IL ROSSO E IL NERO
anno 2, numero 4, febbraio 1993
racconti brevi, pp. 16-25
Michele Miniello
Il riccio
Uscì nel freddo col disappunto di chi ha perso del tempo prezioso. Aveva ascoltato una sequenza di lamentele vaghe confuse. Il tema del dibattito era rimasto sul biglietto d’invito. Fortunatamente aveva preso posto nelle ultime file, e così non fu difficile guadagnare l’uscita inosservato. Pensò che anche l’uomo affrettatosi dietro di lui fosse annoiato, solo non aveva avuto il coraggio di andarsene per primo. Stranamente, però, accelerava il passo, cercava di raggiungerlo.
Al primo incrocio fu costretto a rallentare, e l’altro si mise al suo fianco.
“Buona sera” salutò, dopo aver fatto un leggero inchino. Era piuttosto basso, aveva folti baffi e la barba di tre o quattro giorni. Indossava un giaccone scuro con il bavero alzato. “E’ evidente che non ha gradito quei discorsi sconclusionati. Lei deve essere Emilio Senzani. Ho visto la sua fotografia su una rivista. Il suo racconto mi è piaciuto molto. Vorrei conoscerla” disse di un fiato tendendogli la mano. “Mi chiamo Olinto Vestri”.
“Piacere” gli strinse la mano con diffidenza.
Attraversarono e procedettero in silenzio. L’altro aveva infilato le mani in tasca e si era stretto nelle spalle, con il mento abbassato e gli occhi che guardavano di traverso. Sembrava pentito di avergli rivolto la parola. Sicuramente aveva dovuto fare un grande sforzo per parlargli. Forse aveva provato e riprovato mentalmente le parole da rivolgergli. Dal tono con cui le aveva farfugliate si poteva dedurre che non erano esattamente quelle preparate.
In quel momento non aveva voglia di parlare, e tantomeno con uno sconosciuto dall’aspetto strano. Si sforzò, tuttavia, di essere gentile.
“Sono solo un aspirante scrittore” si schermì. “Anche lei scrive?”
“Molto ma è come se non scrivessi niente”
“Non capisco…”
“Certo, è difficile spiegare. Ma lei non sarebbe così generoso da farmi leggere qualche altra cosa? Mi accontenterei anche di poche pagine”.
“E lei non mi farebbe leggere qualche suo scritto?”.
“No, non è possibile. Vede, io… scrivo, ma non scrivo, cioè esercito… Mi dica di sì. Verrò a casa sua, aspetterò fuori della porta, non la disturberò”.
“Non è necessario. Avremo modo di rivederci…”.
“Non si liberi di me in questo modo. E’ vero… il mio aspetto non è… incoraggiante. Mi esprimo male. Io sono una persona innocua. Mi occupo dei fatti miei. Non voglio essere invadente, anche se lo sembro. Desidero solo leggere… Lei ha talento. Può aiutarmi a portare le idee in terra…”
“Credo proprio di non seguirla”.
“Tutti i grandi scrittori, al contrario dei filosofi, sono riusciti a concretizzare un’idea, a farla scendere in terra… Io mi nutro di filosofia, ma anche di libri scientifici. Non so esattamente cosa cerco in essi, ma sento che devo fare i conti con la scienza. Leggo cose strane che non c’entrano niente, ma per me sono importanti”.
“Sono arrivato”. Emilio mostrò le chiavi della macchina. “E stato un piacere conoscerla”.
“Non mi tratti così. Non mi scacci come un insetto fastidioso. Le sue frasi di circostanza, però, non mi offendono. Capisco il suo stato d’animo… Le dispiace se mi permetto di darle il numero di telefono?” tirò fuori un pezzo di carta e scrisse rapidamente. “Ecco, vede, non lo do a molti. Se lei avrà la bontà di dirmi quando venire… Resterò fuori, non la disturberò”.
Provò tenerezza per quell’uomo in atteggiamento umile, disperato. Si rese conto di non avere davanti un seccatore importuno. Dietro quel parlare sconnesso si celava una fermezza che aveva solo il torto di non esprimersi chiaramente. E non poteva chiamarlo adulatore, nonostante gli elogi. La deferenza era gratuita e, tuttavia, non la percepiva come un trucco per avvicinarlo. Quella persona si stava facendo piccola, s’inchinava a lui solo per scambiare poche parole? Avrebbe potuto trovarne tanti disposti a chiacchierare. Coloro che hanno bisogno di familiarizzare a tutti i costi hanno un fiuto infallibile. Con lo sguardo agganciano la preda, entrano subito in sintonia con una facilità disarmante. Ma Olinto, più che parlare con lui, voleva aprirgli l’anima aveva già fatto breccia. Lo aveva scovato come un rabdomante e lo stava invischiando… Non era più sicuro di sé.
