IL ROSSO E IL NERO
anno 1, numero 2, giugno 1992
saggi: Il Silenzio, pp. 30-35

   Generoso Picone

Bartleby, il rifugio del ribelle

   Chissà perché Paolo Valesio nel suo fondamentale Ascoltare il silenzio parla di Bartleby lo scrivano di Hermann Melville, comunque definendolo “uno dei grandi racconti moderni in assoluto”, solo a proposito della microretorica della fragilità, anzi del paradosso della resistenza alla fragilità, la microretorica della “canna come creatura senziente”. Ci si sarebbe aspettati, invece, di trovare Bartleby un po’ prima, per esempio quando Valesio individua il centro dell’ontologia che propone indagando la retorica come teoria: cioè nel punto in cui ragiona sul silenzio-interruzione o frattura, dove “il silenzio acquista la sua prima significanza, non da generico contrasto con il dire, ma specificamente dal suo essere circondato e contrastato da forme del dire”. Il silenzio, insomma, “nella sua peculiarità come ciò che va oltre il limite della parola”.
   Bartleby lo scrivano esprime il suo silenzio in un cantilenante e ossessivo “I would prefer not to”, che Gianni Celati traduce efficacemente in “Avrei preferenza di no”. Frase che Celati stesso trova stranissima, cosi “priva di intenzioni – dal momento che le intenzioni ci portano sempre a cercare un accordo con gli altri, a cercare la loro connivenza, a paventare i loro fraintendimenti”, Bartleby no, pare che in lui si sia abolito “il delirio delle intenzioni” che al contrario anima l’avvocato presso cui lavora: è una creatura di preferenze, di destino elementare che lo apparenta, nell’interpretazione di Celati, a Don Quijote e Akakij Akakievic di Gogol. Anche per loro “l’affidamento alle proprie preferenze è uno stato di devozione come individui, nella separatezza del corpo proprio con una faccia che non abbiamo scelto, e certi manierismi che comunque ci consegnano a rappresentazione dell’umano”.
   Bartleby che ha preferenza di no è uno scrivano, e non a caso Melville gli assegna questa attività. Il suo atteggiamento di ostinato rifiuto non intende sconvolgere, quindi, solo la routine dell’ufficio legale di Wall Street dove è capitato, ma il lavoro stesso della scrittura, l’uso delle parole. Sottolinea Celati: “Il grande perturbamento che Bartleby introduce nella scrittura dipende da questo: dal poco, dal niente, su cui si può sempre sopravvivere, e dall’aridità che le voci dell’anima devono una volta o l’altra affrontare”, Per lui “tutto ciò che l’utilitarismo considera il male del mondo, l’ozio, l’inerzia, la vita senza scopo il pensiero che riposa oziosamente in sé, qui ricompare come potenza, dello scrivano che attraversa con inespugnabile riserbo il farnetico della vita”.
   A leggere fino in fondo la storia di Bartleby, che della sua inespugnabilità farà morte, si trae la conferma di quanto Ernst Jünger dice circa il silenzio, e cioè che esso è il rifugio dei ribelli. Bartleby è una splendida figura di ribelle: si ribella alla devastazione del linguaggio, soprattutto, alla sua riduzione a prassi inutile e falsa. Noi solo alla fine del racconto scopriremo che prima di arrivare a Wall Street aveva lavorato a Washington in un ufficio di lettere smarrite. E cos’altro è il linguaggio, ai tempi suoi e a quelli d’oggi, se non un immenso ufficio di lettere smarrite? Bartleby dice allora no a questo inquinamento, ai mille buchi nell’ozono della semiosfera, ed è una faccenda ecologica anche quella in cui è coinvolto. “Allo stesso modo del nostro mondo fisico – sottolinea Ugo Volli citando Milan Kundera -, e noi vi sopravviviamo per lo più senza innocenza, ma anzi collaborando con i nostri carnefici in tale processo di distruzione”. Bartleby decide al contrario di non collaborare, si tira fuori dal gioco diventa il simbolo di chi non vuole essere salvato, è lo sconfitto estremo che non ha ancora letto L’elogio della fuga di Henri Laborit, e nel suo nichilismo sembra dire che sarebbe anche possibile parlare e comunicare, però non ora e non qui, magari per una umanità a venire. Insomma, ha ragione Gilles Deleuze quando, seppure con una certa enfasi, sostiene che “Bartleby non è malato, bensì il medico di un’America malata (di un Occidente malato, diremo noi), il Medicine Man, il nuovo Cristo, e il fratello di tutti noi”.
