IL ROSSO E IL NERO
anno 1, numero 2, ottobre 1992
saggi: il Silenzio, pp. 49-56

Gildo De Stefano

Fra versi melodici e suoni silenti… il jazz!

   Anche se prevalentemente oggi vien fatto riferimento a Miles Davis per i fondamenti di un’idea che lega la musica allo spazio e il silenzio al suono, in realtà chi ha scolpito l’aria e dato suono al silenzio è stato Thelonius Monk. Quindi non è affatto possibile per me condividere l’affermazione di Richard Abrams che “Monk è come il naturale, come il naturale è stato, è e sempre sarà”. Se la sua musica appare tale è perché essa è interamente risolta, resa semplice dallo sforzo dell’artificio, ripulita dalla conflittualità che caratterizza il naturale, perché essa non affiora per selezione del gesto più forte, ma per la scelta operata dal musicista, spesso incerto, com’egli stesso ha detto, dopo una nota tra altre due.
   Monk non è naturale, se per natura s’intende il macrocosmo indifferente ai piccoli eventi; non è naturale se per natura s’intende l’oscura natura umana. Se l’errore (o il peccato, se preferite) è della natura umana, Monk quale musicista non appartiene ad essa. Non ci sono in lui infedeltà, tradimenti, improvvisi scarti, conflitti tra affetti e volontà. Non c’è vita e non c’è sorpresa. Soprattutto vorrei dire che non c’è cambiamento, anche se nei suoni e nei silenzi (e cioè in ciò che muta) si manifesta la classica staticità della sua musica.
   Essa parrebbe non venire nel tempo, ma dal tempo fermato una volta per sempre come nella Valle dei Templi o a Selinunte.
   Così, ad esempio, la stessa esposizione del tema, all’inizio e alla fine dell’esecuzione di esso, è in Monk sempre modificata, contro l’uso (costantemente presente nel be-bop e per molti anni ancora) di ripeterlo fedelmente. Fin dalle prime sue registrazioni lo si nota, negli stessi Misterioso ed Evidence.
   Ma l’articolazione compositiva del musicista di New York spicca ancora in maggiore evidenza quand’egli si dedica, invece che a un proprio, a un tema musicale altrui. Qui, dove spesso le strutture sono scolasticamente ripetute, l’innesto monkiano risulta ancor più nettamente. E appare particolarmente chiaro se si confrontano musiche standard registrate con quelle contenute nei dischi Blue Note, Riverside e Columbia.
   Se nei temi un arco compositivo è ben evidente, ma anche “facile” da ottenere, visto che il tema può essere scritto e non implica improvvisazione, là dove maggiormente si realizza la tensione compositiva in atto per Monk è negli interventi solistici altrui, quando egli è spesso fortemente impegnato a guidare e rinserrare gli “assolo” degli altri strumentisti, in maniera che gli altri non sfuggano alla sua musica improvvisando sotto l’esclusivo stimolo della propria individuale e personale fantasia (che rischierebbe di essere tematicamente anonima).
   Matematica, sensibilità acustica, capacità di vedere la musica dov’è, sono alcune caratteristiche della sapienza musicale del maestro; e inoltre swing, potenza e concentrazione perfetti. Un senso ineguagliato della “mise en place” e un controllo totale del tempo nello spazio della sezione ritmica, perfettamente a suo agio dentro il beat. Thelonius aveva i mezzi necessari per scolpire spazio, usando certe scoperte plastiche, accuratamente elaborate in un lungo periodo di tempo, sul piano. La musica era elaborata plasmata in “strutture funzionanti”, così da ottenere “qualcosa da suonare”.
   Senza giungere alla inquietante presenza del suo silenzio in Bag’s Groove, lunghe attese prima di prendere la frase, conclusioni anticipate, senza rispetto alcuno per quella che veniva chiamata “quadratura”, presenti ovunque nel suo lavoro di gruppo, mostrano com’egli incameri nella sostanza della sua musica il suono e quel che parrebbe negarlo: il silenzio.
   Quest’atteggiamento non ha nulla di eccezionale se si pensa astrattamente alla musica, ma Monk, assumendolo, ottiene la rottura di un vincolo formale che evidenzia la sua libertà di musicista mentre sottolinea la presenza della legge. In Monk norma e illegalità sono sempre presenti insieme e nella tensione che tra esse si crea, ogni volta che l’equilibrio non cade, il che raramente succede, come ad esempio nella collaborazione con Oliver Nelson, in quella tensione sta la classicità di Monk: nel suo rispetto, dunque, del tempo e dello spazio negli equilibri matematici, accompagnato dal suo proprio intervento plastico, dal pensiero modellante che questi equilibri attraversa, non pago certo di riprodurli.
