IL ROSSO E IL NERO
anno 8, numero 16, ottobre 1999
poesia e critica, pp. 107-111
commento critico
Isabella Vincentini
“Se ho ben compreso la sua domanda, Marforio”
Credo che la maggior parte dei poeti invitati da “il rosso e il nero” ad anteporre una nota di poetica ai propri testi, avrebbero volentieri risposto, come un sol uomo, con le parole di Adriano Grande:
“Non è agevole, né piacevole, per un poeta scrivere della propria poesia”. Ed è vero.
Si avverte l’imbarazzo, la difficoltà ad esprimere posizioni di carattere estetico, programmi, aspirazioni, definizioni. Perché scrivono i poeti? Quale idea hanno del loro mestiere, dei loro versi, della poesia? Come si fa a parlare della propria vita e del proprio lavoro?
Esattamente questo si chiedeva Caproni sollecitato a scrivere la sua dichiarazione di poetica in un’antologia del Novecento curata da Giacinto Spagnoletti:
Una vita infatti o la si riassume nei dati anagrafici, più gli altri documenti di rito, o la si monta in un romanzo […] o, come ho fatto io, la si vive e zitti.
Non mi sono mai sognato, questo posso dirlo, di “far lo scrittore”. Pensavo di fare il violinista […] i.
La scorciatoia ad una domanda così radicale ed impegnativa (come dimostrano i testi raccolti nell’antologia), è tracciare la propria storia, raccontare la nascita della scrittura, come sono avvenute le prime pubblicazioni, in quale clima culturale e letterario, quale accoglienza hanno avuta. Il poeta si confessa, parla indirettamente del suo orticello, della sua solitudine, del suo apprendimento poetico, di quando ha avuto coscienza della sua vocazione… E man mano che si racconta diventa audace ed inizia a parlare della poesia.
“[…] Ma uno dei miei fratelli dipingeva” dice di sé Diego Valeri: “si preparava ad essere pittore che poi, per troppo breve tempo, fu”. Ed ecco che il resoconto fa un balzo fino a diventare dichiarazione di poetica: “da lui certo, io venivo imparando, non so come, che si può, e in qualche modo si deve, vivere sopra la vita, nella sfera delle forme, dei colori, delle idee; che la realtà non ha altra sostanza né funzione se non di motivo alla creazione individuale di una sopra realtà, in cui splenda almeno un raggio di sole dell’anima; che all’infuori di ciò, la vita non è che disordine e assenza: vanità” ii.
Certo: “Non è agevole né piacevole, per un poeta, scrivere della propria poesia. Tutto ciò che della sua arte può dire un artista, si rivela o dovrebbe rivelarsi in essa, anche come teoria dell’arte” rispondeva Adriano Grande nel prezioso libro di Spagnoletti iii. Ma incalzati dai critici, i poeti si lasciano sfuggire informazioni degne di una poetica.
-…
-Se ho ben compreso la sua domanda, Marforio, lei vorrebbe sapere da quel momento, e in seguito a quale causa accidentale, di fronte a quale quadro di cavalletto ho potuto esclamare il fatidico: “Anch’io son pittore!” Com’è che mi sono deciso e riconosciuto nell’arte mia, che non è stata la pittura. È molto difficile dirglielo..
argomentava Montale e subito dopo avvertiva:
Non bisogna scrivere una serie di poesie là dove una sola esaurisce una situazione psicologica determinata, un’occasione […] Il bisogno di un poeta è la ricerca di una verità puntuale, non di una verità generale iv.
Cosa hanno risposto, nel decennio Novanta, interrogati da “il rosso e il nero”, i poeti a Marforio?
La poesia è diventata una forma di autismo estranea ad un mondo sempre più mercificato e virtuale, è un’illusione e un sogno di retroguardia, dove ci si avventura alla ricerca di esperienze primarie, senza proclami né nuove visioni del mondo. Ogni poeta testimonia la propria cronaca privata, il suo diario sentimentale, come una sfida al nulla, con i morsi allo stomaco, nel dormiveglia, in sogno.
La poesia è una “realtà in ombra”, scrive Daniela Attanasio, una porzione del mondo e della vita dove ci addentriamo senza nessuna conoscenza. E’ una terra ignota, come un paese mai visitato e lontano, un luogo dove ci si può smarrire, di cui non sappiamo le regole ma che ci si dispiega davanti passo dopo passo, come l’accadere, gli eventi, la vita. Segue il movimento dei pensieri, del sogno, dei desideri, la stessa incertezza del futuro, è in ombra finché non ci entriamo. E il poeta, Daniela, ha paura di dire che scende nell’ombra per riportare parole alla luce. Ed infatti nella sua dichiarazione di poetica non lo dice.