Si appoggiò col gomito allo sportello.
Olinto prese coraggio. “Sono certo che mi chiamerà” disse rinfrancato, “ed io correrò da lei. Non si spaventi. Sarò discreto, meno ingombrante dell’ombra. Saprò farmi da parte, attenere”.
“Temo di deluderla. Non vedo come lei possa avere tanta fiducia in me. Comunque, contento lei…”.
“Non mi tratti così, non mi escluda. Le assicuro, però, che non gliene voglio per il fatto che mette le mani avanti. La sua una reazione istintiva, legittima. Sia certo che non mi reca offesa”.
“Gentile signore, non so come io possa alimentare la sua speranza. Lei mi mette in imbarazzo. Se le cose non risulteranno come si aspetta, la responsabilità sarà sua, unicamente sua”.
“Mi chiamerà, vero che mi chiamerà?” pregò Olinto mentre Emilio entrava nell’auto.
Per qualche giorno ripensò a quell’uomo cui non sapeva dare un’età. Si propose di telefonare. Quando si decise a farlo, scopi di aver perso il pezzo di carta con il numero. Sul momento gli dispiacque, poi fini per dimenticare.
In una notte di fine agosto, non riuscendo a dormire per l’afa andò a passeggiare nel parco poco distante dalla sua abitazione.
Camminava lentamente, cercando di non pensare a niente. Non diede importanza a un rumore dietro ai cespugli né all’ombra che vide scivolare furtiva. Più avanti si fermò sotto un lampione spento che aveva di sicuro fatto bersaglio alle pietre scagliate da qualche monello.
“Impossibile dormire con questo caldo”. Una voce alle spalle interruppe la sua distrazione. “Questo è l’unico posto dove si può respirare. Sembra che tutti quelli rimasti in città si siano dati appuntamento qui… non mi ha riconosciuto”.
Emilio fece cenno di no con la testa.
“Deve aver smarrito il foglio con il mio numero telefonico…”
“Ora ricordo… Le devo tutte le mie scuse, ma è andata proprio così”.
“Le credo, le credo”.
“Sono desolato. Non ho potuto rintracciarla sull’elenco degli abbonati perché non ho buona memoria e, naturalmente, ho dimenticato il nome”.
“Non deve rammaricarsi. In realtà… io… avrei potuto suonare il suo campanello. Molte volte ne sono stato tentato”.
“Dunque lei sa dove abito”.
“Non si allarmi. L’ho seguito a distanza, con l’aria di chi se ne va per i fatti suoi. Dio sa quanto ho agognato fermarla, ricordarle… Ma non potevo. Consideravo ingiusto irrompere di nuovo nella sua vita”.
“Avrebbe dovuto farlo”.
“Restava sempre la speranza del telefono. In un angolino remoto della sua mente attendeva il mio numero. Prima o poi per caso, si sarebbe fatto prepotentemente avanti, avrebbe reclamato”.
“Mi dispiace di averle causato tanta ansia. Chiedo scusa per la mia sbadataggine e la smemoratezza”.
“Non è il caso che si punisca per me… intende preoccuparsi, darsi pena per un inezia. Non merito tanto. Vede, io sono un riccio, condannato a muoversi ai bordi della strada, tra le fratte, appallottolandosi per difesa ad ogni minimo pericolo con il rischio di essere schiacciato, giacché è sovente quella la fine della disgraziata bestiolina”.
Stavano camminando affiancati come due amici. Nessuno sembrava notarli.
“Non è d’accordo. Sbaglio?” aggiunse Olinto.
“Ho trascorso dei minuti con lei. Troppo poco per dire che la conosco. Mi sento però di affermare che esagera a sminuirsi in codesta maniera”.
“Lei ha capito tutto di me, non appena ho aperto bocca. Non ho il diritto di chiederle perché seguita a tenermi a bada con parole prese in prestito dalla gente comune, ma neppure la spudoratezza di indignarmene”.
“Confesso che in passato ho avuto la presunzione di considerarmi un conoscitore di anime, almeno fino a quando ho incontrato lei. Ammetto che ora sono disorientato”.
“Verso di me ha avuto la benevolezza di non accettar conclusioni a cui era pervenuto, e solo perché ha capito immediatamente”.
