IL ROSSO E IL NERO
anno 2, numero 4, febbraio 1993
racconti brevi, pp. 9-15
Marco Papa
Le braccia e la mente
“Sei sempre così pigro”, dice mio padre quando mi incontra. Io non gli rispondo, lo lascio dire. Quella parola, “pigro”, ricorda il nome di una bestiola. Io non replico, abbasso la testa, mio padre ride e scompare.
In ufficio, invece, sono molto rispettato. Il mio capo mi stima. Oggi ha voluto attestarmelo, chiamandomi da lui mentre accatastavo alcune pratiche, formando due torrette agli angoli opposti della scrivania. Faccio spesso queste operazioni, con le pratiche. Formo due torrette, poi le sparpaglio sul tavolo, oppure le apro a ventaglio, infine costruisco una sola torre mettendole una sull’altra in modo che ciascuna sporga sulla sottostante di qualche millimetro, in modo da dare alla costruzione una certa pendenza. Lui ha suonato il campanello e io mi sono subito affacciato sulla porta del suo ufficio, interrompendo il mio lavoro. Mi ha invitato a farmi avanti indicandomi la poltroncina davanti alla sua scrivania. Mi sono seduto. “Sono contento di lei”, ha detto affabilmente, con la sua voce calda e cortese, “e di tutti i miei dipendenti. Ma di lei sono particolarmente soddisfatto. Ritengo mio dovere comunicarglielo ora”. Chiunque altro, al mio posto, avrebbe pensato: qui ci scappa l’aumento. Io no, non ho pensato nulla del genere. Era soltanto un complimento che mi faceva molto piacere, mi faceva sentire utile e dava un senso alla mia fatica. Troppo timido per esprimere i miei pensieri ad alta voce, ho soltanto sorriso abbassando un pochino lo sguardo per l’imbarazzo.
“Lei è qui da poco”, ha aggiunto il mio capo. “Quanto sarà? “
“Cinque anni”, ho risposto
“Poco, poco”, ha commentato lui con aria triste.
Perché triste?, ho pensato.
Il capo ha detto: “Voi tutti, qui, vi impegnate molto, fate tutto quanto è in vostro potere perché il lavoro proceda e l’azienda vada avanti nel migliore dei modi. Il fatturato aumenta e l’azienda è prospera. Io vi sarò sempre grato…”A questo punto si è interrotto, era molto emozionato e all’improvviso faceva fatica a parlare. Tuttavia ha avuto la forza di proseguire: “Io vi sarò sempre grato per tutto ciò che avete fatto per me. Mi siete tutti, indistintamente, molto cari”
“La ringrazio”, ho detto io, con un certo imbarazzo, mi sentivo come se parlassi a una donna. “Anche lei è molto caro”.
Il capo ha tirato fuori il fazzoletto e si è asciugato qualcosa, non so se gli occhi o la fronte perché ho distolto lo sguardo.
“Io non sono uno che nella vita sia stato molto capace di prendere decisioni”, ha detto, tutto d’un fiato, come se gli costasse molto rendere quella confessione. “Tutto è accaduto grazie agli altri. E io sono felice di aver incontrato delle persone, nella vita, che prendessero decisioni al mio posto. Nel caso di questa azienda, siete voi, i miei impiegati, che avete sempre, in ogni instante, pensato a tutto”.
“Abbiamo soltanto seguito le sue indicazioni, eseguito i suoi ordini”, ho detto io. “Lei la mente, noi le braccia”.
Il capo ha atteggiato le labbra a un mesto sorriso, che poi si è trasformato in un ghigno sottile.
“Si, io la mente, voi le braccia. Tutto qui, nel mio cervello. Anche lei ha un’alta stima di me. Devo ringraziarla ancora. Eppure, mi spiace, ma devo toglierle un velo dagli occhi. Voi siete molto generosi, ma non vedete, non vi accorgete di nulla”.