   Un’analisi semiologica, alla ricerca del gioco di ripetizioni nella composizione della pagina monkiana, porterebbe piuttosto a identificare le mille variazioni che ogni frammento mostra nel ripresentarsi.
   La grandezza di Monk, come “instant composer” (compositore che lavora sul momento) sta nell’aver contrastato efficacemente le tendenze individualistiche e autonomistiche che culturalmente hanno tanto peso nel jazz per importare il rispetto non del proprio primato, ma della musica da interpretare.
   Concettualmente l’autonomia di coloro che hanno un progetto che supera l’identità non è nemmeno pensabile poiché esso può essere raggiunto solo nell’eteronomia di tutti in relazione al medesimo. Tanta musica noiosa e disorganica ha origine nel disgregante principio dell’autonomia. La lucidità di Monk sta nell’aver capito che indispensabilmente riferirsi a una musica significa realizzare se stessi in essa, quindi nell’aver ostacolato tutte le fughe individualisticamente centrifughe. I risultati ottimali egli li ha raggiunti nella lunga collaborazione con Charlie Rouse, negli anni con la Columbia; ma è chiaro allora quale valore si debba attribuire al suo silenzio nel Bag’s Groove con Davis, personalità affatto “autonoma” ed egocentrica.
   Si comprende allora come essendo egli stato fonte per musicisti come Cecil Taylor o Eric Dolphy, non riuscisse poi a essere presente nel movimento free, certamente da lui inteso solo nella sua “pars destruens”. Per un musicista siffatto è ovvio che la composizione, che è altra cosa dal musicista stesso, debba avere il primato. Da ciò discende il rifiuto dell’ “idea jamsessionistica” (che per altri musicisti è invece l’idea principale). Ne viene nobilitato di contro il principio di servizio, la musica funzionante, all’interno del quale è doveroso, anche se faticoso e difficile, qualificarsi.
   Dalla natura stessa, che fa crescere il nostro passato, non perché le altre vite non lo abbiano, ma perché noi lo ricordiamo, discende la possibilità di qualificarlo, realizzando e deponendo in esso un progetto che non può non vederci quali semplici soggetti di percezioni che scivolano una dietro l’altra. Dalla qualità del progetto e dalla qualità della realizzazione discende la qualità dell’artista e, in senso più vasto, quella di ogni uomo. Cosi, per Monk, e credo abbia ragione, la vita come jam session è ridicola. Meglio il silenzio.
   Ma il jazz, forse più di ogni altra espressione artistica, si è continuamente evoluto in quanto ha evitato di rinchiudersi all’interno di proprie forme codificate e astratte e ha cercato anzi un continuo coinvolgimento con il contesto sociale, economico e culturale, ha stabilito relazioni di diversa natura con le altre arti influenzandole o venendo da esse influenzato. Mi pare opportuna pertanto, per non favorire un settarismo miope c nocivo, qual analisi che consideri il jazz all’interno di un panorama più vasto, individuando i momenti di interdisciplinarità.
   Sul tema jazz e letteratura, per esempio, qualche cosa è stato scritto, ma molto rimane ancora da approfondire.
   Fa d’uopo citare uno dei primi romanzi europei in cui il jazz assume un ruolo tutt’altro che marginale: Il lupo della steppa di Hermann Hesse, una delle opere più controverse del nostro secolo, che ha visto contrapposte schiere di entusiasti sostenitori (fra i quali si pone il sottoscritto) e schiere di accaniti denigratori.
   La versione del jazz data da Hesse può sembrare oggi limitata e denigratoria anche se mi pare molto sincera e rispondente ad una determinata realtà storica. Bisogna tener presente infatti da un lato le origini socio-culturali dello scrittore, nato nel Wurttenberg nel 1887 da una famiglia molto colta e religiosa, dall’altro le caratteristiche del jazz intorno al ‘26, anno in cui egli concepì il suo romanzo. In quegli anni infatti questa musica in Europa era proposta e percepita come una esotica curiosità, una ubriacante forma di evasione.
   Il Leitmotiv evidente è quello dell’eterno conflitto fra vita e pensiero, fra sensualità terrena e trascendenza spirituale, della dualità fra equilibrio classico e affanni moderni, dell’inconciliabile contrapposizione fra ordine borghese e anticonformismo intellettuale; argomenti per altro ricorrenti in quasi tutte le opere dell’autore tedesco, ma, mentre in Siddartha, Narciso e Boccadoro e Il gioco delle perle di vetro essi vengono trattati con olimpico distacco, con una narrazione più concatenata e distesa, anche se in una dimensione quasi atemporale e favolistica, nel Il lupo della steppa, dallo stile meno elegante e rifinito, prevale, come in Demian o L’ultima notte di Klingsor, una dimensione più surreale e allucinata, fortemente coinvolgente.
