IL ROSSO E IL NERO
anno 1, numero 3, ottobre 1992
saggi: il Tempo, pp. 37-41
Federico Vacalebre
Temporock
All’inizio, quando il rock and roll era ancora un bambino, figlio (bastardo ma prediletto) di una ribellione (rivoluzione?) sessualmusicalpoliticoculturaleconomica aveva il tempo dalla sua parte. “Time is on my side” proclamavano i Rolling Stones, mentre Mick Jagger giurava che non avrebbe mai più cantato “Satisfaction” dopo aver varcato la fatidica soglia dei trent’anni. Gli Who, dal canto loro, promettevano che avrebbero smesso di intonare l’inno riottoso di “My gencration” appena diventati dei “matusa”.
Di lì a poco Stones e Who avrebbero scoperto l’ineluttabile legge del tempo, accettando anche da nonni, di ripetere all’infinito gli antichi inni: “Il tempo non aspetta nessuno e non vuole aspettarmi/ Il tempo può far crollare un edificio/ o distruggere il viso di una donna/ Le ore sono come diamanti, non sprecatele/ …Gli uomini costruiscono torri alla loro fuggevole esistenza, alla loro fama immortale/Eccolo che arriva per mietere e raccogliere/ eccolo che ride ai loro inganni/ Il tempo non aspetta nessuno e non vuole aspettarmi/ i sogni della notte svaniscono all’alba”. (“Time waits for no one”). Rolling Stones, 1974.
Il rock diventa adulto. I rocker sono accettati dal proprio secolo quando smettono di giocare con la morte, scoprono che anche per loro esistono i limiti della pensione, del rincoglionimento senile, del viale del tramonto. Jimi Hendrix, Brian Jones, Jim Morrison, Janis Joplin, Elvis Preslet, John Beluschi, Sid Vicious, Ian Curtis sono i simboli di un rock che sfida, romanticamente e ingenuamente, il proprio tempo, John Lennon la prima vittima di un rock succube dei propri tempi.
“Ero giovane quando me ne andai da casa”, canta Bob nel ’61 (“I was young when I left home”). Il sogno del rock and roll, la scoperta del sesso, la prima generazione libera (o quasi) di vivere la propria vita. La voglia di cambiare la società, di fermare il tempo. Nel ’64 mister Zimmermann scrive l’inno della rivoluzione mancata: “Venite madri e padri/ da tutto il paese/ e non criticate/ quello che non potete capire/ I vostri figli e le vostre figlie/ non li potete condannare/ La vostra vecchia strada/ sta rapidamente invecchiando/ Andatevene, vi prego/ dalla nuova/ se non potete anche voi dare una mano/ perché i tempi stanno cambiando” (“The times they are a-changin”).
Ma i tempi non cambiarono, almeno non cambiarono come ci si aspettava. E cambiato Dylan, siamo cambiati noi, ma i padroni delle guerre (Masters of wars) sono ancora qui. Mentre i Sex Pistols urlavano che “non c’è futuro per me e per te” (God save the Queen) e David Bowie, dopo essersi illuso di poter essere un eroe “almeno per un giorno”, confessa che “forse stiamo mentendo…/ ma potremmo essere al sicuro/ almeno per un giorno” (Heroes). I tempi non cambiano, non si sogna più di diventare eroi, basta vivere. Sopravvivere.
I segni del tempo, spiega Prince con Sign of the times, sono quelli dell’Aids. “Non è tempo di discorsi politici/ questo è il tempo di agire/ perché il futuro è a portata di mano/ Questo è il momento/ …Non c’è più tempo” ribadisce Lou Reed (“There’s non time”). Che non ci sia più tempo da sprecare, che le possibilità non siano più tutte a portata di mano lo scrivono a lettere cubitali i Pink Floyd: “Sciupi e sperperi le ore in una strada fuori mano/ vagando in un pezzetto della tua città/ nell’attesa che qualcuno o qualcosa ti mostri la strada/ stanco di startene al sole di restartene a guardare la pioggia/ Sei giovane e la vita è lunga, c’è tempo per l’ammazzare l’oggi/ …E poi un giorno scopri che ti sei lasciato dietro dieci anni/ nessuno ti ha detto quando correre e hai perso il colpo di partenza/ E corri, corri per raggiungere il sole, ma sta calando/ e corre in circolo per rispuntare dietro di te/ Il sole è lo stesso, nella medesima via, ma tu sei più vecchio/ col respiro più corto e di un giorno più vicino alla morte” (Time).
Viviamo nell’“età del ghiaccio”, sussurrano malinconicamente i Joy Division, “niente rimarrà, niente andrà bene al freddo nesssun sorriso sulle tue labbra (Iceage). Non resta che scopri la nostalgia, sognare il “back to the future”, il ritorno al passato, riscoprendo sapori ed emozioni del “tempo perduto”, dell’innocenza svanita. “Forever young” canta Dylan. Ma si può davvero essere per sempre giovani?
Strada facendo, il rock diventa adulto, anziano, si lascia istituzionalizzare. Ma qualcuno, studiando i mille insegnamenti del buon John Cage, scopre il segreto per ringiovanire. La macchina del tempo si chiama amnesia. “Happy new ears” e cioè buone nuove orecchie, augurava agli amici musicisti Cage, giocando con l’assonanza col classico “Happy new years” di fine anno. Un paio d’orecchie nuove vuol dire non aver ascoltato tutto l’ascoltabile, diventare – come Marcel Duchamp – ingegneri del tempo perduto, poter ancora inventare quello che già hanno inventato Hendrix c i Beatles, i Velvet Underground e Buddy Holly. Significa fingere di avere, almeno nel rock and roll, un domani, un futuro.
