IL ROSSO E IL NERO
anno 2, numero 4, febbraio 1993
racconti brevi, pp. 26-30
Francesco Gambaro
Serafina
Quell’estate l’estate non arrivò. La tessera della capanna di Mondello rimase a impensierirsi nel portafogli.
Fu la domenica della Pentacoste che cominciò a piovere. Non smise sino a Sant’Antonio.
Il tredici giugno la pioggia fu spazzata da un vento gelido di tramontana. Sembrava migrare oltre il mare plumbeo, unirsi alle onde per un tumultuoso lifting.
Serafina ed io stavamo tutto il giorno accucciati a letto. L’unico luogo al riparo dagli spifferi che zittiscono le stufe.
-Non siamo stati mai così uniti- le dicevo per rallegrarla. – S s s s s s s sì – balbettava senza sorridere, serrandomi con le mani inguantate, lanose.
Serafina ci teneva assolutamente a indossare il suo nuovo costume a puà. Così un giorno la pregai di farlo. Nuotammo per un pò sotto le coperte. Avevo provveduto a spruzzare le lenzuola di ambra solare per creare l’atmosfera. Poi.
La vigilia di ferragosto il vento si acquietò. Una luce compatta e alogena rischiarò anche la notte e fece perdere il nome ai giorni.
I brufoli si rinsecchivano sul viso senza maturare. Formavano mappa in evoluzione. Vagamente suggerivano la prossimità dell’autunno.
Guardandomi allo specchio lo trovai germinato di cespugli, sparsi e irti come la mia barba: -Orribile- mormorai. Serafina, quatta alle mie spalle, confessò di trovare tutto in effetti orribile Per questo mi abbandonava.
Appena si chiuse la porta due tuoni, con lunga scia di armonici, sigillarono la fine dell’estate. Un raggio di sole perforò il vetro e diede fuoco alla punta di lana della pianella destra.
Sperando che Serafina non fosse ancora uscita dal portone, corsi alla finestra. Mi sporsi troppo.
Adesso tutto si è normalizzato. L’autunno è entrato cauto il ventitré settembre dalle fessure delle persiane. Le tengo chiuse in segno di rispetto per la morte di Serafina. E anche di riconoscenza: se fosse scesa dalle scale più lentamente o più rapidamente non si sarebbe trovata giusto sotto il mio corpo in caduta libera.
Me la sono cavata. Un ginocchio rotto, una piccola escoriazione in fronte, qualche livido. Non lo farò più. Forse ho esagerato. Forse gli ho insinuato un sospetto.
-Non lo farò più- ho detto al commissario che mi ha interrogato in ospedale. – Per Serafina, per la sua memoria, non lo farò più.
Ma un poliziotto senza puzze al naso è fuori repertorio. Crea imbarazzo intorno e disdoro alla categoria.
Quel commissario aveva un modo di interrogarmi accomodante e notarile. Per lui la faccenda era già chiusa prima ancora di mettere piede in ospedale. Io gliela riaprii.
Ho detto che me la sono cavata. L’accusa di omicidio colposo non ha retto. Il mio avvocato ha sostenuto l’indimostrabilità della volontà suicida. La corte non se l’è sentita di escludere la tragica fatalità.
Alle nove e mezzo di ogni sera il commissario bussa alla mia porta, puntuale come un corvo. Si toglie la giacca e la cravatta. Si asciuga col fazzoletto sudore e moscerini dal collo: – Un autunno così caldo – ripete, con la stessa monotona inflessione delle parole d’ordine – non lo ricordo dal lontano cinquantaquattro.
Più per Serafina (che amava il mare per via dei suoi nuovi costumi) che per me (che non so nuotare, che illividisco al sole) ogni mattina reco il mio corpo nella spiaggia di Mondello. Lo lascio immobile per un paio d’ore tra la quarta e la quinta fila di bagnanti. Nel frattempo mi infilo nella fresca rosticceria di Alagna e inganno il tempo divorando ciambelle.
E’ un ottobre occiduo. Perfino i pesci, non trovando refrigerio nelle basse profondità, preferiscono il ghiaccio dei pescivendoli.
Non onoro gli impegni. Neppure quello sentitissimo di portare ghirlande sulla tomba di Serafina. Non parliamo del rinnovo della mia aspettativa, del pagamento della tassa per l’immondizia. A mezzogiorno, recuperato il corpo, sono già a casa. Le persiane serrate da dove filtra una bugia di frescura. Il ventilatore vortica sulla mia testa. A mia volta vortico, in senso opposto, per potenziare lo spostamento d’aria.
Alle nove e mezzo arriva il commissario. Si stende sulla sdraio. Mi richiama: – Si metta a sedere che sennò mi fa girare la testa. – A corto di fiato non posso rispondergli. Casco a terra e tutta la stanza, commissario compreso, comincia a vorticare.
Il sudore del mio ospite ha ormai irreparabilmente macchiato la tela grezza della sdraio. Durante la sua assenza assolve ad una funzione moschicida. Trasuda un lezzo di cultura poliziotta che squaglia anche gli spogliatoi della stanza. Io odio la mia sdraio. Non avendo la forza di odiare lui quando viene a trovarmi.
Così una mattina, di ritorno da Mondello, l’ho lanciata dalla finestra. E mi sono fregato.
Il commissario: una nuvola di grasso partorita dal ventre di ottobre. Si muove con finta pazienza da lumacone. Una schiuma soporifera va segnando il suo territorio.
Il commissario aspetta una mia confessione. Ora che la prova c’è. Che la mia alterazione mentale è rivelata. – Su – mi dice – ha visto che l’ha fatto un’altra volta. E’ più forte di lei. Parli e la faremo ricoverare in una bella stanzetta d’ospedale col condizionatore.
Quel caldo senza luce lo sopporto bene. Molto di più del mio inquisitore. Senza sdraio adesso ha scelto di interrogarmi in piedi. Ma continuamente cerca appoggi. I fianchi, il televisore, la vecchia stufa, il davanzale della finestra sono i suoi trampoli. E’ lui che dovrebbe ricoverarsi – penso, mentre gli schiudo una lattina di Pepsi.
Altre volte attacca lateralmente: – Così uccide Serafina due volte! – Io penso al suicida che si lancia nel vuoto e, in volo, si spara alla tempia.
Non dico niente. Alle volte gli uomini seguono percorsi linguistici diversi e non si intendono. Altre volte si trovano d’accordo su questioni diverse che credevano le stesse. Altre ancora mangiano in ristoranti indiani credendo di essere ad Amravati. Come scriveva Cartesio. Come pensavamo Serafina ed io.
La massa infuocata del commissario è, ormai, un contorno plastico e molliccio. Non so più con chi condivido questa cella. Se Serafina non fosse morta?
Le dita ticchettavano alacremente sui tasti della Remington. Le lettere fuggivano dal rullo e arredavano la stanza, spalancando le persiane, dispensavano stagioni per tutti i gusti.
Serafina dettava, sciogliendosi in amplessi vocali che mi sembrava impossibile trascrivere.
I nomi latitanti delle cose non ne negavano la sussistenza. Intuivo che la materia, confondendosi con altra materia, si trasforma in materia. Sentivo caldo, secondo i miei desideri.
Chiudendo gli occhi ne aprivo altri. Quelli di Serafina, quelli del commissario. Per cominciare, per finire.