   In questo contesto il jazz. interviene quale simbolo della mondanità massificata e volgare, come esigenza di evasione collettiva: inizialmente esso viene visto come uno dei sintomi inevitabili dell’evoluzione dei tempi e della distruzione della cultura europea. L’atteggiamento di Hesse è in questa fase simile a quello di Joseph Roth, che nel contemporaneo romanzo La cripta dei cappuccini vede nella moltiplicazione seriale dell’arte applicata una degenerazione estetica rispetto alle qualità formali della produzione artigianale dell’anteguerra.
   Mi sembra indispensabile riportare il brano in cui il protagonista Haller descrive il suo occasionale impatto con il jazz:

   Mentre passavo davanti a un locale di danze, fui investito da una violenta musica di jazz, rozza e calda come un vapore di carne messo a bollire. Mi fermai un istante: quella specie di musica, per quanto mi fosse abominevole, aveva sempre per me una segreta attrattiva. Il jazz mi era antipatico, ma lo preferivo di molto all’odierna musica accademica, e con la sua gaia rusticità colpiva anche i miei istinti, alitando un’ingenua e sincera sensualità. Stetti un istante annusando quella musica sbraitante e sanguinosa, fiutando l’atmosfera cattiva e libidinosa di quelle sale. Metà di quella, la metà lirica, era burrosa, troppo zuccherata e grondante sentimentalismo, l’altra metà era selvaggia, capricciosa e robusta, eppure le due parti si accordavano ingenuamente e pacificamente formando un intero. Era una musica di decadenza… quella musica aveva il pregio di una grande sincerità, il pregio di essere un’amabile e non mentita musica di negri, un capriccio lieto c infantile. Aveva un po’ del negro e un po’ dell’americano che a noi europei sembra cosi puerilmente fresco e ingenuo nella sua forza. Diventerà cosi anche l’Europa?

   Non pago di rappresentare, Hesse vuole additare nel disordine moderno la presenza redentrice dell’antico; incapace – ad esempio – di sentire la poesia del jazz, Hesse la nobilita con benevola condiscendenza quale riverbero del sacro e del passato accessibile agli spiriti ridotti e superficiali, ancorché sinceri dell’età moderna. E il suo romanzo, avvincente cronaca di una nevrosi e suggestivo viaggio nell’irrazionale, viene appesantito da un intento pedagogico e sentenzioso, da una scoperta volontà di restaurazione.
   Al contrario di Hesse, Julio Cortàzar riesce a “sentire” la sottile passionalità poetica del jazz. E lo fa ne Il persecutore, pubblicato per la prima volta nel 1959 nella raccolta Las armas secretas, che non è soltanto un racconto biografico, ma interrogazione in forma narrativa sull’irriducibile alterità del genio artistico. La figura tragica di “the Bird” è ombra ad uno dei molti volti di Cortàzar, la cui opera trova in questo racconto un momento di svolta della rarefazione delle atmosfere fantastiche al confronto esistenziale con l’altro che, sempre e dovunque, è il simile. Cortàzar racconta d’aver cercato a lungo il protagonista di questa “long short-story” che lo “perseguitava” da tempo, nel mondo della letteratura e dell’arte, e di averlo riconosciuto, alla fine, nel profilo biografico di Charlie Parker, pubblicato sulle gazzette in occasione della morte.
   L’aneddotica che nutre la leggenda di Bird, e che alimenta a tratti l’orizzonte de Il persecutore, consente meglio di mappare il senso comune delle nostre attese: dopotutto, il racconto è strutturato per scene che il lettore minimamente familiare con la biografia del sassofonista non fatica a collegare ad episodi abbastanza precisi, la seduta di registrazione di Lover Man (divenuto qui Amorous) per la Dial, il successivo incendio della stanza d’albergo, il periodo di Camarillo, la morte della figlia Pree, e cosi via. Il Bruno voce narrante di Cortàzar entra a far parte di diritto della folta schiera di mediatori, biografi quasi mezzani, che ricordano la forza di gravità ai malati di leggerezza dell’essere. Come l’avvocato del melvilliano Bartleby, egli finisce per dire molto di più di sé che dell’oggetto delle sue altalenanti considerazioni; ci introduce nel racconto, a contatto con Johnny, con la partecipazione umana del testimone, per poi lasciarsi andare ad alti e bassi umorali e nevrotici: da un lato l’affettività il coinvolgimento “in presentia”, dall’altro la razionalità del ripensamento lontano in Johnny, con certe parentesi di riflessione solitaria “col cinismo necessario per recuperare la fiducia” e con l’irritazione per il sospetto di essere stato preso in giro. Cortàzar mette in esergo al racconto un versetto dell’Apocalisse (“Sii fedele fino alla morte”), ma tra le righe di ogni biografo qualcosa muore sempre, a dispetto di qualsivoglia dedica “In memoriam…”, quasi vi fosse una perversa volontà di dare la morte.