“Ebbene, si, è lei il vero conoscitore di anime”.
“Allora si spaventato di fronte a un suo simile?”
“E quale animale incarnerei?”
“Mi esprimo male. Sollevo polvere, la porto fuori strada. In realtà non sono un suo simile: lei mi sta sopravvalutando”.
“E pensare che mi sono sentito, per un attimo, lusingato, sul piedistallo…”
“E lei mi ha sollevato con sé…”
“Mi sta trascinando in un duello crudele. Non riesco a parare il suo fioretto”.
“Sono tentato di sentirmi felice, per quanto lo possa essere un riccio”.
“Mi arrendo. Avrà i miei scritti. Spero che possa fare anche di me un riccio felice”.
“E’ ora di togliere il disturbo. Ho approfittato troppo della sua pazienza. Buona passeggiata. Questa notte sarà impossibile dormire. Buona passeggiata.” Sparì con un balzo dietro la siepe.
Emilio alzò la mano per fermarlo. “L’indirizzo, il telefono…” reclamò inutilmente. Un gatto lanciò uno sguardo disgustato e sgusciò via.
Emilio non era superstizioso, ma da troppo tempo le cose andavano bene per lui. Si aspettava inevitabilmente che succedesse qualcosa di spiacevole, non poteva continuare così. Quando si arriva in cima alla salita, bisogna scendere. Aveva provato ad immaginare un possibile pericolo in agguato. Mai si sarebbe aspettato che un banale incontro potesse segnare l’inizio della tempesta. Cercava di contenere nei giusti limiti il fatto accadutogli, non preoccupandosi più di tanto. Ma il primo campanello d’allarme furono i sogni che di solito non ricordava, ed ora lo accompagnavano per tutta la giornata con petulanza, e si trattava sempre di spiacevoli incontri. Era giunto alla conclusione che, col passare degli anni, la maggiore consapevolezza del mondo spinge l’essere umano ad arroccarsi, a convivere con le proprie debolezze che, una volta accettate, finiscono per diventare un punto di forza, una protezione verso l’esterno. A ben riflettere, però, tutto congiura a spezzare l’equilibrio faticosamente raggiunto e, non appena si allentano le difese, qualche agente ostile s’infiltra, e sono guai. Si poteva aspettare una malattia, un incidente stradale, la maldicenza di un amico; e, invece, niente di tutto quello. Un uomo, dall’età indefinibile, si era presentato con le innocue pretese di un riccio, ed ora occupa la sua mente, era diventato un assillo, nonostante gli sforzi per non farlo diventare tale. L’invio dei suoi scritti sarebbe stata la logica soluzione della faccenda. Olinto si sarebbe reso conto che aveva preso un abbaglio e lo avrebbe lasciato in pace. Ma come farglieli avere? Non conosceva l’indirizzo e il suo nome non compariva sull’elenco telefonico. Non restava che aspettare una sua lettera o telefonata.
Trovò invece, nella cassetta della posta, un foglietto di Olinto con la preghiera di inviare gli scritti al fermo posta. Mise in una busta i racconti che riteneva meno riusciti e li spedì. Non appena la lasciò cadere nella buca per le lettere, si pentì, rimproverandosi di aver agito in quel modo. Faceva del male a se stesso e all’altro. Era probabile che Olinto fiutasse il sotterfugio e si offendesse per l’inganno. La sera stessa provvide a imbucare i testi esclusi.
L’immediato sollievo durò poco. Qualunque fosse stato il giudizio del riccio sui suoi scritti, di sicuro si sarebbe ricreduto sulla sua persona. Avrebbe colto il significato della divisione. Ma non era quello che desiderava? Non voleva liberarsi di Olinto e dei fastidi che egli stava procurando? Invece di sentirsi rincuorato, si accorgeva che il pensiero della delusione di Olinto lo rendeva inquieto, nervoso. L’amor proprio si ribellava. Non aveva sempre affermato che si scrive sempre per gli altri, anche il diario? Aveva trovato un lettore ben disposto, pronto a credere ciecamente in lui, e lo respingeva con un vile espediente.
Il sabato pomeriggio si trovò a cercarlo per le strade del centro cittadino. Più volte sussultò, credendo di scorgerlo, per rimanere poi deluso quando si avvicinava. Stanco di girare a vuoto, si risolse a riprendere la via di casa, ma facendo una strada più lunga per passare davanti alla stazione che, di solito, ha un’attrazione irresistibile per le perso svitate.
