IL ROSSO E IL NERO
anno 2, numero 4, febbraio 1993
poesia e critica, pp. 87-88
nota di poetica
Un poeta catanese: contraddizioni barocche
Ricordo di scrivere da sempre. Scrivevo per graffiare il nero della paura, del silenzio. Ho attraversato la mia infanzia prigioniero in una torre di cemento armato, un ottavo piano senza aria e senza luce. Lassù i suoni della strada giungevano distorti, incomprensibili.
Giocavo da solo (il mio unico fratello nacque che avevo quasi nove anni). Dunque potevo leggere e potevo scrivere, immedesimandomi in vicende felici e avventurose, o creandomele.
Scrivevo poesie, brevi storie, disegnavo molto.
Tale condizione di chiusura era del tutto antitetica alla vitalità di Catania, la mia città “teatrale” (giusta la declinazione di Leonardo Sciascia), ingorda, brancatiana, e un po’ fatua, in cui i pavoni facevano la ruota nei viali del Giardino Bellini, e Ciccio Pernacchia commentava sonoramente i comizi dei politici. Era la Catania delle arene cinematografiche estive (qualcuna malandata esiste anche oggi, sopravvissuta a se stessa), degli innocui scippi nella zona della Pescheria o di Piazza Stesicoro, della certezza che la mafia non vi avrebbe messo piede. Crescendo e prendendo inevitabilmente conoscenza degli odori e delle voci di strade e piazze su cui s’affacciano sgomente facciate barocche, chiese e palazzi di nera pietra lavica, compresi quali suggestioni poteva e può ancora esprimere questa città insieme aristocratica e folle.
Mi raggiunsero quindi gli anni dei codici e delle affollate lezioni universitarie. La letteratura rimaneva però il mio angolo più riparato, con letture da Rilke a Sylvia Plath, ai lirici greci che andavo traducendo.
È di questo periodo (1981-84) la mia prima raccolta di poesie, quelle Letture senza spartito che sarebbero state pubblicate nel 1987. Poi un altro libro di poesia, La correzione del saggio, nel 1990, il racconto dell’uscita da una labirintica adolescenza, e poi ancora il filo sottile che mi ha condotto a questa pagina.
Renato Pennisi