IL ROSSO E IL NERO
anno 1, numero 3, ottobre 1992
racconti brevi, pp. 16-18
Marco Ferri
Il capolinea della nausea
Non è stato facile dimenticarlo, proprio per la sua inconsistenza, una inconsistenza tenace, insondabile. Comunque, bene o male, lo dimenticai. E sempre più raramente mi feriva il ricordo di qualche sua frase o gesto. A volte era solo una anonima trafittura, veloce e inaspettata, accompagnata dal rammarico, dal malumore, e un’ansia di vendetta che, ne ero convinta, di fronte a lui, concreto, solido, si sarebbe diradata, svanita, più niente. Di fronte a lui, dopo un momento di imbarazzo, del resto difficile da dissimulare, sarei subito ricaduta nella stessa coltre insapore che aveva avvolto il nostro rapporto, le conversazioni, vi sarei precipitata dentro con consapevole pigrizia.
Il nostro non era stato un rapporto chiaro. Non c’era stata amicizia, prima, né stima poi, né antipatia. Niente, o forse un po’ di tutto questo. Un groviglio di minimi nulla che formavano un tutto compatto, impenetrabile. Di qui, appunto, la difficoltà. Se penso a lui non riesco a ordinare gli umori vari della memoria. So che tutto quanto ho scritto è pretestuoso, evanescente, o idiota.
Poi mi ha telefonato, dopo anni di silenzio. Ne avevo perso le tracce. O meglio: lui era scomparso, né io l’avevo cercato. Telefonava dalla stazione ferroviaria della mia città. Dovette presentarsi, dalla voce non l‘avevo riconosciuto. Disse alcune frasi convenzionali, le solite, e poi, dopo qualche attimo di silenzio, mio e suo, cominciò a dire che fai, adesso, come sei vestita, e via su questo tono amichevole al quale cercai di adeguarmi. Fingevo piuttosto bene ma lo tenevo a distanza. Mi vergognavo di me, non della mia finzione, chiaro, ma della mia aura. Così non gli concedevo niente. Non volevo sapere niente di lui. Preferivo tenermi il ricordo della sua ambiguità. Non ero sicura che mi avrebbe raccontato la sua storia e non mi andava proprio di ritrovarmelo in carne e ossa a riesumare un rapporto insulso e chiuso da qualche anno. Lui allora diventò ironico, cioè per me irritante, ma forse era disperato. Poteva realmente aver bisogno di me. Fu un attimo. Sul punto di invitarlo a cena, udii un sibillino gute nacht e lo scatto del riaggancio.
Subito dopo, ma ancora lentamente, mi resi conto del terrore. E del sudore. Mentre parlavo con lui mi era crollata addosso una specie di afasia, un rifiuto duro che si sfaldava in tanti sensi di colpa. Non potevo più restare chiusa in casa, con lui fuori, nella mia città. Sentivo la sua presenza. Così decisi di uscire. La strada fino alla stazione non era tanta e la percorsi, con disgusto, sonnambula, a piedi. Mentre camminavo per un viale alberato costeggiato da villette ristrutturate e ritinte, la mia decisione ondeggiava. L’aspetto delle case, della strada asfaltata e degli alberi, ai quali neanche facevo caso tanta era la consuetudine di trovarmeli davanti agli occhi ogni giorno, più volte al giorno, questo tranquillizzante cimiteriale microcosmo stava cambiando, come quelle illusioni ottiche o quelle immagini doppie, in genere caricature, le cui linee descrivono forme diverse a seconda del punto di forza dello sguardo. Adesso mi stupivo della loro estraneità, come se non li avessi mai visti prima, erano irriconoscibili pur restando sempre gli stessi. Questa curiosa impressione mi sollevava. Avevo la sensazione si evadere dalla tetra palude che era diventato il mio cervello. Come se fosse giunto il momento, a mia insaputa, di scrivere la parola fine a quel sonno metodico che li stringeva da anni. Improvvisamente avevo coraggio e camminavo verso quella specie di amico più per allontanarmi dal luogo del mio letargo, con decisione, che per avvicinarmi a lui. Mentre scomparivano tutte le illusioni che mi ero fatta su una semplice e normale esistenza, venne fuori, nuda, la mia feroce ottusità. Respiravo a fatica. Io sono più strana, più inesplicabile di lui, pensavo. Continuavo a camminare per città, ma non in direzione della stazione ferroviaria. Grosse nubi pesanti coprirono il ciclo. Si fece buio e freddo. Io non avevo una meta e mi avvicinavo e mi allontanavo da un luogo che più o meno consapevolmente consideravo il centro della mia passeggiata e dei miei problemi. Ma la città era ripiombata nella noia. La conoscevo, sempre la stessa, dall’infanzia. Se non, appunto, per quei leggeri smottamenti della coscienza che in certi istanti la rendevano ignota. La città, e lui. Non c’era alcuna ragione, nessun residuo sentimento, perché lui mi infastidisse, né avevo alcun interesse a continuare una relazione chiusa, seppellita, tanto che immaginare una intimità nuova mi provocava disgusto e stanchezza. Sapevo ormai che lo avrei evitato, che non lo avrei incontrato mai più, e non incontrarlo mi parve, in quei momenti, incredibile. Mentivo a me stessa e in modo talmente infantile che ridevo e mi avvicinavo rischiosamente alla stazione ferroviaria.