Che pena sentire un capo parlare in quel modo! Avrei voluto alzarmi, fargli una carezza sui capelli, consolarlo. Era sconvolto. Naturalmente non mi sono mosso dalla mia poltroncina. E’ stato lui, invece, ad alzarsi, a fare il giro della scrivania, ad aprire l’armadio appoggiato alla parete di fronte. Ho potuto seguire i suoi movimenti girando con la poltroncina girevole. II capo ha preso uno dei grossi contenitori con le pratiche e se lo è portato alla scrivania. Lo ha aperto davanti ai miei occhi e ha estratto quantità di pratiche, tutte nelle loro brave cartelline colorate, sulle quali erano scritte le date.
“Vede?”, ha detto.
“Beh, si, vedo”.
Cominciavo a rendermi conto che lui aveva bisogno di una conferma per ciascuno dei suoi gesti, per ciascuna delle sue affermazioni, come se altrimenti avesse la sensazione di parlare al vuoto, nel vuoto, vuoto lui stesso.
“Queste pratiche sono vecchie di molti anni”, ha detto. E si è fermato.
“Si, lo so”, ho detto io.
“Bene”, fa lui, come rinfrancato. “Sono qui da più dei cinque anni che lei lavora qui”.
“Si”, ho detto io.
“Ecco, prenda”, ha detto, porgendomi una cartellina azzurra, “la apra”.
L’ho aperta: era una bozza di contratto che riguardava una certa transazione degli anni Settanta. Non ci trovavo niente di particolare. Ho dato una scorsa alla prima pagina, non ho trovato altro che le solite formule burocratiche, noiose e incomprensibili, che io evito sempre, per quanto posso, di comprendere, nelle pratiche che trascrivo. Il capo aspettava un mio commento con una certa trepidazione, lo sentivo respirare pesantemente.
“E’ un contratto”, ho detto io, sperando che la mia constatazione valesse a rassicurarlo.
Al contrario, lui ha preso ad agitarsi sulla sedia, si è grattato velocemente il collo, ha fatto un giro d’orizzonte con lo sguardo, come per controllare che non ci fosse nessun pericolo, nessuno pronto ad aggredirlo, e solo dopo un lungo silenzio, in cui si è chiuso in se stesso, e si vedeva che lottava, è riuscito a riprendere la parola: “Non è un contratto”, ha sussurrato.
Stavo ad ascoltarlo con un certo stupore, mi sembrava veramente troppo stanco per andare avanti, volevo dirgli che potevamo riparlare di tutto quando fosse stato più calmo, che non c’era fretta.
Ma lui: “Gliene leggerò qualche riga”, ha detto.
Ne avevo già letto qualche riga, e lui mi aveva visto, ma non era rispettoso contraddirlo.
Il capo si è messo gli occhiali e ha cominciato a leggere, partendo da un punto a caso: “15 giugno 1972. Giovedì. Serata al cinema con Silvia. Un tocco dolce alla giornata. Quella ragazza è incantevole, semplice, delicata, modesta. Ha il fascino di un’onestà pura, di una gentilezza scontrosa, di un garbo irriverente. E’ veramente adorabile… per chi sappia capirla”.
Ho avuto un sobbalzo sulla mia poltroncina. Vero che non avevo letto tutto, ma su quei fogli non poteva esserci scritto nulla del genere. Il capo si è accorto del mio turbamento; esso era anzi, in un certo modo, preventivato.
“Guardi, guardi”, ha detto, porgendomi di nuovo la pratica.
Mi sentivo molto a disagio a dimostrare la mia sfiducia, ma non sono riuscito a trattenermi dall’afferrare la cartella e dal leggere, stavolta attentamente, tutta la prima pagina, e poi la seconda, e poi la terza. Niente, nessuna traccia di Silvia. Dov’era quella dolce fanciulla, semplice e modesta, scontrosamente chiusa nel suo dolore? Pareva invece, per quel poco che potevo capirne, che si trattasse di un accordo relativo a una cessione di immobili.
“Dia qua, dia qua”, ha detto il capo, strappandomi la pratica con un gesto repentino.