Esitò prima di entrare nell’atrio. Lo attraversò a passo svelto e si affrettò a rifugiarsi in casa.
Si impose di non pensare più al riccio. Per una settimana vi riuscì. Benché lo immaginasse divoratore di libri, era doveroso concedergli un pò di tempo. Ma, nei giorni successivi, apri la cassetta della posta con ansia. La delusione di non trovare una sua lettera cessò quando si convinse che il riccio non era il tipo di avere una corrispondenza. Come non averci pensato prima? Dal modo in cui si esprimeva, era facile concludere che sarebbe stato un tormento mettere per iscritto le proprie idee. Aveva ammesso la sua difficoltà con la penna. Non rimaneva che sperare di vederlo comparire, come forse era sua abitudine inaspettatamente.
All’improvviso si ricordava di lui e si voltava. Per qualche tempo camminò con l’atteggiamento guardingo di chi sospetta di essere pedinato.
Una sera, all’improvviso, lo scorse che camminava davanti a sé. Rallentò il passo in modo da mantenere la distanza. Olinto non si lasciava distrarre dalle vetrine e non sembrava minimamente curarsi della gente che passava accanto. Svoltò in una stradina poco affollata, attraversò una piazzetta semibuia, proseguì per un vicolo curvo per rientrare nella strada di prima. Poco dopo sviò di nuovo nella parte opposta.
Non voleva perderlo di vista, ma doveva usare prudenza per non attirare la sua attenzione: c’erano meno negozi alle cui vetrine poteva far finta di guardare, nel caso si voltasse. Giunto nel viale con traffico come al solito intenso a quell’ora, Olinto attraversò spericolatamente, costringendo le macchine a frenare.
Emilio invece si precipitò nel sottopassaggio. Quando risalì dall’altra parte della strada, si lanciò all’inseguimento. Fece in tempo a vederlo entrare in un portone.
Rallentò, indeciso su cosa fare. Certamente il riccio non avrebbe gradito di vederlo alla porta. Tutti i campanelli avevano il nome, accetto il primo in alto. Doveva essere il suo. Provò a suonare: la porta si apri dopo lunghissimi secondi. Sali le scale ripide e buie. Si avvicinava alle porte di ogni pianerottolo per leggere il nome dell’inquilino.
Olinto attendeva sulla soglia con la porta socchiusa alle spalle. Fece un passo avanti come per sbarrargli la strada, lanciandogli uno sguardo di disapprovazione.
“Se disturbo, vado via” disse Emilio.
“Ma come ha fatto a… Io non posso riceverla, non posso” balbettò Olinto.
“Volevo solo sapere sc aveva ritirato i testi”.
“Certo, certo. L’avrei cercato per…”
“Si sarà reso conto di essersi sbagliato”.
“Tutt’altro. E’ andato oltre le aspettative. Solo che mi trovo al punto di prima” rispose con voce inerte.
“Si spieghi”.
“Era meglio non chiedere aiuto, ora le sono in debito di riconoscenza…” La sua faccia era tirata e imbronciata.
“Non si crucci. Non mi deve niente”.
“Mi ha già cancellato dal suo orizzonte, e ha ragione. Ho per casa una tana e sono costretto a riceverla sull’uscio”.
“Le assicuro che sono contento di averla conosciuta”.
“Vede, il massimo che posso aspettarmi dagli altri sono le banali parole di cordialità, e anche lei non fa eccezione. Ma non sono adirato. A un riccio non si dedicano poesie”.
Grida di protesta giunsero dal piano di sotto. Si affacciò alla ringhiera una testa calva, squittiva le sue rimostranze verso l’alto.
Olinto afferrò Emilio per un braccio, lo spinse verso il muro, lo tirò a sé. In preda a un panico eccessivo, lo trascinò dentro e spense la luce.
Emilio rimase fermo senza tentare di liberarsi dalla sua presa. Restarono in ascolto. La voce si allontanava, diminuita di intensità, fino a scomparire dopo il tonfo della porta sbattuta.
“Avete avuto qualche diverbio?” Emilio allungò la mano in cerca dell’interruttore. L’altro lo lasciò fare, e tornò la luce nella stanza.
Il letto, il tavolo e l’armadio lasciavano poco spazio libero. Vi erano alte pile di libri appoggiate sul pavimento. Altri erano ammucchiati sul tavolo e sopra il davanzale dell’unica finestra e in alto sull’armadio, fino al soffitto. Sotto il letto che sembrava un giaciglio per cani erano sparsi giornali e riviste. Una tendina fiorata copriva il vano di una porta.