   Creature come Bartleby verranno anche dopo di lui. Uno è il signor Palomar di Italo Calvino, che tra il parlare in continuazione e il non parlare mai ha preferenza per la seconda ipotesi, nonostante “essa implica un’arte del tacere più difficile ancora dell’arte del dire”: “Infatti spiega – Calvino – anche il silenzio può essere considerato un discorso, in quanto rifiuto dell’uso che gli altri fanno della parola; ma il senso di questo silenzio-discorso sta nelle sue interruzioni, cioè in ciò che di tanto in tanto si dice e che dà senso a ciò che si tace”. “O meglio: – e qui mette i piedi nel piatto – un silenzio può servire a escludere certe parole oppure a tenerle in serbo perché possano essere usate in un’occasione migliore”. Conviene, allora, mordersi la lingua prima di decidere se parlare e cosa dire.
   Altra creatura bartlebyana è il Baratto di Quattro novelle sulle apparenze di Gianni Celati. Baratto, durante una partita di rugby in cui si susseguono mischie e risse, urla “Non c’è niente da discutere!”, impreca un po’ contro tutti e se ne va a casa perché gli è passata la voglia di giocare. Da allora gradatamente smette di parlare, “Adesso non posso rispondere” dice i primi tempi e questa sua espressione somiglia molto all’“Avrei preferenza di no” con la quale lo stesso Celati traduce l’ “I would prefer not to” del Bartleby di Melville. Quando il silenzio si fa completo, Baratto perde lavoro e moglie, viene considerato un malato, un folle. Un giorno riprende a parlare come in trance e al risveglio torna capace di comunicare: si lamenta di un dolore al ginocchio; cioè, completamente azzerata la situazione di parola precedente culminata in risse e botte, riparte dall’indicazione di bisogni e pulsioni fisici elementari, quasi che il lungo silenzio gli abbia purificato la mente.
   Ugo Volli commenterebbe che si tratta di due esempi di silenzio imperfetto, inteso come inizio del linguaggio. Volli utilizza la definizione di silenzio imperfetto a proposito dell’esperienza umana, che evidentemente è incapace di perfetti silenzi per naturale vocazione-necessità alla comunicazione. “Il silenzio imperfetto – sostiene Volli – è infatti lo spazio della parola nascente, del silenzio che si rompe, della voce che sorge e si spegne, del discorso represso e nascosto, dell’afasia e della rottura dei codici, soprattutto del discorso che si propone di parlare di sé e dunque esita a procedere nel circolo”. Quella di Volli è allora un’apologia del silenzio imperfetto che diventa elogio della filosofia, di tutte le immagini che procedono il discorso filosofico, che rompono il circolo “sublimi e ridicole, preveggenti e distratte, borghesi e esotiche, insomma eterogenee e però immerse nell’aria di famiglia del linguaggio a venire”. E’ solitudine assorta, sguardo che cerca di curvarsi su di sé, fragilità, ostinazione, vagabondaggio senza meta, incapacità di raggiungere un obiettivo: ma “necessaria incapacità”, perché “condizione necessaria dell’operare artistico come stato inevitabile e soprattutto come obiettivo desiderabile di una politica destrutturante della letteratura e dell’arte”. Al dunque, questa è pratica seguita dalle avanguardie, dai nichilisti, dagli sperimentalisti, eccetera, da tutti coloro che nel silenzio hanno covato l’urlo della lacerazione del tessuto culturale precedente.
