IL ROSSO E IL NERO
anno 1, numero 3, ottobre 1992
poesia e critica, pp. 72-73

nota di poetica

Di un vecchio disagio

in risposta ad un invito della rivista “il rosso e il nero”

   Non nego di provare un certo disagio dinanzi alla Vostra pur gentile e comprensibilissima richiesta di accompagnare i miei testi con qualche nota di “poetica”. E questo per diversi motivi, non ultimo la convinzione che, malgrado le pagine sinora scritte, la mia avventura sia appena agli inizi.

Quando si comincia a scrivere, magari in relazione alle prime crisi adolescenziali, ai primi confronti con il mondo degli adulti, e ci sembra di trovare nella poesia, come osserva Philippe Jaccottet, una “misura” finalmente capace di corrispondere “al senza-misura della vita” – in grado, cioè, di lasciar risuonare al suo interno la corda delle possibilità della vita – si è per lo più inconsapevoli dei pericoli e dei dolori ai quali ci andiamo esponendo. Quante volte, noi, infatti, abbiamo creduto, nell’esaltazione dello slancio, di essere già entrati in possesso di quella libertà di cui ci sentivamo irragionevolmente privati, per poi scoprire che solo ne simulavamo, attraverso l’incerto uso di strumenti altrui, forme e comportamenti propri?
Certo, senza un’iniziale dose di incoscienza o di ingenuità forse sarebbe impossibile intraprendere una via tanto ambiziosa, eppure, proprio per preservarne intatto il desiderio – quell’innocenza grazie alla quale si rinnova il mistero di ogni nascita – noi apprendiamo a vigilare sulla nostra opera nell’intento di dileguarci da quelle effimere maglie della rappresentazione – da cui neppure la letteratura o il presunto ruolo assegnato al poeta sono esenti – che noi stessi, a questo punto, ci intessiamo.
Un adagio di una poetessa brasiliana a me cara, Marcia de Sà Cavalcante, recita: “Qualcosa assorda l’ascolto: il rumore dell’io”. Un rumore che, più che da uno scarso controllo del silenzio, mi pare provenga, in realtà, da una malcelata ignoranza di se stessi e della propria meschinità, da quella resistenza che noi opponiamo alla parola e alle immagini per la nostra ostinata volontà di ricondurle dentro un orizzonte estraneo alle loro finalità, pieno di inutili speranze e falso potere.
Ma “la Poesia”, come giustamente scrive Pierre Jean Jouve, “non è semplicemente creata”, è anche “amata”, e come ogni amore richiede abbandono e dedizione, “sacrificio del successo prima di tutto. Ma anche, in un modo o in un altro, sacrificio dell’esistenza. Giacché per essere caricati della potenza d’amore antagonista alla morte, il poeta deve trasportare questa potenza in tutte le situazioni dove è attaccata e ricevere con lei i colpi”. Deve essere, insomma, disposto ad immolare la sua stessa poesia per la salvezza della Poesia (di quella primitiva possibilità), per attestare il valore e il significato di quella imprescindibile condizione. Solo in questo caso, l’impazienza mostra il suo volto spirituale: il desiderio di farla finita con la poesia in vista del suo trionfo.

Sono parole grosse, lo so; ma sono alcune delle parole che io non cesso di ripetermi, sebbene con modesti risultati. Se le pagine che vi offro possono apparire troppo scarne, persino austere, non è certo per una scelta stilistica, ma perché è così che sono emerse durante una fase di questo mio conflitto. “L’opera del cuore” – sono convinto – è ben altra cosa, ben altro respiro. Forse, come cantava Rilke, “un soffio in nulla. Un sospiro in Dio. Un vento”.

Gianluca Manzi
Cetona, 7 febbraio 1992