“Gliene leggo solo un’altro pezzetto. Non voglio certo stare a tediarla. Ecco, ascolti: Lei è incapace di un movimento spontaneo, non possiede l’iniziativa effervescente, la trovata geniale, la spregiudicata verve di molte altre, e proprio in questa sua riservatezza sta l’interesse che suscita. Gli altri si limitano a considerarla dal punto di vista fisico e ad appiccicarle una determinata etichetta morale, io mi limito ad accettarla e a volerle bene”.
Non sapevo che fare. Come dirgli che il contratto non era una storia d’amore? Aveva appena detto di volermi – di volerci, a me e ai miei colleghi – togliere un velo dagli occhi. Dovevo essere io, invece, a strappargli il suo?
Il capo, non appena lette quelle righe, con calma, ha cominciato a stracciare, con lentezza esasperante, i fogli, uno dopo l’altro. Frammenti minuscoli come fiocchi di neve si accumulavano davanti a lui. Finita l’operazione, ci ha soffiato sopra e i frammenti si sono dispersi sull’intera superficie della scrivania. Solo a quel punto ha perso il controllo.
“Cessione di immobili?”, ha urlato. “Quale cessione? Sono solo turbamenti giovanili, affari di cuore, l’eterna ricerca della donna, l’impossibilità di raggiungerla, la frustazione di un imbecille! Cos’è una donna? Uno specchio che deforma la tua faccia, nient’altro. Che cosa è stato di me? Che cosa è stato tutto questo sforzo assiduo, fervido, questo studio appassionato, falso, in cattiva coscienza, in costante ammirazione, in devota riconoscenza, fin da quando ero bambino? Silvia non aveva iniziativa, i miei compagni credevano che fosse indifferente ai maschi solo perché si ritraeva quando loro allungavano il collo verso di lei e agitavano la lingua fra le labbra o la circondavano con le loro danze ignobili! Soltanto io la capivo, soltanto io ero in grado di penetrare i suoi reconditi… Ma lei non parlava, caro mio. Lei era immobile, lei stava zitta, e io mi specchiavo in lei, in lei splendeva il mio silenzio”.
“Ma cosa dice? Cosa dice?”, ho cominciato a balbettare. “Lei, nel 1972, aveva almeno cinquant’anni”.
E qui il capo ha cominciato a ridere, a ridere, a battere le mani sul tavolo come uno studente scalmanato. Rideva come un matto e io non sapevo se ridere a mia volta, se alzarmi e mettermi a ballare per la stanza, se battere anch’io le mani sulla scrivania facendo volare via tutto, come lui appunto stava facendo, o se richiamarlo all’ordine, alla coscienza, alla logica.
Quale ordine? Quale coscienza? Quale logica? Il capo si è strappato di dosso la giacca, l’ha fatta girare come un lazo e l’ha lanciata con tutta la forza contro la porta alle mie spalle, facendole sorvolare la mia testa. Quale ordine? Quale coscienza? Quale logica? Il capo ha gridato che le date non hanno nessuna importanza, che non è vero affatto che le cose succedono nell’esatto momento in cui succedono, che noi tutti, suoi stipendiati, siamo vittime di una mostruosa illusione, e che a lui duole dirlo ma nel 1972 non aveva più di sedici anni, che tutti si erano sempre fidati delle apparenze, del fatto che lui dirigesse un ufficio, che impartisse istruzioni.
“Io non ho mai impartito istruzioni”, ha detto freddamente sforzandosi di dominarsi, rimettendo le pratiche nel contenitore. “Voi tutti – lei da cinque anni, altri da molto più tempo di lei – avete sempre lavorato con pazienza, con senso del dovere seguendo regole, metodi, normative, grazie ai quali, alle quali, tutto si è sempre svolto in questa azienda con rigore. Ma io ho soltanto dettato le mie memorie. In questi contenitori non c’è nient’altro che la mia vita. Ci sono le date, scritte sopra. E’ tutto documentato, istante per istante, anno per anno. Non importa, poi, che in un determinato anno io abbia avuto sedici anni e in un altro cinquanta, e i cinquanta siano venuti quando ne avevo sedici e diciotto, che so, quando ne avevo sessanta, o che a sei anni io facessi le esperienze di un ottantenne. Mica si segue il calendario! Voi, voi avete sempre seguito il calendario, le scadenze, voi avete dato ordine all’esperienza, voi avete eseguito la partitura, che né io né voi abbiamo scritto”.
