno sfondo melmoso (“Il luogo: una torbiera,/una palude boscosa, e poco lontano il mare./Qui ritorna/fra alberi uguali… “). Ma che cos’è il fango? E’ “un composto di tutto ciò che viene abbandonato – hanno scritto Luc Dictrich e Giuseppe Lanza Del Vasto – è la misura del tepore e dell’umidità, di quanto ha avuto forma e ora l’ha perduta, la smorta tristezza dell’indifferenza”: la misura, potremmo aggiungere, di ciò che, sottratto al tempo del mondo, non ha più voce. Il Bocksten si caratterizza innanzitutto per questo; anzi, questo, insieme alle stigmate dell’originaria violenza che lo ha travolto, è il suo unico tratto. Egli è l’informe, l’escluso dal nostro orizzonte simbolico. Non una riserva di senso (come sarebbe invece una figura mitica) ma una carenza, un vuoto, una richiesta di senso. E’ un residuo opaco e senza voce che mostra la sua radicale indigenza e chiede di essere integrato nella totalità di un significato. II poemetto, composto da un insieme di frammenti ordinati secondo un disegno vagamente narrativo, mette in scena questo vuoto e cerca di colmarlo: “ho deciso per te la snellezza del viandante/ucciso per un motivo”, dice a un certo punto la voce poetante. Attraverso un complesso percorso immaginativo costituito da continui ribaltamenti del piano locutorio del discorso, il testo ci conduce dall’apparizione del residuo perturbante (“Eccole qui le ossa, biancheggianti,/e il senso ischeletrito/della vita: e della storia”) all’insorgere di una voce plurale, che non è più né quella immaginaria del Bocksten che racconta la sua storia, né quella del suo demiurgo e interlocutore. E’ piuttosto una sovrapposizione delle due; e di altre possibili:

E se il buio fosse di tutti, e servisse a qualcosa
tastarne gli scalini da basso inferno?
Se ci fosse qualcuno nelle gallerie parallele?
Piccoli abitanti dei piani interrati,
animali verdastri,
e voi gole bucate, lingue mozze,
tribù di perduti,
se la voce fosse comune, e il gesto giusto?

    Sul piano conoscitivo, sembra dire Pusterla, non c’è risposta al problema del senso: la realtà non offre nemmeno le schegge, nemmeno gli indizi di un possibile rimando alla pienezza di un significato. Lo sguardo disincantato si apre su uno scenario di cupa radicale opacità ontologica, violenza, enigma oppressivo. O altrove incontra le “piccole pietre uguali” delle tombe dci bambini di Crespi d’Adda, o il mosaico di Anna Brichtova: altri residui di altre storie negate. Sul piano conoscitivo non c’è risposta, “cammini/adagio, conti i sassi, non sai niente”. Ma c’è risposta sul piano etico: “ho deciso per te la snellezza del viandante/ucciso per un motivo”. Quella decisione, nella sua arbitrarietà e nella sua libertà rispetto all’orizzonte buio in cui si esplica, se non annulla lo scacco, apre però lo spazio di un possibile confronto con il mondo. La parola è un gesto senza pretese totalizzanti, ma un gesto comunque ambizioso, che reca in sé la nostalgia di altri, più concreti gesti impossibili:

Con i denti e gli artigli
costruiremo una nave grandissima
la riempiremo di tutto il vuoto,
di artigli, denti, idiozie, draghi, serpenti,
sarà la nave del vuoto, verrà presa da un gorgo.
E sopra ci metteremo un’isola di granito,
e le fessure della roccia le riempiremo di ghiaccio.