   L’artista e il critico sono l’inizio e la fine del sax, la bocca e l’orecchio ma, a dire il vero, quello tra biografo e biografato è un complesso doppio legame di reciprocità e complementarità, anche se Bruno/Cortàzar lo sistema entro tranquillizzanti parentesi: “perché magari ho anche un po’ di paura di Johnny, di questo angelo che è come un mio fratello, di questo fratello che è come il mio angelo”. Vengono alla mente certe venature cristologiche alla Miss Lonelyhearts, o i risvolti inquietanti delle figurazioni mitologiche proprie della cultura dell’entertainement “mediologico”: chi veramente perseguita chi?
   Monk, Hesse, Cortàzar, tre artisti che pur in campi diversi hanno un sottile filo in comune: il silenzio. Evocare attraverso ciò che non si dice o non si suona emozioni o intemperanze d’artista. Il loro motto è: dare corpo al silenzio. Un motto comune anche per chi opera nella musica contemporanea – jazz compreso – in cui l’utilizzo della voce si allontana sempre più da quello tradizionale della canzone, per tendere invece ad un uso strumentale in cui anche la voce umana, liberata dalla necessità di articolare le parole, acquista uno status analogo a quello degli strumenti a fiato.
   Il poeta Vittorino Curci ed il trombettista Pino Minafra mettono coraggiosamente faccia a faccia i due mondi apparentemente inconciliabili della libera improvvisazione collettiva e del lungo lavoro del poeta, con le sue fasi di costruzione e di limatura del testo scritto. La musica si trova cosi a confronto non solo – non tanto – con la voce, ma con la parola, con il suo potere evocativo, la sua irriducibile comunicatività, la sua musicalità tutta speciale.
   Dall’incontro tutte e due escono modificate: la musica come facilitata nella interpretazione della guida emotiva fornita dalla poesia, e la parola arricchita di echi e risonanze dalla musica che la avvolge. La ricchezza espressiva che ne risulta lascia ampio margine a ciascun ascoltatore per riflessioni e meditazioni ispirate da quei momenti che egli sente più vicini, più consonanti con la propria esperienza. E certo la ricerca poetica di Vittorino Curci si collega profondamente a quella dei suoi colleghi musicisti, ben al di là di una pura giustapposizione. Si ascolti come la drammatica atmosfera poetica del brano Notizie dal sole vero venga riecheggiata dalle esplorazioni ritmiche del trio, a linee spezzate e rotte, qua e là illuminate dalle citazioni sardoniche di Minafra, dei taglienti commenti di Eugenio Colombo al contrabbasso mentre il piano di Martin Joseph sembra quasi quello di Thelonius Monk, scampanate nel tocco e cupo nelle armonie. Oppure, nel pezzo alla “maniera del blues”, quella più solare ed ottimista, seguiamo il magnifico trasecolare degli echi del blues ed una specie di ironica tarantella, passando attraverso una citazione della Traviata, per arrivare poi ad adagiarsi nel tenero accompagnamento della rievocativa poesia che segue.
   Alla stregua di Curci, vi è un altro fine “utilizzatore di parole”, magico e soave, in bilico tra suono e silenzio: Leo De Berardinis. Anch’egli attore dedito a forgiare la parola teatrale con la musica di Steve Lacy, un altro monkiano doc. De Berardinis è ben conscio che chi suona jazz già fa teatro di per sé, e lui in scena non esegue, ma è. La sua è una tessitura raffinata di tipo verbale, un incontro tra la voce e il suono, in questo caso concepito come “assolo”, duetto o, addirittura, quartetto. Quel che ne esce e sale su fino a stipar le scene è un lungo sussulto; anzi, un lunghissimo gemito in cui il non-suono di Lacy s’erige e, subito, s’abbatte, s’esalta vertiginoso, e, subito umiliato, si chiude nel silenzio, come se un fazzoletto stesse per soffocarlo. È straordinario come De Berardinis riesca a stritolare le citazioni che pur nella sua ultima fase verrebbe voglia di indicare e a renderle capaci di esprimere ben più di quello cui le fonte citate e, talvolta, rubate, fossero mai giunte. Lontano da tutti, diserto come il padre spirituale (Monk) e, forse, diseredato, Steve Lacy – di contro – si situa in quella terra di nessuno che è, forse, il sito più ferocemente consono per dipingere, non fatti od atti, bensì suoni e silenzi; e di quale ferita, terrificante bellezza e dolcezza!