All’inizio, insomma, il rock and roll è un fantascientifico salto nell’utopia realizzabile. O almeno così si presenta. Poi diventa museo del tempo andato, o si finge di non ricordare che tutto è stato già detto, tutto è stato già suonato. E ricomincia daccapo, con minime – ma a volte fondamentali – variazioni. Nello stesso tempo però, al fianco di quella suggerita da Cage, i rocker più arditi si scoprono un’altra macchina del tempo. Non quella del suono fantascientifico dei Gong, che inventano altre ere, altri pianeti, altri popoli, né dei Magma, che coniano persino un altro linguaggio. Quella della musica possibile, categoria fittizia in cui si incontrano avanguardisti e nuovi tradizionalisti, sperimentatori folli e cantautori, menestrelli folk e teorici del suono da tappezzeria. Le nuove orecchie della musica possibile, di questo rock intellettual-viscerale, rifuggono da qualsiasi amnesia, si rivolgono anzi a tutto lo scibile musicale e lo miscelano, in maniera più o meno lucida, quasi alla stregua di un imprevedibile cut-up burroughiano. I neri, inventori del rock scippati da Elvis, diventano campioni di hard rock ed heavy metal, finora suono bianco per antonomasia. Nel nome della world music il didjcridoo degli aborigeni australiani incontra i cori bulgari, un flauto cinese punteggia una giga irlandese, un bouzoki scandisce un indiavolato twist elettronico. Peter Gabriel si trasforma in una popstar Nustrat Fateh Alì Khan, sacro cantore della religione sufi. I brasiliani coniugano samba e reggae. Il rap, voce del ghetto a stelle e strisce, attecchisce in Venezuela, nel Salento, a Taiwan, in Russia… In discoteca si ballano ritmi infernali abbelliti con voci e assoli di musicisti morti decenni fa. La parola d’ordine è crossover. Creatività è confusione. (Con)fusione è creatività.
Una musica minestrone che ingloba qualsiasi ingrediente, qualsiasi spezia, che annulla distanze geografiche come temporali. Un rock – se ha ancora senso chiamarlo così, mentre da più parti se ne celebra il funerale o la resurrezione – onnivoro, che pone, ma in maniera diversa da quanto fatto fino ad adesso, la questione temporale al centro del dibattito sulla sua vitalità. Non è un caso che il più importante festival italiano di musiche possibili si chiami proprio “Time zones”. Roberto Ottaviano, jazzista aperto a esperimenti e contaminazioni, sintetizza magnificamente la questione: “Sei a bordo di un aereo che percorre la rotta Roma-New York. Sei ore di differenza. Hai con te un walkmen e ascolti Louis Armstrong, musica di sessant’anni fa. Poi leggi un libro scritto due anni fa e guardi la televisione dove un tale ti dice che succederà domani. In quale tempo sei tu? Il tempo e la sua concezione costituiscono il minimo comune denominatore, il magico elemento in base al quale gli elementi si relazionano e gli stati (stadi) emotivi, percettivi vengono a stabilizzarsi”. La musica, nata come espressione spontanea e diventata industria del tempo libero, torna a raccontare l’uomo, grazie proprio all’estrema sofisticazione della tecnologia messa sua disposizione: “La memoria ‒ continua Ottaviano ‒ può diventare memoria collettiva, il tempo reale (trasmissione) quello differito (ricezione), generare le zone del tempo, fra le zone esserci filtri di coscienza e territori di sensibilità, pieghe occulte, e quindi potremmo essere in presenza di aree dove tempo non esiste, o non ha senso come concetto”. Senza dimenticare però, che in musica il tempo ha sempre una sua specifica valenza, come ricorda ancora Ottaviano: “Rallentare, accelerare, stringere…/ 75-80 pulsazioni al minuto, per calcolare approssimativamente la durata di una nota scelta come un punto di riferimento; criterio questo che variò col variare di un sistema di notazione/ Ragione metrico/ritmica di un sistema di battute/ Parte o movimento di una composizione sinfonica o da camera/ Iterazione/ Numero di accadimenti: queste alcune definizioni di applicazione del concetto di tempo nel fare musica”.
Non più avvertito come ineluttabile giudice di uomini, cose e canzoni, il tempo diviene prezioso alleato delle allegorie elettroniche di Lauric Anderson, delle segmentazioni ritmiche dei Talking Hcads, degli ingegneri del suono che realizzano il duetto postumo di Natalic Cole col padre Nat. Viviamo probabilmente in una dimensione fatta di infiniti mondi possibili e di un tempo totale. L’ordine del tempo convenzionale si è sciolto e si sta svelando l’assoluta analogia fra diverse zone di tempo.
Memorie genetiche si mescolano con presagi di epoche nuove, i passati possibili si coniugano con i futuri ancestrali. Premonizioni, ricordi, squarci di sogno, visioni da tutte le età parallele, perdute o possibili appartengono allo stesso tempo senza tempo. E va irreparabilmente in crisi anche il tempo della storia, con la sua logica di epoche e stili in successione… È possibile immaginare infinite stanze del tempo, dove opere di epoche distanti si incontrano…. scrive Franco Bolelli, sognando la più affascinante delle musiche possibili.
Ma i «Signes of the times», i segni del tempo, lasciano poco spazio per le utopie e molto per le paure del tempo prossimo venturo. Si avvicina la fine del secolo, anche il rock canta il timore dell’apocalisse che si avvicina. Fino all’ultimo respiro direbbe Godard. Fino alla fine del mondo, canticchia Wim Wenders, altro maniaco del rock and roll.