Lo esprime nelle poesie, in tutte quelle mattinate di sole che rischiarano tanti testi come nella sua ultima raccolta, non a caso intitolata Sotto il sole. E la luce c’è sempre: nell’asfalto che si specchia sotto un cielo diviso; negli occhi chiusi di lei bambina per un riverbero in una vecchia foto; nei portici assolati, nella vita del giorno che nasce sopra l’arco del monte, là dove sorge il sole; nella “chiarezza del giorno”, nel freddo “come fosse una nuova luce” o nella mattinata che la investe in una festa di sole. Oppure è il viso che brilla sopra il silenzio; è la luce dei momenti d’amore; è la “luce vivida di ogni azzurro” quando la vita sembra riempirsi di quell’assenza che lacera i sogni v. È la vita quando brilla di “lucentezza estrema”, in quei pochi momenti in cui la luce si accende davvero per un evento emozionalmente importante o che può addirittura accadere solo nell’irrealtà del desiderio il quale, nonostante tutto, in quell’istante lo rende reale e lo ferma per sempre nella scrittura.
“Chi devo ringraziare / per questo cielo largo di luce che a mattina / sconfigge ogni scandalo privato” vi scrive Daniela e di questo dono ne fa tesoro, per difenderlo dalla zona invasiva dell’ombra, che punteggia ugualmente ogni poesia. Per proteggerlo dal buio della notte e del sonno, quando i sogni (anch’essi presenti quasi in ogni testo) vengono risucchiati dalla vanificazione della realtà.
Allora solo questo ricordo: la luce, quel sudore di latte
che ci bagnava il corpo, il sole fragile sotto la lingua
e un perdersi di noi nelle parole vii.
Quale è il vero, quale “il possibile vero” si chiede: quella luce che coglie nelle brevi occasioni di felicità e di promessa nelle strade di Palermo, che slarga i pensieri di mattina e come il sole “a raggi” illumina la vita della città, quella “luminosità mediterranea” che si diffonde anche nelle maioliche, “quell’impronta commovente di qualcosa / che per un istante” vive. Oppure il vero non è il “possibile vero” ma la “rete d’inganni” che sconfigge il sogno?
In un tale affanno emerge l’altro tema conduttore della poesia, importante come le dimensioni della luce e dell’ombra, del sonno e dei sogni: la quiete, il riposo. La calma invocata e desiderata come un’ondata d’attesa, un lento e beato ricomporsi per smaltire ogni passione, un’adesione orizzontale alla terra e al tempo, uno sfuggire all’ardore delle stagioni mancate, il riposare tranquilla, chiudere gli occhi e dormire, ritrovare notte dopo notte la luce segreta dei moti dell’emozione, per fissarla nel suo luccichio viii
meglio sarebbe concentrare in poche parole questo
ramo di passione ma al sonno al sogno alla veglia
affido armi di devozione e costruisco un dialogo
intorno all’anima ix.
Poesia, dunque, è luce e sogno, sottratti all’ombra, è viaggio in un territorio sterminato e sconosciuto, avventura e mistero, ma esiste ed è la cattura di quella porzione di realtà che trova uno sfavillio nel fitto della boscaglia, che emerge come “una corrente calda”, una “vena d’oro”.
– Quali intenti artistici e letterari ho perseguito – ?
– Non so -, risponderebbe Daniela, allo stesso modo dei poeti antologizzati da Spagnoletti.
Però le sue poesie sanno come dire (con voce limpida e pacata, fortemente personale ed estranea alle koinè di questi anni), quella libertà esistenziale che come una luce entra nelle piccole cose della vita.
In questa dizione si avverte, tra le altre, la lezione stilistica di Amelia Rosselli, ma senza clamore, senza grida, senza stridori, senza lacerazioni, senza quei ritmi percussivi, quei salti e quei lampi. Come se da quell’estrema incandescenza, Daniela avesse raccolto la colata di lava, concreta e piana, densa di elementi prosastici e quotidiani, che scorre con ritmi lenti e riflessivi.
i Cfr. Giacinto Spagnoletti, La Poesia che parla di sé, Salerno-Roma ,Edizioni Rispostes, 1996,p.129.
ii Op. cit. p. 83.
iii Op. cit. p. 105.
iv Op. cit. p. 98.
v Cfr. Sotto il sole, pp. 19, 20, 21, 22, 23, 28, 79.
vi Op. cit. p. 89.
vii Op. cit. p. 74.
viii Cfr. La cura delle cose, pp.: 17, 23, 56, 44, 66.
ix R. Barilli, L’arte contemporanea, Milano (1988), p. 140.