   Ma Bartleby, e con lui Palomar e Baratto, sono artisti di avanguardia o filosofi nichilisti? La loro preferenza al no, il loro mordersi la lingua, i loro “non c’è niente da discutere” li fa appropriare del silenzio come arma contro l’inquinamento semiotico, contro la banalizzazione della comunicazione: essi amano il silenzio, direbbe Massimo Baldini, perché amano “la parola essenziale, la parola parlante e non parlata, la parola piena, la parola senza rughe”, Filosofi, dunque? Sicuramente respirano la medesima “aria di famiglia del linguaggio a venire”; sentono “un’esigenza di silenzio” che come già duecentoventi anni fa per l’abate Dinouart “s’impone ormai nella vita civile” e con lui condividono la riflessione: “La parola è un azzardo che comporta il rischio di ritrovarsi spodestati del dominio di sé”. Aiuta Wittgenstein (“Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”) ma è proprio a questo punto che occorre un po’ di filosofia a rischiarare l’orizzonte.
   Interviene Aldo G. Gargani. Che cos’è il silenzio? “E tutto ciò che non è accaduto, senza lo sfondo del quale però le cose non accadono, senza il quale le parole e le frasi che vengono scritte e proferite non potrebbero essere scritte e pronunciate. Il silenzio è l’irrealtà che dà significato a ciò che accade, e noi risaliamo dalla parola, dalla frase scritta, pronunciata, al silenzio che contiene il loro enigma e il loro segreto, ma anche la stessa condizione di possibilità delle nostre espressioni”. Poi Gargani quasi a ricordare che qui ormai di scrittura si sta discutendo aggiunge: “La nostalgia di un desiderio insoddisfatto è il silenzio dal quale procedono le espressioni che vengono scritte e proferite; poiché qualcosa non è mai accaduto e non è mai entrato nell’ordine della realtà noi scriviamo parole, frasi che hanno loro significato in ciò che non è accaduto, nel silenzio che circonda come un sogno la veglia della nostra esistenza quotidiana”. Sembra che Gargani parli dal luogo dove Gianni Celati è giunto in Verso la foce, dove si comprende come “ci hanno mescolato le anime e ormai abbiamo tutti gli stessi pensieri. Noi aspettiamo ma niente ci aspetta, né un’astronave né un destino… Ogni fenomeno è in sé sereno. Chiama le cose perché restino con te fino all’ultimo”. La foce è il luogo del destino e non a caso il libro in cui Gargani sviluppa le sue considerazioni sul silenzio si intitola Sguardo e destino.
   I conti cominciano a tornare. Bartleby, Palomar, Baratto non sono artisti d’avanguardia ma filosofi senz’altro: profeti, anzi. Belle pagine a Bartleby lo scrivano ha dedicato Giorgio Agamben in un altro testo dal titolo assai significativo, La comunità che viene, rimando alla “famiglia del linguaggio a venire” di cui ha detto Volli. Dopo aver affermato che “solo una potenza, che può tanto la potenza che l’impotenza è, allora, potenza suprema” e quindi il Bartleby che esprime la sua preferenza al no, ma che potrebbe anche voltarla al sì, ha in sé i caratteri della suprema potenza, Agamben entra nel merito. “L’atto perfetto di scrittura – argomenta ‒ non proviene da una potenza di scrivere, ma da una impotenza che si rivolge a se stessa e, in questo modo, avviene a sé come un atto puro (che Aristotele chiama intelletto agente). Per questo, nella tradizione araba, l’intelletto agente ha la forma di un angelo imperscrutabile. Bartleby, cioè uno scrivano che non cessa semplicemente di scrivere, ma preferisce di no, è la figura estrema di quest’angelo, che non scrive nient’altro che la sua potenza di non scrivere”.
   A chiusura, Gianni Celati. Il curatore della traduzione di Bartleby lo scrivano si riferisce al libro di Melville ma parla evidentemente di se stesso quando afferma: “La potenza della scrittura non sta in questa o quella cosa da dire, bensì nel poco o niente da dire, in una condizione in cui s’annulla il dovere di scrivere. Ogni dover scrivere e voler scrivere è la patetica vittima delle proprie aspettative. La potenza della scrittura sta nell’essere senza aspettative, nell’essere rassegnazione e rinuncia al dover scrivere, possibilità di rimanere sospesa soltanto come preferenza”.
   E questa appare una prospettiva praticabile non solo per la scrittura ma per la parola in tutti i suoi usi, la maniera per poterla salvaguardare dal rischio di vedersi ridotta a lettera smarrita nel grande ufficio del mondo.