“In una tana non si sta comodi” deglutì. “E ora capisce perché non le ho dato il mio indirizzo”.
“Tolgo subito il disturbo”.
“No, no, resti… ormai… ha visto… Le va un caffè? “
“Sarà bene che vada”.
“Preparo il caffe” si risolse e scomparve dietro la tenda.
Si udì lo scricchiolio di uno sportello e lo scroscio dell’acqua. Ricomparve fregandosi le mani. “Sarà pronto in un minuto” disse. Liberò la sedia dai giornali e lo invitò a sedere. “Le cose grandi sono riservate ai grandi, gli abissi ai profondi, le finezze e i brividi ai sottili” recitò. “Ma una cosa ha dimenticato quel farabutto di Nietzsche: l’insolenza sui deboli è riservata ai deboli…Quel vecchio decrepito del piano di sotto regge l’anima con i denti, è più pavido di un fringuello: solo con me riesce a far il prepotente. Lo vedesse per strada o nei negozi, lo prenderebbe per un tisico, un mendicante. Gli è bastato guardarmi una volta negli occhi per trasformarsi in una spina. Non mi è più possibile accendere la radio; immediatamente batte con lo spazzolone sul soffitto: di certo deve salire sulla sedia per arrivarci. Prima o poi si romperà l’osso del collo… Di notte sono costretto a muovermi in punta ai piedi. Se poi cade un libro… Credo che non dorma mai. Passo sempre con un pò di apprensione davanti alla sua porta. Mi aspetto che esca ad aggredirmi con un bastone”.
“Perché non lo affronta? Gli faccia intendere che non è più disposto a tollerare…” Olinto fece segno di abbassare la voce. Portò la mano all’orecchio. “E’ furbo. Appena resterò solo, me la farà pagare. Sembra che passi il tempo ad aspettare di cogliermi in fallo e, per qualsiasi inezia, mettere in atto la sua perversa strategia: cerca di minare la mia resistenza nervosa, vuole anche lui la vittima su cui infierire. Gli esseri umani si dividono in due categorie, le vittime e i carnefici. Ognuno è alla ricerca della sua piccola vittima”.
“Ed io dovrei essere la sua vittima…”
“Non è così… non voglio che sia così… Avrà notato che ho preso tutte le possibili precauzioni per…”
“Dunque gli inevitabili rapporti con gli altri, la comunicazione non sono altro che ricerca della vittima?”
“Per questo me ne sto per i fatti miei… “
“Ma quando ha intravisto in me la sua possibile vittima, non ha esitato a procedere”.
“Ho perso il controllo, mi sono sentito risucchiato da una forza irresistibile. Me ne sono subito pentito. Per tutto questo tempo sono stato tormentato dal pensiero di essere intervenuto come un elemento di disturbo nella sua vita. Mi sono offerto come vittima e invece… “
“Era inevitabile… Potrebbe essere la dimostrazione che il valore dell’agire non è risposto nel valore della sua intenzione”.
“Anche lei, dunque, crede che il terribile tedesco… abbia in qualche modo… ragione”.
“Il farabutto, come lei lo ha definito, ha cambiato le carte in tavola, ci ha messo nei guai. Anche lei ha creduto di trovare la soluzione nel suo superbo arroccamento… ma, poi, è stato costretto a uscirne, a riconoscere in sé la bestia e rientrare nella regola… “
“Ma io non sono un cinico!”
“Chiunque, all’occasione, può diventarlo”.
“Faccio di tutto per non esserlo”.
Al gorgoglìo crescente della caffetteria, si precipitò dietro la tendina. Tornò con tazza e piattino. Benché li reggesse con accortenza, fece cadere il cucchiaino. Nel tentativo maldestro di afferrarlo, rovesciò tutto. Lestamente raccatto i ciocci. Confuso e desolato borbottò parole di scusa e asciugò con un tovagliolo.
“Non ho altre tazze. Devo servirglielo in un bicchiere. Forse è finito anche lo zucchero….” si portò le mani ai capelli.
“Non importa. Sarà per un’altra volta… Ora devo proprio andare”.
Emilio s’intenerì di fronte alla sua agitazione. “A presto” salutò e uscì sul pianerottolo.
“Con quest’acqua si sciuperà le scarpe di camoscio” si preoccupò Olinto.
Solo allora Emilio si rese conto, guardando la finestrina che rischiarava le scale, che stava piovendo a dirotto.