I suoi discorsi erano sempre più confusi. Ormai le sue parole non avevano più alcun senso. O meglio, avevano senso soltanto per lui. E la stessa parola cambiava di senso – ma questa era solo una mia impressione, a cui non riuscivo a trovare conferma – ogni volta che la pronunciava.
“Capisce, caro? Io dettavo, la partitura non è la mia. Non è la vostra. Ma io detto, detto in continuazione, e voi eseguite, e i contratti vanno in porto, e l’azienda fiorisce, e la vita si allarga e si assottiglia, e la collaborazione di tuti per il bene comune dà i suoi frutti. E’ solo questione, come dire, di un… malinteso preliminare. Perciò io vi sono grato. Tutto va bene. Qualunque pratica lei da ora in avanti si trovi a trascrivere si ricordi che si tratta di me, solo di me, che lei non sta facendo altro che il suo dovere ma non sta facendo quello che crede, e che tutto procede nel migliore dei modi, nel migliore dei modi, per una serie di malintesi di cui non siamo affatto consapevoli. Le ho letto di Silvia. Ma quante, quante ce ne sono! Potrebbero anche avere tutte lo stesso nome, che importa? Soluzioni, filosofie, fotografia, ricerche di una via reale, informazioni, apprensioni, estrapolazioni, sintesi, intuizioni, attenzioni, affetti, parole soprattutto… Intesi? Siamo tutti qui, nello stesso mondo, ora, vivi e morti, vivi con morti e vivi che in realtà sono morti e morti che in realtà già sono vivi. Giù tutto, dentro, via, giù, giù tutto. Intesi? Basta che voi facciate il vostro lavoro, che siate al vostro posto, che non vi stupiate di nulla. Io ho imparato a non stupirmi di nulla. Ecco qua. Vuole che mi metta a frignare come un neonato, a mangiare pappa davanti a lei? Che ci vuole? Apro un cassetto di questa scrivania tiro fuori un cucchiaino, un barattolo di omogenizzati e mangio, mangio. Lei può anche favorire. E ora, per favore, torni al suo lavoro. Poi parlerò con ciascuno dei suoi colleghi. Non ora. Ora sono stanco”.
Io mi sono alzato dalla poltroncina, rimanevo li in piedi davanti a lui, come davanti a un generale. Aspettavo un altro ordine, un secondo congedo.
“Che aspetta?”, ha detto il capo. “Può andare. Vada pure. La ringrazio. Lei è un ottimo elemento”.
“Arrivederci”, ho detto io.
“Arrivederci”, ha detto lui, tenendosi con le mani alla scrivania.
Mi sono voltato e sono uscito. Nello stanzone, i colleghi se ne erano andati da un pezzo. Ognuno aveva timbrato il suo cartellino. Io ho riordinato le mie pratiche sul tavolo, ho chiuso la finestra, ho timbrato il mio cartellino e sono tornato a casa. Nell’atrio del palazzo dove abito c’era mio padre, vicino all’ascensore, seduto su uno scalino. Fumava una delle sue pestilenziali sigarette. Quando sono arrivato ha guardato l’orologio.
“Sei sempre così pigro”, ha borbottato, mentre chiamavo l’ascensore. Io non gli ho risposto, guardavo le cassette delle lettere. “Sei così pigro”, ha detto ancora mio padre. L’ascensore è arrivato e io mi ci sono ficcato subito dentro. L’ascensore è partito mentre lui cominciava a ridere.